rivista anarchica
anno 29 n.258
novembre 1999


Per una città sostenibile
di Adriano Paolella

Foto di Tiziana Martoccia

 

Il cammino delle città verso la sostenibilità
è un cammino politico contro i modelli imperanti, gli interessi consolidati, lo sviluppo iniquo.

 

Le due figure a fianco (sopra in questa versione online. N.d.W.) presentano la stessa cittadina tedesca. Immagini, come tante, di grandi trasformazioni urbane: una strada sostituisce un corso d'acqua, un sovrappasso sostituisce un ponte, nuove costruzioni sostituiscono il precedente tessuto edilizio.
Nulla di particolare in questo. Vi sono però alcuni elementi riscontrabili nelle immagini che meritano una attenzione: il primo è la velocità con cui è stata attuata la trasformazione (tre anni), il secondo la prossimità nel tempo di tali trasformazioni (sono state completate nel 1986), il terzo l'abitudine diffusa a registrare senza sgomento tali situazioni.
La velocità è indice della mobilità della nostra società e della sua grande potenzialità strumentale; essa matura esigenze in tempi ridotti, non riesce a contenerle e le soddisfa attraverso una progettualità locale, specifica e settoriale avendo la possibilità di realizzare opere di notevoli dimensioni senza un particolare impegno da parte della collettività.
La prossimità è indice di quanto, nonostante i propositi dichiarati dai governi ed espressi dai tecnici, la quotidianità non è permeata dalla considerazione dell'ambiente.
L'abitudine, la mancanza di stupore, dinanzi a tali aberranti interventi è indice della grande capacità di assuefazione che caratterizza la specie umana: tali trasformazioni non sono osteggiate perché non suscitano nella collettività nessuna sensazione di sconvolgimento. Queste tre condizioni sono la dimostrazione e la ragione delle difficoltà a percorrere un cammino verso la sostenibilità.

 

Le dimensioni del problema

In un calcolo indicativo, dividendo il consumo totale per il numero degli abitanti del pianeta, ogni persona consuma ogni anno 9,5 t di materia di cui 2,6 t rimangono nella "tecno-sfera", 1,2 t divengono rifiuti gassosi, 1,7 t divengono rifiuti liquidi. A tali quantità vanno aggiunte le quantità di acqua (solo quella potabile è pari a circa 18 t/a pro capite).
È noto che i consumi non sono equamente distribuiti tra i paesi né, tantomeno, tra gli abitanti dei singoli paesi; al 20% della popolazione mondiale sono addebitabili l'86% del totale dei consumi, mentre l'80% della popolazione consuma il 14%.
Per 1.000.000 di abitanti, che si possono localizzare anche in 20 kmq, vi sono indicativamente ogni anno 9.500.000 t di materia in entrata e altrettante tonnellate in uscita a meno di quanto rimane trasformato nell'area: un bilancio sicuramente approssimativo ma che rende bene le dimensioni del problema e la grande intensità dei processi che si attuano all'interno degli insediamenti. Se nella società contemporanea l'azione più ripetuta dai cittadini è quella di acquisire merci e di acquisire merci e di consumarle, ovvero di renderle rifiuto, nel minor tempo possibile, le città si presentano come un'enorme opificio in cui la produttività si misura nella quantità di materia trasformata.
Il mercato stimola la produzione e la vendita di merci; l'iniziativa individuale scarica i costi ambientali e sociali di tale produzione sulla collettività e la società condivide e partecipa tanto che la forma e l'organizzazione degli insediamenti diviene motore primario per l'aumento dei consumi confermando l'efficienza del modello a trarre ambiti di commercio proprio dalla conflittualità degli elementi.
Il mercato delle auto è uno dei maggiori; la produzione di auto ha un fatturato indicativamente vicino a 1.500.000.000.000.000 di lire annue. Il mercato del petrolio è quasi sicuramente il più grande con un fatturato tra prelievo, raffinazione e vendita di prodotti petroliferi ipotizzabile di oltre 3.000.000.000.000.000 di lire annue. Ambedue producono margini molto significativi e i produttori fanno di tutto per consolidare il mercato così come attualmente strutturato.
Per questo il parco circolante di autoveicoli nel mondo è aumentato da 53.000.000 di automobili nel 1950 a 496.000.000 nel 1996 (pari a una superficie coperta dalle sole auto di 45.000 kmq), per questo ogni anno si producono 36.000.000 di autoveicoli, per questo la vendita dei prodotti petroliferi è in aumento, per questo le cilindrate delle auto sono sempre maggiori, per questo i consumi mai ridotti. E tutto ciò nonostante le emissioni di carbonio siano 6,25 milioni di tonnellate anno (200.000 t più del 1995 e 1.000.000 di t più del 1985).
Il grande mercato delle auto e del petrolio è gestito da un ristretto numero di operatori ma l'automobile è oggetto di desiderio, componente fondamentale della quotidianità e il modello di vita che l'accompagna è modello sociale e insediativo.
La struttura insediativa si modifica abusando della mobilità e così le città assumono una forma atta a consumare le auto e le auto hanno performance tali da consumare petrolio. Ma un altro interesse più diffuso guida l'organizzazione degli insediamenti: il reddito sia fondiario che immobiliare. Un ettaro a vite rende intorno ai 20.000.000 di lire l'anno; un ettaro edificato a palazzine 65.000.000.000: un confronto insostenibile la cui differenza non rende plausibile l'ipotesi di un controllo delle trasformazioni. Per questa ragione si occupano ogni anno 180.000.000 di mc. di fabbricati; nonostante il 15% delle abitazioni non siano occupate, nonostante la popolazione sia stabile, nonostante vi sia un patrimonio di fabbricati non residenziali non utilizzati.

