rivista anarchica
anno 33 n. 295
dicembre 2003 - gennaio 2004


lettere

 

Comunismo anarchico

In seguito alla pubblicazione, sul n. 290, dell’articolo di Felice Accame “Quel ‘matto’ di Cafiero”, al successivo intervento di Donato Romito con replica di Felice Accame sul n. 293, riceviamo dallo stesso Romito questo lungo brano di Carlo Cafiero, che pubblichiamo integralmente.

Il nostro ideale rivoluzionario è molto semplice: si compone, come quello di tutti i nostri predecessori, di questi due termini: libertà ed eguaglianza. Vi è solo una piccola differenza.
Ammaestrati dall’esperienza degli inganni commessi dai reazionari di ogni tipo e in ogni tempo per mezzo delle parole libertà ed eguaglianza, abbiamo ritenuto opportuno mettere a fianco di questi due termini l’espressione del loro esatto valore. Queste due monete preziose sono state falsificate tanto sovente che noi vogliamo in via definitiva conoscerne e misurarne esattamente il valore.
Affianchiamo dunque a questi due termini, libertà ed eguaglianza, due equivalenti, il cui significato preciso non può dar luogo a equivoci e diciamo: “Vogliamo la libertà, cioè l’anarchia, e l’eguaglianza, cioè il comunismo”.
L’anarchia, oggi, è l’attacco; è la guerra a ogni autorità, a ogni potere, a ogni Stato. Nella società futura, l’anarchia sarà la difesa, la barriera contro la restaurazione di qualsiasi autorità, di qualsiasi potere, di qualsiasi Stato: libertà piena e completa dell’individuo, che liberamente e spinto soltanto dai propri bisogni, gusti e simpatie, si unisce ad altri individui nel gruppo o nell’associazione; libero sviluppo dell’associazione che si federa con altre nel comune o nel quartiere; libero sviluppo dei comuni che si uniscono in federazione nella regione e così via, delle regioni nella nazione, delle nazioni nell’umanità.
Il comunismo, il problema che oggi ci interessa maggiormente, è il secondo termine del nostro ideale rivoluzionario.
Il comunismo attualmente è ancora l’attacco; non è la distruzione dell’autorità, ma la presa di possesso in nome di tutta l’umanità di ogni ricchezza esistente sulla terra. Nella società futura il comunismo sarà il godimento di tutta la ricchezza esistente da parte di tutti gli uomini, secondo il principio: da ciascuno secondo le sue facoltà, a ciascuno secondo i suoi bisogni, vale a dire: da ciascuno e a ciascuno secondo la sua volontà.
Bisogna tuttavia notare – e ciò in risposta soprattutto ai nostri avversari, i comunisti-autoritari o statalisti – che la conquista e il godimento di tutta la ricchezza esistente debbono essere, secondo noi, opera del popolo stesso. Non essendo né il popolo né l’umanità degli individui che possano afferrare la ricchezza e tenerla tra le mani, se ne è voluto concludere, è vero, che per questa ragione bisogna istituire tutta una classe di dirigenti, rappresentanti e depositari della ricchezza comune. Ma noi non siamo di questo parere. Nessun intermediario, nessun rappresentante, che finisce sempre per rappresentare solo se stesso! Nessun moderatore dell’eguaglianza e nemmeno nessun moderatore della libertà! Nessun nuovo governo o nuovo Stato, per quanto possa definirsi popolare o democratico, rivoluzionario o provvisorio.
Poiché la ricchezza comune è diffusa su tutta la terra e appartiene di diritto all’umanità intera, coloro che si trovano alla portata di questa ricchezza e in grado di utilizzarla la sfrutteranno in comune. Gli abitanti di un dato paese utilizzeranno la terra, le macchine, i laboratori, le case ecc., e se ne serviranno tutti in comune. Come parte dell’umanità, eserciteranno di fatto e direttamente il loro diritto a una parte della ricchezza umana. Ma, se un abitante di Pechino venisse in questo paese, avrebbe gli stessi diritti degli altri: usufruirebbe, in comune con gli altri, di tutta la ricchezza del paese, cosi come avrebbe fatto a Pechino. [...].
