rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003


nonsolo Saddam

La Cina e i dissidenti
di Jean-Jacques Gandini

 

Si fa un gran parlare di diritti umani e della ferocia del satrapo mediorientale, ma della grande tigre asiatica…?

La Cina procede a marce forzate da ormai oltre vent’anni verso il futuro radioso del pan-capitalismo, con un tasso di crescita ineguagliato che ha portato a quadruplicare il suo PNL sotto la bandiera delle «quattro modernizzazioni»: agricoltura, industria, scienza e tecnica, difesa, ma è sempre ferma rispetto alla «quinta modernizzazione: la democrazia» (1).
Il presidente della Repubblica, Jiang Zemin, l’ha ricordato senza esitazioni: «La Cina non adotterà mai un sistema politico all’occidentale», e ha chiamato i suoi compatrioti «a seguire nei prossimi cent’anni la linea fondamentale del partito comunista cinese» (2). Quest’ultimo si considera infatti il solo garante della stabilità sociale ed è considerato sovversivo qualsiasi movimento di protesta e di agitazione che, come tale, è severamente punito. In questa logica paranoica, gli oppositori vengono assimilati a malati mentali, perché bisogna essere pazzi per volersi opporre all’autorità. Secondo un rapporto pubblicato nel luglio 2002 da Human Rights in China, sarebbe stata creata negli anni ’80 una rete di una ventina di ricoveri psichiatrici specializzati, detta Ankang (Tranquillità e Salute), collegata direttamente al ministero della Sicurezza pubblica, e ispirata ai metodi messi a punto in passato dai medici sovietici per assimilare gli oppositori a malati mentali, curati a forza di farmaci e di elettroshock.
Si stima intorno ad almeno tremila il numero di casi politici che negli ultimi due decenni avrebbe condotto all’internamento e al trattamento psichiatrico forzati. E una volta entrati nella spirale Ankang, vi si rimane praticamente per sempre. Citiamo due casi tipici che, grazie all’ostinazione dei loro cari e ai contatti di HRIC e Amnesty International, sono stati portati a conoscenza dell’opinione pubblica mondiale: Wan Wanxing è internato dal giugno del 1992 per aver srotolato uno striscione in piazza Tienanmen che commemorava la sanguinosa repressione attuata tre anni prima, nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989; Cao Maobing è in carcere dal dicembre del 2000 per aver tentato di dar vita a un sindacato autonomo nel Jiangsu.
Il campo degli oppositori, quindi, è quasi illimitato: esso comprende tanto la base che manifesta il proprio scontento contro la corruzione, quanto le minoranze etniche in lotta contro la politica di assimilazione forzata, come i tibetani e gli uiguri, i credenti che rifiutano di venir irreggimentati nelle chiese «patriottiche», il movimento Falungong che coniuga esercizio fisico e spirituale attinti dalla tradizione del Giqong e che, come setta, sviluppa una pratica di aiuto reciproco e di solidarietà che attrae un numero sempre maggiore di adepti, i navigatori di Internet che visitano siti stranieri critici nei confronti del regime, i sindacalisti autonomi e i militanti politici che rifiutano l’egemonia del partito comunista. Ci concentreremo qui su queste ultime tre categorie, poiché la loro unità potenziale potrebbe far vacillare seriamente il potere costituito.

