rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003


De André

Maledettismo e anarchismo
di Mauro Macario

 

Il poeta in musica si spinge oltre scardinando regole e convenzioni: di questi artisti ne nascono uno o due nell’arco di un secolo. È questo il caso di Fabrizio.

Da alcuni anni, tra libri, saggi e convegni, si è scandagliato molto nella figura e nell’opera di Fabrizio De André fino a risalire alle sue radici, ai suoi referenti, alle sue letture. Ancora oggi si scoprono o si sottolineano nuove e più complete sfaccettature di questo autore-interprete il cui flusso, addizionandosi nel solco fluviale della sua poetica pare non arrestarsi, anzi crea affluenti collaterali che poco a poco crescono diventando altri fiumi in piena. Ritengo che il panorama storico-critico abbia portato alla luce innanzi tutto il fenomeno poco noto o mal equivocato del “poeta in musica”, un “distinguo” necessario per determinare le scansioni diversificate nell’ambito della canzone d’autore, senza peraltro svilire nessuno. Bisogna pur dire che la maggior parte dei cantautori che hanno timbrato il nostro tempo rinnovando il clima generale della canzone attraverso la dimensione poetica e sociale non sempre hanno rischiato lo strappo traumatico dalla struttura tradizionale della canzone tendendo l’orecchio alle scorciatoie sonore dell’ascolto popolare. Una canzone che in loro vive non scorporata dagli elementi che la costituiscono: voce, testo, musica. Il poeta in musica è un’altra cosa, si spinge oltre scardinando regole e convenzioni e di questi artisti ne nascono uno o due nell’arco di un secolo. Il poeta in musica è invece individuabile anche in quei tre elementi separati, soprattutto nel testo. Un testo, ad esempio, che se solo recitato vive così, isolatamente, senza musica né voce, in una sorta di test disciplinare avendo trovato, con talento, genialità e fatica, una propria lingua, stilisticamente alta, compiuta, originale, unitamente a un’urgenza contenutistica di ordine esistenziale, etico, politico. In Europa il poeta in musica nasce nel dopoguerra in Francia, a Parigi, determinando quella che fu chiamata “la chanson de Saint Germain des Près” e i nomi che ci vengono subito in mente sono quelli di Léo Ferré, Georges Brassens, Boris Vian, Jacques Brel. Autori profondamente diversi tra loro ma accomunati da un identico sogno: l’anarchia. Le radici di Fabrizio.
Il poeta in musica è un poeta “tout court” che infastidisce gli accademici oscurantisti per l’affiancamento della parola alla musica ritenuta frivola e dequalificante mentre sappiamo che funge da veicolo emotivo all’azione penetrativa della parola geneticamente compatibile con il pentagramma e che da questo ne assorbe tutto il beneficio come una cellula staminale che salva la poesia dall’ingerenza della civiltà videotecnologica.