Ma ci viene chiesto: è attuabile il comunismo? Avremo prodotti a sufficienza per lasciare a ciascuno il diritto di prenderne a volontà, senza richiedere agli individui più lavoro di quanto ne vorranno fare?
Rispondiamo: sì. Certamente, si potrà applicare questo principio: da ciascuno e a ciascuno secondo la sua volontà, poiché nella società futura la produzione sarà tanto abbondante che non ci sarà alcun bisogno di limitare i consumi, né di esigere dagli uomini più lavoro di quanto potranno o vorranno dare.
Quest’immenso aumento di produzione, di cui oggi non siamo nemmeno in grado di farcene un’idea, può esser immaginato se esaminiamo le cause che lo provocheranno. Tali cause sono essenzialmente tre:
1. L’armonia della cooperazione nei diversi rami dell’attività umana, sostituita alla lotta attuale che si fa con la concorrenza.
2. L’introduzione su scala immensa di macchine di tutti i tipi.
3. L’economia considerevole delle forze di lavoro e delle materie prime, ottenuta con l’abolizione delle produzioni nocive o inutili. [...].
Bisogna infine tener conto dell’economia immensa che si farà sui tre elementi del lavoro: la forza, gli strumenti e la materia, che oggi sono orrendamente sprecati poiché li si utilizza per la produzione di cose assolutamente inutili, se non addirittura dannose per l’umanità.
Quanti lavoratori, quanto materiale e quanti strumenti di lavoro sono usati attualmente per l’esercito di terra e di mare, per costruire le navi, le fortezze, i cannoni e tutti quegli arsenali d’armi offensive e difensive. Quante di queste forze sono impiegate per produrre oggetti di lusso che servono a soddisfare soltanto i bisogni della vanità e della corruzione!
E quando tutta questa forza, tutte queste materie, tutti questi strumenti di lavoro saranno applicati all’industria, alla produzione di oggetti che essi stessi serviranno a produrre, quale aumento prodigioso della produzione vedremo realizzarsi! [...].
Non è tutto affermare che il comunismo è una cosa possibile: possiamo affermare che è necessario. Non solo, si può essere comunisti: bisogna esserlo, a rischio di fallire lo scopo della rivoluzione.
In effetti, se dopo la messa in comune degli strumenti di lavoro e delle materie prime mantenessimo l’appropriazione individuale dei prodotti del lavoro, saremmo costretti a conservare il denaro, e, di conseguenza, un’accumulazione di ricchezza maggiore o minore a seconda del merito, o piuttosto dell’abilità di ciascuno. In questo modo l’eguaglianza sparirebbe, poiché colui che giungesse ad avere ricchezze maggiori si sarebbe già elevato per questo stesso fatto sopra il livello degli altri. Non resterebbe che un passo da fare perché i controrivoluzionari restaurassero il diritto d’eredità. E, in effetti, ho sentito un socialista ben noto, proclamantesi rivoluzionario, sostenere l’assegnazione individuale dei prodotti e finire col dichiarare che non vedrebbe alcun inconveniente se la società permettesse la trasmissione ereditaria di questi prodotti: la cosa, secondo lui, non avrebbe conseguenze. Per noi, che conosciamo da vicino i risultati raggiunti dalla società con questa accumulazione delle ricchezze e loro trasmissione ereditaria, non vi possono esser dubbi al proposito.
L’assegnazione individuale dei prodotti ristabilirebbe non soltanto la disuguaglianza tra gli uomini, ma anche l’ineguaglianza tra i diversi generi di lavoro. Vedremmo ricomparire immediatamente il lavoro “pulito” e il lavoro “sporco”, il lavoro “nobile” e quello “spregevole”; il primo sarebbe fatto dai più ricchi, il secondo sarebbe attributo dei più poveri. Allora, non sarebbero più la vocazione e il gusto personale a spingere l’uomo a darsi a un genere di attività piuttosto che a un altro: sarebbe l’interesse, la speranza di guadagnare di più in una data professione.
Rinascerebbero cosi la pigrizia e la diligenza, il merito e il demerito, il bene e il male, il vizio e la virtù e, di conseguenza, la “ricompensa” da un lato e la “punizione” dall’altro, la legge, il giudice, lo sbirro e la prigione.
