rivista anarchica
anno 31 n. 274
estate 2001


 

Letture in nero

È un periodo nel quale incontro solo amici frustrati, delusi, preoccupati per lo slittamento a destra degli italiani. Qualcuno insiste sul refrain della lobotomizzazione mediatica, del peronismo latente, dell'insulsaggine di una sinistra che in cinque anni non ha saputo lasciare un segno tangibile della sua presenza (a parte una guerra ed i soldi alle scuole dei preti): insomma una resa senza condizioni.
Personalmente non sono rimasto sconvolto dal plebiscito che Berlusconi ha saputo raccogliere, perché il paese reale è molto ma molto più reazionario ed arrogante di quanto i numeri non dicano.
Non possiamo non sapere che i valori di riferimento tra la gente sono da almeno vent'anni appiattiti sull'antico adagio lombardo 'lavoro-guadagno-pago-pretendo' peculiare trasposizione del self-made man (che, nella variante italiana vuol dire pressapoco: 'non mi rompete i coglioni').
Un tempo la cultura cristiano-marxista ci insegnava ad esaltare i vinti della storia, oggi contano i vincitori senza storia. Mi sovviene un bel saggio sulla guerra civile di Gianni Oliva di qualche anno fa intitolato I vinti e i liberati... forse oggi sarebbe più opportuno chiamarlo i Liberati dai vinti.
Questo cambio ideologico viene causticamente affrontato da Massimo Carlotto nel suo ultimo lavoro Arrivederci amore, ciao. Edizioni e/o, Roma, 2001. Pagg. 215, lire 26.000. Un bel romanzo (malgrado le grottesche forzature scopiazzate dalla cronaca di pronta beva), imperniato sulla storia dei nostri fratelli maggiori: un rivoluzionario incattivito negli anni settanta che decide senza nessuna ipocrisia pseudo morale di passare tra i vincenti macinando a turno i suoi vecchi compagni, gli amici, l'amore; diventando un rapinatore pluriomicida in combutta con un uomo della DIGOS corrotto, dei criminali di guerra croati ed i soliti anarchici stupidi. Il tutto per arrivare all'agognata riabilitazione sociale nel profondo Nord-Est.
Naturalmente ci riuscirà...avevate dei dubbi? Il pieno pentimento rimane comunque l'ineffabile colonna portante della nostra cultura controriformista: "La notizia della sentenza definitiva sul caso Calabresi venne annunciata all'osteria [...]. La condanna venne accolta con esclamazioni di soddisfazione e gridolini di gioia di un paio di signore. [...]. Capii cosa mi stavo giocando. 'Offro io' gridai gioioso, alzando una bottiglia di prosecco. Cercai tra i clienti gli ex rivoluzionari, e notai che tutti facevano a gara per dimostrare di avere tagliato i ponti con il passato. Sorrisi soddisfatto. Ero in buona compagnia."
Se questa è la destra profonda del nostro paese esiste pur sempre una destra radicale che negli ultimi tempi ha rialzato la testa, come ricorda Francesco Germinario nel suo saggio Estranei alla democrazia. BFS, Pisa, 2001. Pagg. 112, lire 20.000.
Un agile studio sui riferimenti ideologici dell'arcipelago neofascista italiano: orfano delle ali protettive del Movimento Sociale Italiano che comunque rappresentava la continuità storico-politica con la Repubblica di Salò e sempre più nazificato ed egemonizzato dai negazionisti della Shoah e venato da un pernicioso antisemitismo comune oramai a tutta la destra radicale italiana ed europea.
Da Julius Evola ad Adriano Romualdi un viaggio nella vergogna para-culturale al limite della psicopatia, in grado però di risalire il fango della storia per riproporsi oggi, di fronte alle sfide della globalizzazione, come cultura antagonista al 'mondialismo' ordito indovinate da chi? Ma naturalmente dal sionismo cosmopolita distruttore di ogni identità etno-nazionale...
Chi invece è definitivamente passato in giudicato è Pietro Koch, l'efferato criminale fascista, animatore del Reparto speciale di polizia che, dal 1943 al 1944 insanguinò Roma e poi Milano.
Buono è il lavoro di Massimiliano Griner (La Banda Koch. Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Pagg. 432, lire 58.000) teso a ripercorrere la storia di questa organizzazione che, a mio avviso, può assurgere a modello interpretativo delle dinamiche di potere interne alla Repubblica Sociale Italiana. Uno stato essenzialmente poliarchico, dove ogni apparato repressivo ha operato con una autonomia impensabile in una normale compagine statale, spesso addirittura con singole articolazioni in concorrenza tra loro.
Griner evita le trappole della storiografia resistenziale tradizionale perché: "l'idea di fondo non è e non vuole essere la salvaguardia del ricordo di quanto commisero Pietro Koch e gli uomini del suo Reparto, ma la comprensione di cosa fecero e del perché lo fecero". Un tentativo d'indagine che, ripercorrendo la storia dei carnefici e delle vittime (una distinzione che tuttavia tende, in alcuni casi, a sfumare) riesce a ricreare lo spessore umano (eroico o abietto ma comunque umano) necessario ad una visione 'tridimensionale' di quegli eventi oramai soffocati dal silenzio delle celebrazioni.