Internet

La crescita del numero degli internauti cinesi è esponenziale. In meno di dieci anni si è passati da zero a quarantacinque milioni di persone ed entro la fine del 2004 si dovrebbero raggiungere i sessanta milioni, l’equivalente della popolazione francese. In un grande discorso solenne sulle tecnologie dell’informazione pronunciato in occasione di un seminario del PC a Pechino l’11 giugno del 2001, pur riconoscendo che Internet «ha notevolmente contribuito alla crescita economica», il presidente Jiang Zemin ha giudicato che esso abbia anche permesso la diffusione di «informazioni nefaste, superstizione, violenza, pornografia: tutto ciò minaccia la salute mentale della popolazione e della gioventù» e che sia bene di conseguenza «rafforzare la legislazione sull’informazione e su Internet»: imposizione ai siti cinesi di diffondere esclusivamente informazioni già pubblicate dalla stampa ufficiale; web master e operatori di Internet café considerati responsabili di qualsiasi infrazione commessa dagli utilizzatori; messa in opera di software di sorveglianza e di nuovi filtri sofisticati. Per questo l’attuale regolamentazione prevede che «utilizzare Internet per propagare voci infondate, diffamare o trasmettere informazioni dannose, incitare al rovesciamento del potere statale o del sistema socialista o alla divisione del paese» costituisce ormai un crimine contro la sicurezza dello stato e la stabilità sociale. Ma come mettere un poliziotto dietro ogni computer?
Nel frattempo, secondo le ultime stime di HRIC e di AI, trentatré cyberdissidenti si trovano attualmente in carcere, condannati a pene detentive dai tre agli undici anni per imputazioni che vanno dal «download di documenti della setta Falungong» alla «sovversione». Citiamo semplicemente due casi legati al movimento democratico in Cina: il 13 dicembre 2001, Wang Jibo, membro del Partito Democratico Cinese dello Shandong, è condannato a 4 anni di carcere per aver reclamato via Internet una revisione del giudizio ufficialmente attribuito al grande movimento popolare di aprile-giugno 1989, sempre definito «controrivoluzionario» (3); il 30 dicembre 2001, è la volta di Li Xinhua, fondatore della sezione di Wuhan del PDC, di venir analogamente condannato a 4 anni di prigione per «incitamento al rovesciamento del potere», mentre in realtà diffondeva via Internet articoli che attaccavano la corruzione e il sistema politico alla sua base, facendosi fautore della necessità di «un sistema di controllo reciproco fondato sulla separazione dei poteri amministrativo, giudiziario e legislativo».

Attivisti politici

Il 5 ottobre 1998, il governo cinese ha firmato, senza però mai ratificare, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che garantisce la libertà di espressione e di riunione, e processi equi, proibendo la tortura e gli arresti arbitrari, in conformità peraltro all’articolo 35 della Costituzione cinese, la quale stabilisce che «i cittadini godono della libertà di parola, di stampa, di riunione, di associazione, di corteo e di manifestazione». Ma, ancora una volta, le affermazioni di principio sono ben distanti dalla realtà!
A titolo esemplificativo, ci limiteremo al caso del Partito Democratico Cinese che, se non è l’unico, è perlomeno quello che fa più parlare di sé. Uno dei suoi fondatori, Xu Wenli (4), è stato liberato il 24 dicembre 2002 grazie alla pressione dell’opinione pubblica internazionale e subito espulso negli Stati Uniti per «ragioni di salute», dopo essere stato condannato nel dicembre 1983 a 13 anni di reclusione per «attentato alla sicurezza nazionale» in quanto cofondatore del PDC, che era stato subito messo fuori legge. Si tratta pur sempre di un partito di orientamento riformista e liberale, che peraltro riconosce il ruolo preponderante svolto dal partito comunista nella gestione degli affari del paese, ma è la sua dimensione nazionale – esso rivendica un migliaio di militanti in 23 delle 30 province cinesi – a renderlo potenzialmente pericoloso per un partito comunista la cui forza risiede proprio nell’atomizzazione delle diverse opposizioni. Oltre ai due casi sopra citati, altri due militanti del PDC, Hu Mingjun e Wang Sem, arrestati nel marzo del 2001 a conclusione di un processo a porte chiuse nel corso del quale i capi di imputazione sono stati modificati e aggravati, sono stati condannati nel maggio del 2002 a 11 e 10 anni di carcere per aver preso contatto, giudicato «sovversivo», con gli organizzatori di una manifestazione di operai siderurgici a Dazhou (Sichuan), mentre nelle loro dichiarazioni i due si erano limitati a rivendicare la libertà sindacale e il miglioramento delle tutele sociali per chi aveva perso il lavoro.
Questo slittamento del terreno politico verso quello sociale è proprio ciò che preoccupa il potere costituito e ne spiega la reazione nei confronti di Wang Mingzhang. Quest’ultimo è una personalità della dissidenza, in esilio negli Stati Uniti, dove anima la rivista «Primavera di Cina». Egli è scomparso alla fine di giugno del 2002 nei pressi del confine sino-vietnamita, dove si trovava con altri due cinesi. Allertata, Amnesty International ha compiuto delle indagini e scoperto che i tre erano arrivati in Vietnam il 26 giugno, per incontrare in un luogo appartato alcuni militanti sindacalisti cinesi. Dopo insistenti richieste di chiarimenti, il 20 dicembre la polizia cinese ha ammesso che i tre erano stati arrestati circa sei mesi prima, e da allora detenuti in un luogo segreto per «terrorismo e spionaggio in favore di Taiwan».
A quanto sostiene la polizia, sarebbero stati rapiti in Vietnam da una banda che voleva ricattarli e scoperti dalle autorità il 3 luglio, legati e imbavagliati, in un tempio nei pressi del confine sul lato cinese! Una versione rocambolesca, mentre, più semplicemente, è probabile che i tre siano stati prelevati da un commando della polizia, la quale considera Wang molto pericoloso, visti i suoi legami con il movimento sociale. Processato a Shenzhen il 22 gennaio scorso, è stato condannato il 10 febbraio all’ergastolo per «spionaggio» e «comando di organizzazione terroristica»!
Il potere, infatti, è sempre più preoccupato dal collegamento che si cerca di realizzare tra dissidenti in esilio, quelli interni e i sindacalisti autonomi, e sono proprio questi ultimi che teme maggiormente.