Vi sono socialisti che insistono nel sostenere quest’idea dell’assegnazione individuale dei prodotti del lavoro basandosi sul sentimento di giustizia.
Strana illusione! Col lavoro collettivo, impostoci dalla necessità di produrre in grande e di applicare su larga scala le macchine, con questa tendenza, sempre più accentuata, del lavoro moderno a servirsi del lavoro delle generazioni precedenti come si potrebbe determinare qual è la parte di prodotto dell’uno e quale dell’altro? E assolutamente impossibile, e i nostri stessi avversari lo sanno tanto bene che finiscono per dire: “Ebbene, ci baseremo per la ripartizione sull’ora di lavoro”; ma nello stesso tempo ammettono essi stessi che sarebbe ingiusto, poiché tre ore di lavoro di Pietro possono spesso valerne cinque di Paolo.
Una volta ci dicevamo “collettivisti” per distinguerci dagli individualisti e dai comunisti-autoritari, ma in fondo eravamo semplicemente comunisti-antiautoritari, e, dicendoci “collettivisti” pensavamo di esprimere in questo modo la nostra idea che tutto dev’essere messo in comune, senza fare differenze tra gli strumenti e i materiali di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo.
Ma un bel giorno vedemmo spuntare una nuova setta di socialisti, i quali, risuscitando gli errori del passato, si misero a filosofare, a sceverare, a distinguere su questa questione.
Ma affrontiamo finalmente la sola e unica obiezione seria avanzata dai nostri avversari contro il comunismo.
Tutti sono d’accordo che si va necessariamente verso il comunismo, ma ci viene osservato che, all’inizio, non essendo sufficientemente abbondanti i prodotti, bisognerà stabilire il razionamento, la divisione, e che la miglior divisione dei prodotti del lavoro sarebbe quella basata sulla quantità di lavoro fatta da ciascuno.
A questo rispondiamo che nella società futura, anche quando si fosse costretti a razionare i beni, si dovrebbe rimanere comunisti; cioè il razionamento dovrebbe esser fatto non secondo i meriti, ma secondo i bisogni.
Prendiamo la famiglia, questo piccolo esempio di comunismo, di un comunismo autoritario piuttosto che anarchico, è vero, ma che d’altronde non cambia nulla in questo caso.
Nella famiglia il padre guadagna, supponiamo, cento soldi al giorno, il figlio maggiore tre franchi, un ragazzo più giovane quaranta soldi, e il minore soltanto venti soldi al giorno. Tutti portano il denaro alla madre che tiene la cassa e dà loro da mangiare. Non tutti portano in modo eguale, ma a pranzo ciascuno si serve come vuole e secondo il proprio appetito: non vi è razionamento. Ma arrivano tempi brutti e l’indigenza costringe la madre a non rimettersi più all’appetito e al gusto di ciascuno per la distribuzione del pranzo. Bisogna dividere in razioni e, sia per iniziativa della madre, sia per tacito accordo, le porzioni di tutti vengono ridotte. Ma notate, questa ripartizione non vien fatta secondo i meriti perché sono soprattutto i ragazzi più giovani a ricevere la parte maggiore, e, per quel che riguarda il boccone migliore, è riservato alla vecchia che non guadagna proprio nulla. Anche durante la carestia si applica in famiglia questo principio del razionamento secondo i bisogni. Potrebbe essere altrimenti nella grande famiglia umana del futuro?
È evidente che ci sarebbe altro da dire su questo argomento, se non lo trattassi davanti ad anarchici.
Non si può essere anarchici senza essere comunisti. In effetti, la minima idea di limitazione contiene già i germi dell’autoritarismo. Non potrebbe manifestarsi senza generare immediatamente la legge, il giudice, il gendarme.
Dobbiamo esser comunisti, perché nel comunismo realizzeremo la vera eguaglianza. Dobbiamo essere comunisti perché il popolo, che non afferra i sofismi collettivisti, capisce perfettamente il comunismo, come gli amici Réclus e Kropotkin hanno già fatto notare. Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l’anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione.