Dino Taddei

Handicap e fantascienza

Nel novembre '95 uscì su A un articolo con un titolo curioso: "Il futuro è un tempo di destra". Lo leggemmo, ci stupimmo, ne parlammo; poi entrambi (ognuno per conto suo, come si confà agli anarchici) iniziammo un percorso d'avvicinamento alla fantascienza. Siamo debitori dunque all'autore di quell'articolo, Daniele Barbieri, di un felice incontro e anche per questo segnaliamo un suo saggio – o "sentiero di lettura" come lui suggerisce – altrettanto interessante che esce su una rivista non a larghissima diffusione, "Hp" edita dal Centro documentazione handicap (051 6415005, asshp1@iperbole.bologna.it) e rintracciabile in abbonamento o in un ristretto numero di librerie.
Titolo Umano è, sottotitolo "Come la fantascienza racconta l'universo-handicap", la bella impaginazione, l'attacco insolito (interattivo, per usare una parola alla moda, ovvero che chiama il lettore a mettersi in gioco) invitano a proseguire ma… un dubbio serpeggiava in ambedue i sottoscritti: davvero servono 57 pagine per questo tema o alla fine il brodo risulterà, come si dice, allungato? Possibile che a un tema tutto sommato marginale la science fiction abbia dedicato tanto spazio? Chiusa la rivista, si può rispondere: sì, erano necessarie 57 pagine. Anzi dispiace che la parte antologica sia così ridotta anche perché alcuni fra i testi citati da Barbieri (Destinazione centauro oppure Nascita del superuomo per dirne due che sono consigliati anche nella prefazione di Valerio Evangelisti) sono pressoché introvabili in libreria.
La bussola che possiamo fornirvi noi è utile solo per muovere i primi passi, poi toccherà affidarsi al traghettatore-Barbieri. Anzitutto la questione handicap e fantascienza viene inquadrata all'interno d'un più generale discorso sulle diversità (razziali, sessuali, culturali, sociali….) e sul loro rapporto con l'immaginario. Poi un'osservazione/premessa che è utile riportare per esteso: "La non vastissima comunità che in Italia legge la buona fantascienza sa indicare all'istante alcuni titoli-chiave sull'Alieno sessuale o razziale; con qualche riflessione in più potrebbe individuare anche alcuni Alieni culturali e sociali. Ma esistono differenze che rimandano alle disabilità, all'handicap? Sì (….) Perché molti appassionati di fantascienza faticano a ricordare questi titoli? Opera qui una doppia censura o rimozione. La prima è probabilmente numerica. Se esistono meno autori-autrici che sanno confrontarsi con questo Alieno, beh dev'essere una questione meno importante. La seconda è nella testa di chi legge: spesso è turbato/a ma, con un meccanismo ben noto, preferisce allontanare da sé (in modo più o meno inconscio) l'oggetto dell'imbarazzo e la domanda su cosa davvero mi inquieti". Ed eccoci serviti: noi due, pur non facendo parte a pieno titolo di quella comunità sopra citata, in effetti abbiamo letto alcuni testi che Barbieri ha usato per "spiazzarci"... pure ne avevamo rimosso parte del senso. È sempre utile che qualcuno ci sbatta in faccia uno specchio mostrandoci che le favole (e le realtà) parlano sempre di/a noi e non solo di/a altri.
Qui ci fermiamo perché sarebbe quasi impossibile riassumere il "sentiero", le sue biforcazioni, tutte le vecchie e nuove mappe che Umano è raccoglie. Tre veloci osservazioni invece che possono forse tornar utili tanto a chi con la fantascienza bazzica quanto a chi poco ne sa. La prima è che fa piacere trovare in questa "buona letteratura" il rimando a una scrittrice sicuramente libertaria (Ursula Le Guin) e ad altri autori/autrici che alla nostra area di pensiero e prassi si riferiscono (La guerra dei sogni di Marc Augé e altri testi pubblicati da Elèuthera). La seconda è che i testi citati da Barbieri possono essere utili, oltre (va da sé) per il grande gusto che c'è nel narrare-ascoltare storie, a una intelligente pedagogia, se di essa nella scuola o fuori qualche traccia è sopravvissuta a vecchi e nuovi sfracelli di questa "Italia ripetente / sempre bocciata in storia e sempre promossa in latino". Dalla seconda osservazione ne deriva una terza, più una suggestione vaga per ora che un'analisi chiara: se è possibile aprire spazi di pensiero libero partendo dalla fantascienza, se è necessario condurre (ricorda Barbieri) una lotta per evitare che anche l'immaginario sia "tre volte c", cioè controllato, censurato, colonizzato, allora possiamo derivarne modi diversi d'interpretare, vivere, sognare e progettare il presente-futuro? Per rubare la frase a un pedagogista sovversivo (a noi vicino su molti punti), cioè al troppo presto in Italia dimenticato Paulo Freire: "Non è il futuro che ci crea, siamo noi che ci riscattiamo nella lotta per costruirlo". In quel Brasile che tanto deve a Freire, si leggeva a gennaio su uno striscione del forum di Porto Alegre, l'ormai famoso "Un altro mondo è possibile" e più sotto: "I sogni spaventano chi detiene il potere. Noi siamo uomini e donne in grado di sognare e organizzare il sogno".

