rivista anarchica
anno 29 n.258
novembre 1999



diario a cura di Felice Accame

l'impresa del Santo

 

Colui che, non avendo null'altro da fare e viaggiando dunque sull'autostrada Milano-Gravellona Toce, decidesse di entrare nella città di Arona s'imbatterebbe presto in un cartello che segnala, sulla destra, l'esistenza di un Maglificio San Carlo. Costui saprebbe di trovarsi di fronte ad una solerte impostura e ad un vile sopruso della Storia. Lo saprebbe, se qualcuno - con memoria lunga e cuore puro - gliela raccontasse, questa Storia.
Carlo Borromeo nacque nel 1538 ad Arona baciato in fronte - come assicura la bolla papale della sua canonizzazione, ottenuta nel 1610 a suon di diecimila scudi d'oro - da un raggio luminosissimo con cui l'Onnipotente ed Onnisciente - sapendo già della prossima offerta cospicua e, quindi, scommettendo sul sicuro - "preannunciò lo splendore della futura eccelsa santità". Con uno zio Papa - Giovanni Medego, in arte Pio IV, fratello del tagliaborse Medeghino - la sua carriera era assicurata, come l'agiatezza per la famiglia e le successive sue generazioni. Cardinale, dunque, a 23 anni, prima ancora di esser fatto prete, va a Roma e comincia a darsi da fare.
In breve eccelle nell'arte della persecuzione, della tortura e dell'arrostire esseri umani sulle pubbliche piazze. Odia in particolare luterani, valdesi e altri eretici, nonché, ovviamente, le donne. Nel 1566 - l'anno dopo del suo arrivo, con tanto di scorta armata, a Milano come legato pontificio -, muore lo zio, ma Carlo non vacilla e riesce a far eleggere un suo caro amico, il domenicano Michele Ghislieri, già Inquisitore Generale della Chiesa, assassino sanguinario, feroce antisemita - e, come Pio V, santo anch'esso. La sua è la biografia tipica dei potenti: stragi, sopraffazioni, accumulo di ricchezze altrui indossando la maschera dell'intransigenza morale.
Fra i miracoli che gli vengono ascritti - alcuni davvero quisquilie e pinzillacchere dubbie e di dubbio gusto, come quello che l'avrebbe visto ridonare il sollievo alla fanciulla succhiandole la mammella dolorante - ce n'è perfino uno autoriflessivo, perché il miracolato è, ma guarda un po', lui stesso. E qui ci avviciniamo alla questione del maglificio.
Nella notte del 26 ottobre 1569, tal Gerolamo Donato detto "il Farina", un frate dell'antico Ordine degli Umiliati, entra in Arcivescovado nascondendo un archibugio e un archibugetto, coglie Carlo assorto in preghiera, in una cappella, circondato da un centinaia di famigli: sfodera l'archibugio, prende la mira ed esplode il colpo. L'archibugio era carico di "palla e di quadretti", la mira era buona, ma, forse, la distanza eccessiva. Oppure, la mira non era affatto buona o l'archibugio era da buttare. Fatto sta che il Santo sentì "all'improvviso una percossa in un osso del filo della schiena" e che, fidandosi delle cronache interessate, al massimo l'archibugiata gli procurò un lieve gonfiore. Miracolo balistico.
Più miracoloso è il fatto che il Donato, approfittando dello stupore dei presenti, riuscì momentaneamente a dileguarsi. Momentaneamente, perché nell'aprile successivo, dopo lunghe indagini e grazie ai pentiti di turno, venne preso e tradotto a Milano, rinchiuso nelle carceri vescovili e tormentato fino al 2 agosto, quando, soddisfatta la sete di vendetta di Carlo Borromeo, dopo avergli tagliato la mano destra, venne impiccato in piazza Santo Stefano con altri compagni di sventura. Tutta la vicenda è raccontata con scrupolo storico e grande onestà intellettuale da Oreste Clizio in Gerolamo Donato detto il Farina l'uomo che sparò a San Carlo (Edizioni La Baronata di Lugano e La Cooperativa Tipolitografica Editrice di Carrara, 1998) nonché, con qualche imperdonabile superficialità liberalborghese e brillantezza letteraria da Piero Chiara in Sotto la sua mano (Mondadori, Milano 1974) e in Sale e tabacchi (Mondadori, Milano 1989).
Indagando sui motivi che potrebbero aver spinto il Donato allo sfortunato attentato, viene alla luce che l'Ordine degli Umiliati, di cui Carlo Borromeo si era fatto nominare "protettore", costituiva non solo un pericoloso concorrente di prestigio sulla piazza di Milano - e un concorrente riottoso alla disciplina e poco addomesticabile -, ma anche un ghiotto impero economico da espropriare. Un impero economico, peraltro, fatto essenzialmente di lana - lana pregiata che, una volta confiscata per ordine superiore, prenderà la forma di mantelle e di berrette che, come fa ironicamente notare Clizio, "da allora saranno universalmente reclamizzate col nome di borromee". Gerolamo Donato, dunque, cercava di fermare una rapina in corso e, fallendo, non ha fatto altro che accelerarla conferendole dignità di atto dovuto. L'Ordine degli Umiliati, "ormai decaduto e tralignato" - come ha il coraggio di recitare tuttora il Dizionario dei santi (TEA, Milano 1989) -, fu infatti soppresso e i suoi beni, come di prammatica, incamerati.
Una mano rispettosa delle vicende umane, allora, farebbe bene ad arricchire quel cartello, in Arona: "Maglificio San Carlo - Alla faccia degli Umiliati".

Felice Accame

P.S.: Nel Duomo di Milano, nel mese di novembre, si dovrebbe esporre un dipinto, attribuito a Gio Batta Crespi detto il Cerano, che rappresenta la scena dell'attentato. Dal 1698, sull'altura di Arona, domina, invece, il cosiddetto San Carlone, in nulla, peraltro, somigliante all'originale. Si tratta di una enorme statua alta ventitré metri e quaranta centimetri, posta su un basamento di granito di undici metri e settanta centimetri - meta quotidiana di pellegrini felici di credere che il Santo abbia fatto del Bene. In Sotto la sua mano, Piero Chiara, con una malizia che, non dicendo le cose come stanno, rischia di risultare mera benevolenza, sostiene la remota tesi che il materiale occorrente alla statua sia stato ottenuto fondendo il membro virilissimo del Colosso di Rodi. Papa Giovanni Paolo II dice spesso che la Chiesa deve chiedere perdono di qualcosa a qualcuno. Non al Donato, né alle migliaia di vittime di San Carlo, comunque, di cui, anzi, nel 1984, nel quattrocentesimo anniversario della morte, ha lodato la figura e omaggiato il sarcofago. Potere che si perpetua.