C. Cafiero, Anarchia e comunismo. Riassunto del discorso pronunciato dal compagno Cafiero al Congresso della federazione giurassiana, in “Le Revolté”, 13-27 novembre 1880; ora in C. Cafiero, La rivoluzione per la rivoluzione, a cura di G. Bosio, Roma 1970, pp. 47-56.

Donato Romito
(Pesaro)

 

Propongo una lista

Il 5-6-7 dicembre, Fiera dei Particolari. La mia idea ha trovato subito accoglienza dai ragazzi – per me lo sono – del Leoncavallo che ha posizione e strutture in Milano tali da poter accogliere i “miei” vignaioli.
So per esperienza quasi sessantennale del dissidio singolare che nasce per una sorte inesplicabile di spontaneità, in ogni persona che ha scelto, o comunque si obbliga a scegliere, il percorso personale verso il massimo possibile di libertà.
Dovrebbe subito conseguirne – questo sì in modo del tutto chiaro e spontaneo – la considerazione che il massimo possibile di libertà proprio coincide con il massimo possibile di libertà dell’altro.
L’ho sentito asserire, innumerevoli volte, dagli uomini della sinistra. Purtroppo, pressoché subito, si smentivano con avversioni imbarazzanti, ripetute, infinite. Prese di posizione e di contrasto, dannosissime, con ogni iniziativa di “quell’altro”, anche se a conoscenza della sua volontà di favorire, comunque, la sinistra.
Di politica so nulla di nulla. Al termine della guerra che non ho fatto per la giovane età (nel 1944 sino a mezzo 1945 sono stato internato in un campo di lavoro della vicina Svizzera in cui avevo trovato rifugio) ho frequentato ogni luogo in cui presupponevo di apprendere politica, con varie esperienze di cui la più importante, dal ’56, “I Problemi del Socialismo” editi con Lelio Basso. Ne uscii nel 1959, dopo un congresso in Napoli che aveva visto la vittoria di un Nenni che considerava compagno il giovanissimo Craxi.
Da allora sono tornato a riferirmi – quanto a politica, dico – alle parole delle lezioni ultime (debbo credere) tenute da Benedetto Croce in Milano nel palazzotto liberale di Corso Venezia, proprio di fronte ai Giardini Pubblici.
Ci aveva insegnato, con espressioni di notevole impegno e facilissima comprensione, essere l’anarchia – pura, armonica e razionale – il punto d’arrivo definitivo e finalmente gioioso del lungo percorso umano.
Contraddiceva i teorici dell’anarchismo sui tempi. All’anarchia – pura, armonica e razionale – si sarebbe potuti arrivare dopo altri millenni di oppressione statale.
Semplice, vero? La mia politica è tutta lì, con una convinzione: i mutamenti avvenuti con la fine del secondo millennio, per merito (sì merito) della globalizzazione – per cui non ho mai scritto no-global ma new-global – hanno abbreviato i tempi dell’evenienza anarchica. Saranno meno – io mi auguro, molto meno – di millenni per giungere a quella che è un’utopia. Vivan las utopias.
Mi sono comportato, in ogni congiuntura ritenuta importante, in modo di favorire la liberazione.
Certo, a volte ho sbagliato – faccio esempio nella scelta del voto per un partito politico – mai, proprio mai, con la volontà di sbagliare. Ho sempre considerato le opinioni degli altri che si dichiaravano, anche, per la liberazione (esclusi quindi, a priori, i fascisti e gli stalinisti) degne d’interesse e di discussione. Più ancora, degne d’appoggio e d’aiuto anche se, in qualche misura, in contrasto o quantomeno in sospensione, rispetto all’anarchia (o, più modesto, rispetto al mio pensiero di ciò che è o non è a favore dell’anarchia).
Ecco allora, in particolare, la mia adesione a ciascuna delle iniziative tese a soddisfare il progresso, appunto della liberazione umana: circoli sociali, centri anarchici, volontariato anche se “marcato” da fedi religiose, accoglienza immigrati, quant’altro.
Ed ecco il mio convincimento – contro la decisione così dannosa da parte dei dirigenti dei movimenti anarchici di un distacco completo dal mondo politico e dalle sue evenienze – di avere il maggior rapporto – ripeto: fatta esclusione per fascisti e per stalinisti – con ogni parte, così da portare avanti con discussioni dialettiche i problemi, anziché bloccarli, sino agli episodi, purtroppo a volte violenti, di ostilità. La società la cambi se la vivi, se ci sei dentro, se puoi operare con trattative continue all’inizio per un mutamento sino – non ti spaventi il termine – all’eversione. Non ha nulla di antidemocratico. Quando condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione, è l’apice della democrazia.
Proprio nel ricordo delle parole di Benedetto Croce, la conferma del massimo errore commesso dai teorici dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo. Per più di due secoli, tutto l’ottocento e tutto il novecento, hanno teso a valorizzare le invenzioni della scienza per una non meglio identificata modernizzazione, anche a danno di ciò che era stato, nei millenni, a vantaggio dell’uomo, l’agricoltura e l’artigianato in primis. Ho già dichiarato la mia debolezza nell’argomentare di politica – e più ancora nel farla – ma sino a oggi non ho avuto seria contrapposizione al mio ripetuto assunto essere stato il massimo degli errori l’ostacolo determinante ad un reale progresso.