Forte matrice anarchica

Sa bene Fernanda Pivano e ce lo ha insegnato, quanto sia stato importante per i poeti beat il rapporto con la musica, dal bebop di Charlie Parker, al jazz, al folk, al pop, e non solo in sede di scrittura “spontanea” ma anche durante i loro “reading” pubblici. Penso che in questo senso la musica e il canto abbiano enormemente allargato la fruizione della poesia portandola dai salotti elitari alle strade del mondo come un linguaggio forse sommerso ma primario tra le genti.
E di quel movimento di stampo planetario che si ispirò più o meno coscientemente alla cultura beat, voglio ricordare l’inseminazione luminosa pre-libertaria che fecondò le nostre tenere coscienze d’allora alimentando valori come l’antimilitarismo, il pacifismo, il senso della comunità universale nel rispetto dell’altro. Una posizione, a quei tempi, nettamente inversa e invisa all’establishment istituzionale diviso tra profitto e bomba atomica.
Ecco dunque la parola e la musica che tornano insieme perché di questo si tratta: riportare la poesia alla sua fonte originaria quando non era separata dalla musica. Di Fabrizio s’è detto tanto: Fabrizio come uno dei più grandi poeti del secolo, Fabrizio raffinato ricercatore musicale, Fabrizio autore dalla forte matrice anarchica che detesta e rifiuta ogni forma di autorità. Una natura libertaria la cui destinazione finale, dopo la critica al potere, è la “pietas” verso gli ultimi, i dannati della terra che proprio sulla terra conoscono il loro inferno. Una “pietas” che talvolta è stata strumentalizzata da certe aree clericali che hanno cercato di digerirla e metabolizzarla parlando di “anarchismo cristiano” mentre in Fabrizio la “pietas” è laica, terrena e anche reattiva contro chi riduce gli ultimi a essere tali. Come, d’altra parte, il suo Gesù de La buona novella, già così disegnato e designato dagli stessi Vangeli Apocrifi. Si è parlato più spesso di Fabrizio nella sua fase centrale e finale quando ormai le stazioni dell’esordio, quelle intermedie e quelle formative, erano cronologicamente lontane ma per continuare a tracciare la mappa della sua personalità così interconnessa con una dinamica conflittuale ad alto potenziale etico-esistenziale, vorrei riportare l’attenzione su un aspetto che forse è stato scavalcato dallo scorrere del tempo e dal suo libertarismo raggiunto, un elemento che però non è disgiunto dal suo traguardo utopico e che forse ne rappresenta l’anticamera gestatoria. Ed è “il maledettismo” che nel periodo iniziale della sua carriera caratterizzò alcune sue opere e l’immagine stessa che di lui a noi semplici ammiratori giungeva condividendo con le sue nascenti posizioni anarchiche che andavano via via sempre più definendosi fino a staccarsi da quel maledettismo per votarsi completamente alle realtà locali, alle etnie minori, e a circumnavigare nella sua odissea geomusicale il bacino del Mediterraneo, dove il canto delle sirene non è altro che l’anima storica di quelle terre a noi confluenti e interscambiabili in un unico diapason, in un comune sentire e ritrovarsi.
Una convivenza, quella tra anarchismo e maledettismo, che già preesisteva proprio nei suoi referenti francesi citati. Autori che vivevano questa “bidimensionalità”, ora introflettendosi nella misantropia “maudit”, ora aprendosi alla rivendicazione sociale in chiave libertaria. Addirittura Léo Ferré musicò e cantò i poeti “maledetti” come Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Rutebeuf, Angiolieri e Villon. Questi ultimi due – magico parellelismo fraterno – furono affrontati anche da Fabrizio quando lavorò a S’i fosse foco di Cecco Angiolieri e a La ballata degli impiccati sollecitata dal clima della Ballade des pendus di François Villon. Quella del “maledettismo” è innanzi tutto una rivolta esistenziale contro l’ingiustizia genetica insita nella vita, una contrazione acre ad intestino cieco che reagisce ad ogni forma di sublimazione dottrinale con una rappresaglia solipsistica disperata e onnivora, una ritorsione che sbanda e deraglia poiché priva di bersagli concretamente individuabili e che appunto introflette nell’oscurità il poeta “contro” senza per altro impedirgli di inveire contro quei modelli di vita sociale e di morale istituzionalizzata che a lui si contrappongono e che appartengono da sempre al potere. È come se sussistesse il versante teso all’utopia estrema e quello che prolassa nella consapevolezza della natura umana, una sorta di disperazione critica, una lotta impari tra l’ineluttabile e il liberabile.

Terrificante efficacia

Seguendo il breve cammino di questi “fiori del male” che Fabrizio ha seminato nel suo giardino incantato strappiamo il primo petalo con Il Testamento del ’63. Qui il codice espressivo del “maledetto” è pienamente rispettato ed emerge una volta scrostata l’ironia dissacrante che la riveste. Un altro petalo nero è Delitto di paese da L’assassinat di Brassens, datato ’65. Arriviamo, l’anno successivo, ad incontrare un piccolo capolavoro di maledettismo La Ballata dell’amore cieco, terribile martirio che finisce nel sangue, nel mattatoio dei sentimenti. La corolla continua a denudarsi nel ’67 con il brano La Morte dove la disgregazione corporale sfiora toni espressionistici di terrificante efficacia.
Apriamo infine lo spiraglio sulla buia serra di Tutti morimmo a stento (’68) un’opera purtroppo – dico io – abiurata da Fabrizio ma che forse nel suo essere una cantata sinfonica delle tenebre meglio rappresenta questo zenit oscuro proprio quando le tenebre sono fraterne come in Baudelaire.
Ricordiamo il cupore gotico di Inverno, la dolcezza crudele e ingannevole de La leggenda di Natale, la nuda desolazione del Cantico dei drogati scritta con Riccardo Mannerini, poeta anarchico con un destino maledetto conclusosi con il suicidio nel 1980. Il brano detto da Fabrizio Recitativo esprime con estrema precisione questa commistione tra tormento esistenziale e rivendicazione esterna proprio perché il testo affianca agli strali anatemici contro giudici, banchieri boia, immagini buie e tetre, dall’ultimo rantolo alla falce livellatrice della morte.

Giudici eletti, uomini di legge
noi che danziam nei vostri sogni ancora
siamo l’umano desolato gregge
di chi morì con il nodo alla gola.
Quanti innocenti all’orrenda agonia
votaste decidendone la sorte
e quanto giusta pensate che sia
una sentenza che decreta morte?