L'urbanistica e la città

Di fronte all'entità di questi problemi l'urbanistica si comporta in maniera a dir poco esilarante. Si è rinchiusa in un tecnicismo autistico definendo parametri e linguaggi, cercando uno spazio di scientificità per dimostrare la congruità delle scelte e la necessità del mestiere.
Ha limitato il suo raggio di azione presupponendo che alcune variabili siano esterne alla competenza dell'urbanistica e dunque che costituiscano il dato di fatto immodificabile da cui partire per cercare le soluzioni.
Se l'obiettivo è migliorare le condizioni della qualità della vita (e l'obiettivo è questo) non si può essere soddisfatti nell'aver mediato la domanda di costruzione, qualificato gli interventi o definito un sistema di utilizzo che garantisce qualità funzionale all'insediamento. E' necessario discernere quello che è possibile fare da quello che è giusto fare (non solo e non tutto quello che è possibile è giusto e, a parità di condizioni, non tutto quello che è giusto è possibile) rammentando che funzionalizzare un sistema spesso porta al consolidamento del sistema stesso anche quando esso si fondi su presupposti errati. Ciò non significa che i temi trattati dall'attuale urbanistica non siano importanti, ma la loro incisività aumenta proprio quando essi siano inseriti all'interno di un quadro in cui la produzione di un nuovo modello di automobile può comportare una modificazione della forma urbana molto più significativa di quanto non possa fare un piano.

 

I segnali di cambiamento

La constatazione del problema urbano nei termini complessivi e ambientali con cui oggi è trattato si può fare risalire agli anni ottanta; tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio del Novanta molti paesi hanno recepito nei loro programmi l'obiettivo di migliorare le condizioni urbane. Visto come il problema è stato recepito a livello internazionale, e la gravità della situazione riscontrata, ci si sarebbe attesa una significativa inversione di tendenza e il raggiungimento di risultati tangibili. Ma non è così; i governi hanno delegato alle amministrazioni locali la risoluzione delle problematiche come se le scelte complessive riguardo mobilità, trasporti, reddito dei suoli, aumento dei consumi, necessità fittizie non incidessero sulla forma e sulla struttura urbana, come se non sussistessero interessi economici e politici nel mantenere i trend di sviluppo esistenti, come se la struttura economica, così connessa alla necessità di continua crescita, non incidesse nella organizzazione insediativa. I governi non hanno esercitato un'azione regolamentativa; si sono limitati a definire delle norme "leggere" e hanno demandato in sede locale. In questa maniera si è assistito ad una profonda separazione tra le argomentazioni tecnico-scientifiche e le azioni attuate: da un lato dichiarazioni e ricerche, dall'altra misure che, non volendo incidere sulla struttura, migliorano gli spazi marginali per i quali gli imprenditori e il mercato sono disponibili a compromessi. Il cuore del sistema, responsabile delle condizioni ambientali, rimane immutato: i consumi aumentano, la mobilità aumenta, gli insediamenti si espandono e occupano terreni.
Ma non è solo quello che oggi, ora, sta avvenendo ma i desideri espressi che peggiorano lo scenario futuro. In una recente inchiesta sul "Sogno americano" (Shor 1998, in UNDP Rapporto 1998) finalizzata alla definizione delle esigenze di consumo, sono state ripetute ad un consistente numero di cittadini statunitensi le stesse domande fatte anni prima in una simile ricerca. Alla domanda "Cosa rende una vita felice?" le variazioni percentuali tra le risposte del 1975 e quelle del 1995 hanno mostrato un aumento dell'84% per "Casa di villeggiatura", del 36% per "Piscina" e una riduzione dell'8% per "Matrimonio felice", mentre nessuna variazione vi è stata per "Lavoro interessante".
Sempre nella stessa inchiesta alla domanda "Cosa rappresenta una necessità" la differenza in percentuale delle risposte tra il 1973 e il 1996 è stata un aumento del 233% per "Seconda televisione", del 96% per "Aria condizionata".
Una società dove la richiesta di oggetti è aumentata dell'85% e quella di condizioni sociali diverse si è ridotta dell'8% è una società materiale che ha per il futuro consolidati desideri e aspettative di merci.