Se vogliamo andare molto, molto avanti, dobbiamo tornare un passo indietro. Ho scritto e scrivo dei prodotti della terra non solo perché necessari alla sopravvivenza, soprattutto perché esemplari di come un uomo capace possa vivere, e far vivere i propri familiari, in condizioni di benessere. I prodotti – sostengo anche quelli dei luoghi più ostili, per la durezza delle condizioni ambientali – se portati a compimento nella loro terra, assumono in sé per sé, a causa dell’inimitabilità, valori alti, che trovano collocazione ed acquisto alla sola condizione che siano proposti. Proprio da ciò scende l’affermazione: le aziende agricole “industriali”, quelle che hanno puntato anziché sui contadini, sui mezzi, non hanno, nei fatti, ragione di esistere. Il mezzo, qualsiasi mezzo, che non abbia l’assistenza fisica e intellettuale del singolo uomo, contadino, esperto, porta a un degrado, se non a un degrado, ad un’omologazione in qualche modo dannosa.
Lo stesso, identico, per ciò che riguarda la trasformazione dei prodotti della terra. L’industria alimentare è un controsenso da che porta alla pressoché immediata decadenza delle valenze naturali. A parte il fatto che un’industria, per definizione, non può non tendere al profitto senza il purché minimo cedimento a ciò che è “sentimentale”. Il contadino e l’artigiano, mettono certo in conto il profitto, senza il quale non avrebbero la possibilità di vivere e far vivere, ma ci aggiungono sempre, per ragioni storiche e culturali, inalienabili contro ogni tentativo, la volontà del ben eseguito e del coinvolgimento appunto sentimentale.
Qui, da noi, può sembrare ch’io sia l’inventore o lo scopritore – fai tu – di una via nuova per la liberazione dell’uomo. Mi piace contraddirlo. I contadini del Chiapas, proprio con la via campesina, mi hanno, ci hanno, preceduto, con pene e sacrifici inenarrabili. I risultati migliori li hanno ottenuti, li stanno ottenendo, con l’instaurazione di trattative e quindi con la rinuncia al solo mezzo delle armi, con le quali avrebbero corso il rischio – io penso la certezza – dello sterminio e dell’estinzione.
Sono le trattative – intransigenti nei luoghi in cui l’intransigenza è necessaria – con le autorità a portare attraverso modificazioni continue delle leggi, prima al miglioramento della situazione sociale, poi all’eversione senza violenze di cui non abbiamo paura. Anzi e meglio: di cui nessuno deve e può avere paura.
Io mi auguro che la Fiera dei Particolari milanese – nata sul successo clamoroso di Terra e Libertà/Critical Wine veronese – inneschi una serie di manifestazioni in ogni città italiana che dimostri agli ignari come sia iniziato il terzo millennio, da cui l’uomo cosciente e rispettoso della libertà propria ed altrui, si attende l’anarchia pura, armonica e razionale.
I mercati che verranno ad aprirsi – con la messa in evidenza: dei prodotti contadini e artigianali protetti dalle Denominazioni d’origine Comunale, garantite da Sindaci che debbono essere autorità amministrative e non politiche (non mi stancherò mai di ripetere l’affermazione di Brunetto Latini, scrittore fiorentino del ‘200 di cui Dante riconosceva la maestria «Le uniche autorità cui è dovuto rispetto sono la madre, il padre e il comune»; ove per comune era certo intesa la comunità) – avranno condizioni di favore esponenziale nei confronti di ogni altro ed in primis dei supermercati delle multinazionali, con vantaggi appunto esponenziali a favore dei contadini, degli artigiani e dei cittadini. Soprattutto per la riduzione massiccia dei prezzi dovuta alla pressoché totale scomparsa dell’intermediazione.
I politici – all’inizio entusiasti della mia proposta 1999 per una legge d’iniziativa popolare che imponesse le De. Co. – hanno tradito proprio nel momento (ma forse scriverei meglio proprio per il momento) in cui la legge costituzionale n. 3 del 2001 ha nei fatti anticipato la necessità dell’iniziativa popolare col passaggio del potere di legislazione (e di modifica della legislazione) dallo Stato – non alle Regioni, non alle Province – diretto al Comune; si sono infatti accorti che quella legge, in quel dispositivo, era anarchica (s’indigni pure chi pensa che legge e anarchia siano in contrasto; o meglio legga Reclus).
Il successo – sono disposto a scommettere – clamoroso ed eversore dei mercati sociali, proposti in ogni città, convincerà – ed è proprio l’ora– gli anarchici ad abbandonare l’assenza nelle istituzioni e quindi anche dal voto.
Propongo infatti, da cittadino e non da politico, che già nelle prossime elezioni europee siano presenti liste con simbolo non equivoco i centri sociali, cui concorrano solo gli appartenenti in giovane età dei centri sociali appunto, dei circoli anarchici, del volontariato e delle associazioni di immigrati.
Per quanto scandalo possa aggiungere, fu interdizione – ahinoi, intelligente – da parte dei conservatori più maliziosi, l’aver convinto: sarebbe stato meglio, in base alle loro teorie, che gli anarchici fossero assenti dalle elezioni. Io – che non farò mai parte di una lista per la sola ragione dell’età – dichiaro: fu vero e proprio autolesionismo; ci è costato troppo caro.