Gianni Quartana e Danilo Tavernari

Quegli anni formidabili. Anche al Sud.

Capita, a volte, che proprio dall'esterno dell'ambiente anarchico ci giungano inaspettate testimonianze di come la storia del nostro movimento si sia intersecata, indissolubilmente, con quella di un paese tormentato e difficile come l'Italia. Oggi è un giovane giornalista reggino, Fabio Cuzzola, obiettore di coscienza, attivo esponente dello scoutismo cattolico che è riuscito a ricostruire con una dedizione commossa una delle vicende più tragiche e misconosciute della storia recente dell'anarchismo (Fabio Cuzzola, Cinque anarchici del sud. Una storia negata, 2001, Città del Sole Edizioni, pagg. 126, 12.000 lire, Via Ravagnese Superiore 60, 89067 Ravagnese, meserv@libero.it).
Proponendosi di far riemergere una cronaca altrimenti destinata ad essere dimenticata, l'autore ha anche voluto raccontare i momenti della breve vita e della drammatica morte di cinque compagni, dei cinque anarchici che nei "lontanissimi" anni settanta furono fra le vittime di una ragion di stato criminale, che contrastava con stragi efferate e micidiali attentati il procedere di una stagione di lotte, e di sogni, ormai irripetibile. Grazie al suo paziente lavoro di ricerca di documenti ignorati o sepolti, Cuzzola è riuscito a rendere drammaticamente decifrabile una vicenda dai contorni enigmatici, e al tempo stesso a restituire la specificità di vite vissute che furono, nella loro dimensione collettiva, il tratto di un'intera generazione di ribelli.
La sera del 26 settembre 1970 cinque giovani anarchici, Gianni Aricò, Angelo Casile e Franco Scordo di Reggio Calabria, Luigi Lo Celso di Cosenza ed Annalise Borth, la giovanissima moglie tedesca di Aricò, trovano la morte in un drammatico incidente nel tratto autostradale fra Ferentino ed Anagni, alle porte di Roma. Come risulterà dalle indagini della polizia, l'incidente è causato dall'improvvisa manovra di un camion che taglia la strada alla Mini Minor dei compagni in corsia di sorpasso, manovra che nella sua dinamica non riesce a trovare alcuna logica spiegazione. Nonostante le evidenti stranezze e incongruenze subito rilevate dalla Stradale e la drammaticità di un incidente che vede morire sul colpo ben quattro persone ("Muki" Borth morirà in un ospedale romano dopo venti giorni di coma profondo), le indagini vengono prontamente insabbiate per poi essere archiviate nella comoda casella della tragica fatalità. Il camion è guidato da due dipendenti del principe nero Junio Valerio Borghese, il fascista al centro di tutte le trame nere di quegli anni.
Qualche mese prima, il 22 luglio dello stesso anno, nei pressi della stazione di Gioia Tauro, la Freccia del Sud deraglia causando sei morti e più di un centinaio di feriti. Anche in questo caso le indagini arrivano a una rapida conclusione: il disastro è avvenuto a causa della colposa negligenza dei macchinisti del treno. È da poco più di una settimana che nella vicina Reggio Calabria è scoppiata la rivolta, ampiamente strumentalizzata dai settori più reazionari della società, che rivendica il ruolo di Reggio come capoluogo. Saranno mesi contrassegnati da continue violenze di piazza, che vedono tutte le componenti del neofascismo italiano impegnate a soffiare sul fuoco di questa improvvisa jacquerie, dove le giuste istanze di un proletariato meridionale sempre più emarginato si saldano con le finalità eversive di ampi settori dello stato.