(……………………………)
Uomini, poiché all’ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia,
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce.
(da Tutti morimmo a stento)

Non solo nell’impronta poetica Fabrizio rivela questa consanguineità ma anche nella sua breve attività di saggista, di “mâitre à penser”.
Prendiamo la sua folgorante prefazione all’opera in versi di François Villon – emblema eclatante del poeta “maudit” – dove per accorciare la distanza, al di là del tempo, e affermare la sua fraternità spontanea a questo autore gli scrive una lettera piena di gratitudine e devozione ma con quella ravvicinata colloquialità in uso fra amici di vecchia data o fra un discepolo che riconosce nel maestro un compagno di strada. Una lettera imbucabile negli interstizi dell’atemporalità o attraverso la catapulta delle affinità elettive, vera posta prioritaria che trova la sua scorciatoia in vie misteriose che sboccano nei luoghi inaccessibili dove si radunano i poeti in conclave anatemico, in un sabba libertario. È come se i due – Villon e Fabrizio – s’incontrassero in una ideale taverna dopo una rissa, tra un boccale di vino e sfrontate risa di allegre puttane, per riprendere il filo di un “discorso sospeso”. Ecco alcuni stralci di questo scritto: “Caro François, nel 1963 mi capitò di leggere su un quotidiano che in Sudafrica le autorità celebravano senza saperlo il cinquecentesimo anniversario della tua scomparsa: la corte di Johannesburg aveva destinato all’impiccagione otto presunti malviventi, naturalmente neri. L’estensore dell’articolo così descriveva il disperato infantile esorcismo del loro terrore: ‘Ballavano e cantavano sotto le corde prima di essere appesi’. Poi si dilungava appena nel macabro dettaglio del subito dopo. “Scalciarono per un po’, alcuni sono durati un attimo, altri qualche minuto’. Mi prese la rabbia giusta per scriverne una ballata. Come ancora oggi si usa dire in Gallura ‘Chistu tocca ponillo in canzone’, questo bisogna metterlo in canzone, dargli una musica un metro una rima, perché non scompaia dalla memoria collettiva. Se non avessi trovato in te un così importante predecessore probabilmente la mia canzone non porterebbe il titolo che tu mi hai suggerito: finalmente trovo l’occasione per ringraziarti”.
Poco più avanti prende spunto dalla vita sofferta di Villon: “ E allora quel ‘Thibault d’Aussigny’ sotto la cui mano tante pene hai subito e il cui smisurato potere arriva ad ‘insanguinare le vie di Parigi’ e che perciò stesso tu ‘rinneghi come tuo vescovo’ ricompare insieme a una scelta schiera di potentissimi nemici dell’umanità in una pagina di Grozio: ‘se il genere umano appartiene ad un centinaio di uomini, è dubbio che questo centinaio di uomini appartenga al genere umano’”.

Lucciole utopiche

In un altro punto del testo Fabrizio, introflettendosi, gli riparla dalla propria trincea epocale: “Io ti scrivo da un’altra epoca illuminata di ragione e di tecnica, dove l’uso della corda ‘che fa sapere al tuo collo quanto pesa il tuo culo’ si è fatto più raro e lontano senza tuttavia scomparire del tutto. La stessa guerra, rinnovatasi di cento anni in cento anni, non è ancora finita e gli uomini amano come allora menare le armi e le mani e se non ci sono più le caldaie per far bollire i falsari, gli strumenti per dare la morte si sono perfezionati al punto che uno solo di quei cento onnipotenti, un solo Thibault d’Aussigny può decretare la fine dell’umanità in un tempo così breve quanto la pressione di un dito su un pulsante. Una moderna forma d’indagine che studia gli uomini come masse di casi dividendo il risultato per il numero senza distinguerne i diversi individuali destini, ci informa che oggi siamo tutti molto più ricchi di quanto non lo fossero i tuoi contemporanei, eppure le richieste d’aiuto da parte dei poveri si fanno ogni giorno più disperate e impellenti ottenendo esiti peggiori della tua ‘Istanza a monsignore di Borbone’ perché ti facesse ‘un prestito grazioso di sei scudi’. Ancora oggi siamo capaci di forti sentimenti ma più volentieri li trasformiamo in lacrime seduti a teatro di fronte al dramma di Oreste o di Amleto e ritornando a casa ad occhi asciutti non degniamo neppure di uno sguardo la nostra vicina intenta a contare gli spaghetti per sfamare i figli”.
Certo, da Tutti morimmo a stento a oggi sono passati degli anni e ancor di più dal primo Fabrizio “dell’amore cieco o della vanità”. Dai brani ombrosi alla solarità mediterranea l’asse di rotazione poetica ha compiuto il suo girotondo portandoci per mano fino all’età matura e proprio quando, a causa dell’usura esistenziale, avevamo perso il bagliore delle stelle, Fabrizio ce lo ha restituito sotto forma di lucciole utopiche nella breve o lunga estate della speranza. E tra anarchismo e maledettismo non so più se uno abbia generato l’altro ma le vie dell’anarchia sono infinite perché infinita è l’anarchia.

Mauro Macario

Fabrizio De André visto da Massimo Caroldi