Luigi Veronelli
(Bergamo)

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Andrea Della Bosca (Cosio Valtellino) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Davide Foschi (Gambettola) 15,00; Roberto Di Giovannantonio (Roseto degli Abruzzi) 5,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa) ricordando Gianni Furlotti, 30,00; Daniele Rosati (Modena) 2,00; Giuliano Galassi (Monteprandone) 5,00; Fausto Franzoni (Pianoro) 5,00; Massimo Bellini (Riola) 5,00; Maurizio Pastorino (Torino) 5,00; Dario Cercek (Lecco) 15,00; Andrea Catalano (Palermo) 5,00; Giampiero Manuali (Perugia) 16,00; Silvia Golino (Cornedo all’Isarco) 6,00; Patrizio Quadernucci (Bobbio) 11,00; Marco Breschi (Pistoia) ricordando Aurelio Chessa, 150,00; Antonio Abbotto (Sassari) 5,00; Massimo Bianchi (Codognè) 100,00; Antonio Mencarelli (Villaggio Prenestino) 4,00; Giuseppe Zanlungo (Mentana) 4,00; Andrea Ferrari (Reggio Emilia) vendita libri di Alfonso Failla, 20,00; Alessandro Natoli (Cogliate) 20,00; Simona Biancucci (Sant’Elpidio a Mare) 5,00.
Totale euro 968,00.

Abbonamenti sostenitori.
Marco Breschi (Pistoia) 100,00; Fabrizia Golinelli (Carpi), 150,00; Zelinda Carloni e Adriano Paolella (Roma) 100,00; a/m Alfredo Gagliardi, Ida Gagliardi (Ferrara) 100,00.
Totale euro 415,00.