È all'interno di questi due drammi che si svolge la storia dei nostri compagni. Infatti Aricò, Casile e Scordo, assidui militanti del gruppo anarchico reggino, subito dopo il deragliamento si attivano in un'attività di controinformazione – come si usava definire allora il lavoro di indagine sulle verità nascoste dal potere – che li porta ben presto a raccogliere prove consistenti sulla diretta responsabilità nell'incidente del neofascismo locale. Che quindi non è più un incidente, ma uno dei numerosi attentati di marca stragista che stanno insanguinando l'intero paese. Ed è per portare queste prove, che non verranno mai più ritrovate, che partono per Roma, dove hanno appuntamento con i compagni di "Umanità Nova" e con l'avvocato De Giovanni. Un appuntamento al quale non riusciranno mai ad arrivare.
Sono anni eccezionali quelli, e formidabili, come li ha definiti, non credo a torto, uno dei più celebrati protagonisti dell'epoca. Sono anni tremendi e meravigliosi, anni nei quali un movimento di massa torna a dare l'assalto al cielo portando dentro di sé i possibili germi della liberazione collettiva, anni nei quali lo scontro sociale assume sempre più i caratteri di una vera e propria guerra di classe. Ma sono anche gli anni delle stragi e delle trame di stato, gli anni in cui il potere, inferocito e incarognito dall'attacco di un movimento di massa che nelle fabbriche, nelle campagne e nelle scuole ne mette in discussione i postulati, reagisce con gli strumenti del terrore e dell'omicidio pur di salvaguardare la propria esistenza. Sordide trame di stato manovrate dai servizi segreti, generali vigliacchi e felloni affiancati da una massa di manovra fascista che è riduttivo definire come semplice manovalanza: questi sono gli strumenti con i quali un potere assediato cerca di contrastare la gioiosa vitalità di un'intera generazione.
Ed è di quegli anni, di quei sogni e di quelle lotte, non solo della tragica morte dei cinque giovani, che ci parla questo libro. Per chi ha vissuto quel periodo è chiaro come l'autore allora non fosse ancora nato e come tutte le fonti a cui ha attinto siano documenti d'archivio o testimonianze e racconti indiretti. Eppure il suo bisogno di comprendere, per ricostruirlo, l'ambiente nel quale si muovevano i nostri protagonisti, è riuscito a concretizzarsi in un affresco di rara sensibilità. Pur nelle inesattezze che qua e là affiorano, soprattutto quando vengono affrontate alcune specificità del movimento anarchico – ininfluenti del resto rispetto al quadro complessivo con cui viene descritta la quotidianità di quegli anni – penso che il merito maggiore dell'opera di Cuzzola sia quello di essere riuscito a illustrare come, finanche l'attività di un gruppetto di giovanissimi anarchici di una città tutto sommato periferica, potesse interagire con i maggiori avvenimenti nazionali, inserendosi perfettamente all'interno di un insieme di fatti ed azioni che riguardavano il destino dell'intero paese. Del resto questa capacità di comunicazione, che oggi può sembrare impossibile, era allora patrimonio di un'intera generazione di giovani, anarchici, marxisti, capelloni, beatniks, contestatori, comunisti, operai massa, cinesi e quant'altro