Sindacalisti autonomi

Oltre al Patto sui Diritti Civili e Politici, la Cina ha anche firmato, e questa volta ratificato il 28 febbraio 2001 (5), il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, ma con alcune riserve riguardanti proprio uno dei cardini del patto medesimo, ossia l’articolo 8 che tutela la libertà sindacale. Pechino si trincera dietro la propria Costituzione e le sue leggi che prevedono solo un’organizzazione sindacale unica, l’ACFTU, All China Federation of Trade Unions (Federazione nazionale dei sindacati cinesi). Per questo, tutti i tentativi di organizzarsi al di fuori di questa struttura unica vengono severamente repressi, come nel caso di Zhang Shanguang, condannato a 10 anni di carcere perché aveva sollecitato un nulla osta per costituire un’associazione di «difesa dei lavoratori colpiti da licenziamento», il quale nella prigione N. 1 dell’Hunan è regolarmente sottoposto a violenze.
Ma tra gli attuali movimenti, quello che molti osservatori considerano una autentica svolta nella storia sociale della Cina comunista, per l’ampiezza delle manifestazioni e del grado di organizzazione dei lavoratori, è quello detto dei «Quattro di Liaoyang».
Tra i mesi di marzo e di maggio dello scorso anno, a Liaoyang, capitale del Liaoning, colpita da un tasso di disoccupazione del 25%, si sono svolte diverse manifestazioni che hanno visto la partecipazione di decine di migliaia di operai, pensionati e disoccupati che protestavano contro la corruzione e la sottrazione di fondi che avevano contribuito al fallimento delle loro aziende, e questo sotto la guida di delegati scelti autonomamente: Yao Fixin, Xiao Yankong, Pang Qingxiang e Wang Zhaoming.
Il governo, peraltro, ha implicitamente dato loro ragione, inviando sul posto una delegazione della Commissione Centrale del PC, la cui inchiesta ha portato grandi sconvolgimenti: oltre 200 arresti effettuati nel corso dell’estate tra gli amministratori cittadini, le forze di polizia, la magistratura, le aziende di stato – tra cui il direttore generale della fabbrica metalmeccanica in liquidazione da cui era cominciato il conflitto –, compreso un deputato dell’Assemblea locale ben noto come il «padrino» mafioso (6) della città, arresti che hanno tuttavia risparmiato il capo locale del Partito… Il potere resta fedele ai suoi metodi: quando scoppia una rivolta, prima la schiaccia poi si interessa alle cause che l’hanno prodotta per operare un bel repulisti. E anche se avevano ragione, coloro che hanno avuto l’audacia di protestare devono pagarne il prezzo. Se, nonostante tutto, si mantiene una certa prudenza nei confronti della massa dei manifestanti, vengono isolati gli «istigatori», e a trovarsi sotto tiro è soprattutto Yao. Operaio metalmeccanico, licenziato nel 1992 in seguito alla chiusura dell’azienda statale in cui lavorava e da allora rimasto sempre senza lavoro, aveva aperto una piccola drogheria; proprio nel suo retrobottega sono stati scritti i primi proclami e organizzate le prime manifestazioni. Egli si è dunque ritrovato a essere tra i principali portavoce del movimento e i suoi discorsi sulla solidarietà operaia e il tradimento del PC hanno avuto un impatto sempre più forte sui manifestanti. Anche in questo caso, la cosa non è durata a lungo: il 17 marzo, una domenica, Yao è stato sequestrato in mezzo alla strada da poliziotti in borghese e dopo una nuova manifestazione il 20 marzo, in cui diecimila persone ne richiedevano la liberazione, gli altri tre delegati, Xiao, Pang e Wang sono stati arrestati e detenuti in un luogo segreto proprio come Yao…
Ciò nonostante, la mobilitazione locale non è diminuita, con manifestazioni periodiche davanti al municipio, e ad essa è venuta ad aggiungersi la solidarietà internazionale. La Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (7), così come la Federazione Internazionale dei Metalmeccanici, hanno sporto formale denuncia presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro contro il governo cinese per «violazione dei principi di libertà di associazione»; il 26 maggio una delegazione di quattro sindacalisti francesi si è addirittura recata sul luogo, venendo immediatamente obbligata a lasciare la città su una camionetta della Sicurezza pubblica; una Giornata d’azione internazionale si è tenuta il 10 luglio del 2002.
Se i tre compagni di Yao sono stati finalmente rimessi in libertà il 20 dicembre, per quest’ultimo l’imputazione iniziale di «raduni e manifestazioni illegali» – passibile di 5 anni di carcere – si è trasformata in «sovvertimento del potere dello stato», che prevede la pena capitale, poiché nel frattempo la polizia ne aveva «scoperto» il nome negli elenchi del Partito Democratico Cinese… Yao è stato processato il 15 gennaio scorso e si teme una sentenza pesante.
Ma la macchina è stata messa in moto. In altre località della Cina i lavoratori si organizzano autonomamente e se l’unità con i dissidenti riuscirà a realizzarsi nonostante la repressione, ciò potrebbe in un breve tempo cambiare le carte in tavola. Il seguito alla prossima puntata!