che, partendo dalle capitali del nord industriale per arrivare alle più piccole realtà dell'enorme provincia italiana, riscrivevano le regole di una società ingessata e paralizzata da trent'anni di dominio clericale e conservatore. Tutto il paese era un'immensa periferia che circondava il nord industriale e i centri del potere, un'immensa periferia che apportava, con la vivacità e la freschezza tipiche delle periferie, il proprio contributo essenziale nell'attacco al cielo partito dalle grandi metropoli.
Ma quelli sono anche gli anni del terrorismo nero, delle stragi di stato, dei servizi deviati e delle mene di un potere arroccato su posizioni di pura reazione. Un potere che, con la complicità di uno schieramento politico di cui i fascisti sono solo la punta, cerca a tutti i costi di bloccare gli assalti cui è sottoposto. E proprio Reggio Calabria, la città di Aricò, Casile e Scordo, diventa il principale laboratorio dell'eversione. È una rivolta popolare che scandisce con i suoi tempi e le sue vergogne l'intera estate del 1970 e che vede gli anarchici e gli extraparlamentari del luogo cercare di sottrarre alle sirene del fascismo la rabbia di una città tradita ed espropriata.
Le pagine di Cuzzola raccontano quanto fosse dura la vita quotidiana di questi compagni in un ambiente così inquinato, e come fosse coraggioso il loro modo di vivere, di provocare, di contestare le convenzioni e lottare in una città già difficile di suo e ora in preda ai furori di una rivolta egemonizzata dagli scherani di Ciccio Franco. Ma le loro conquiste personali, le loro rotture con l'ambiente, le loro scoperte, i viaggi, le amicizie profonde, la rimozione di un vissuto soffocante e conservatore, li avevano portati su una strada dalla quale era impensabile fare dietro-front. E che hanno percorso, per dirla con le belle parole della prefazione di Tonino Perna, con la determinazione "di chi, malgrado le minacce, le intimidazioni, è andato avanti, senza paura, perché credeva nel valore supremo del solo tribunale esistente: la propria coscienza. Di chi credeva che la coerenza non sia solo una virtù, ma la prova del fuoco della validità, concretezza e serietà di un ideale".
Ho sentito da poco Placido La Torre di Messina, il compagno avvocato che tante volte si trovò ad assistere gratuitamente i giovani meridionali, anarchici ma non solo, che regolarmente cadevano sotto le grinfie della "legge". Conobbe e frequentò a lungo i giovani reggini, e ancora oggi dopo tanti anni si commuove al ricordo di quelle giovani vite così prematuramente perse. Anche lui, con calore e affetto immutato mi ha ricordato il loro entusiasmo, la loro voglia di lottare contro tutte le ingiustizie, la loro determinazione nel far coincidere l'impegno politico con le convinzioni morali. Sono passati più di trent'anni da quella notte in autostrada, ma il loro ricordo – grazie soprattutto a questo libro – non sbiadirà più.

Massimo Ortalli

P.S. Alcuni anni fa, nel 1993, nel corso di un processo in Calabria, un pentito di mafia ha raccontato che il deragliamento della Freccia del Sud non fu un incidente ma un attentato commesso da affiliati della 'ndrangheta e commissionato dal "Comitato d'azione per il Capoluogo". In seguito a queste dichiarazioni, suffragate da numerosi riscontri, oggi è in corso un processo a Reggio Calabria.