Jean-Jacques Gandini
(traduzione dal francese di Anna Spadolini)

Note:

1. Secondo il manifesto premonitore di Wei Jingsheng affisso a Pechino sul «muro della Democrazia» il 5 dicembre 1978 e che gli è valso una condanna a 15 anni di prigione: «… che cos’è la democrazia? La vera democrazia, è la restituzione di tutti i poteri alla collettività dei lavoratori.» (in «La Cina alla fine del secolo I: cambiare tutto per non cambiare nulla» J.J. Gandini, ACL 1994).
2. Dichiarazione all’AFP (Agenzia France Presse) il 18 dicembre 1998.
3. Secondo Amnesty International almeno 200 persone, identificate per nome, sono tuttora imprigionate per avervi partecipato.
4. All’età di 59 anni avrà passato 18 anni in carcere: prima dei quattro anni di detenzione tra il 1998 e il 2002, ne aveva scontati altri 14 tra il 1979 e il 1993 per il ruolo ricoperto all’epoca della «Prima primavera di Pechino » come animatore della rivista di riferimento «La Tribuna del 5 aprile».
5. Conseguenza dell'ammissione nell'OMC avvenuta all'inizio dell'anno 2002.
6. In un rapporto al Comitato centrale del PC, finito nel dimenticatoio, la giornalista e sociologa He Qinglian scriveva nel 1996: «La Cina va verso un regime che vede uniti il governo e la mafia. L’alleanza tra la criminalità e le élite al potere conduce al saccheggio delle ricchezze pubbliche, in primo luogo del patrimonio di stato accumulato in quarant’anni grazie al sudore del popolo, e l’arma principale che consente tale saccheggio è il potere politico.» Da allora, He Qinglian ha preferito gettare la spugna, scegliendo nel luglio 2002 l’esilio negli Stati Uniti.
7. Il 3 gennaio scorso questa ha fatto appello a tutti i suoi iscritti perché protestassero energicamente nei confronti delle autorità cinesi e ha chiesto all’OIL di fare altrettanto. È possibile inviare un e-mail al presidente Jiang Zemin: minister@legalinfo.gov.cn.