Che cosa succede in Italia

L'amministrazione nello svolgimento della sua funzione media, in una strategia, interessi diversi e spesso opposti. Nel momento in cui le organizzazioni che rappresentano l'una o l'altra delle posizioni, a seguito delle elezioni, confluiscono nelle amministrazioni queste non sono più in condizioni di mediare tra le parti, ma divengono propositrici esse stesse di un percorso indebolendo la pozione da mediare in quanto già mediata dall'amministrazione medesima nel suo procedere.
Quando per anni la rappresentanza è stata più gradita della partecipazione diretta, quando vi è stata una delega integrale sui temi ambientali e della salute a tecnici ed eletti è difficile ipotizzare da parte della popolazione una coscienza dei processi e delle misure che ciascun cittadino deve accollarsi per migliorare le condizioni dell'ambiente urbano. Le amministrazioni si trovano quindi nella condizione di proporre o azioni non condivise in quanto innovative o azioni condivise ma indifferenti in quanto prossime alle necessità minimali e quotidiane dei singoli cittadini. Il nodo dunque è culturale in quanto la popolazione non conosce gli argomenti, non li relaziona ai propri comportamenti, non individua propri percorsi.
Inoltre le amministrazioni tentano di conservarsi supponendo che già la loro sussistenza sia garanzia di qualità e possa portare ad un miglioramento delle condizioni urbane; ma per conservarsi conserva i caratteri del sistema consolidato aumentandone l'efficienza e gestendo la città "correttamente" rispetto ai suoi criteri. Così, migliorando l'efficienza senza modificare il modello, continuano i finanziamenti per le strade (rilanciate da una campagna per la sicurezza), per le infrastrutture (rilanciate da una campagna per lo sviluppo del mezzogiorno), continua la promozione del consumo di energia (anche attraverso l'ipotesi di riduzione del prezzo), si stabilizza la spesa ambientale intorno al 3% (di cui il 74% sono infrastrutture) e così via senza alcuna inversione di tendenza.
Contemporaneamente parte dei cittadini sperimenta modelli differenti: la popolazione è stabile nonostante le campagne di informazione allarmistiche sul decremento, sviluppa "consumi critici" e "scambi solidali" nonostante le pressioni della società dei consumi, cerca modalità di trasporto alternative nonostante le difficoltà connesse al loro uso, sperimenta abitazioni ecologiche nonostante i costi aggiuntivi che il mercato impone.

Solo la partecipazione...

Quindi per una città sostenibile non è sufficiente l'aumento di efficienza; non è possibile limitare l'urbanistica alla gestione della destinazione d'uso dei terreni; non è possibile delegare ai tecnici né agli eletti l'esclusivo compito di gestire. È necessario interessare e considerare il sistema sociale e ambientale; è necessario gestire una città per una società, una città politica; è necessario ipotizzare e perseguire una città rappresentativa di un modello sostenibile; è necessario attuare misure tangibili, chiare; è necessario dare segnali di un avvio di percorso. E in questo contesto gli indicatori debbono essere almeno parzialmente semplici, verificabili dal comune cittadino, evidenti: ridurre la quantità di costruito, organizzare una forma della città rispondente alla richiesta di qualità, recuperare spazi inutilizzati, conservare la morfologia, aumentare il livello di naturalità, ridurre la mobilità, sperimentare...
Ogni azione che modifichi l'attuale modello è osteggiata da interessi consolidati. Se non vi sono difficoltà l'azione intrapresa non è significativa per la sostenibilità. Solo la partecipazione e la condivisione della proposta da parte della popolazione può sostenere scelte così difficili: ogni città sarà diversa in quanto prodotto della propria collettività e non del mercato.
Il cammino della città verso la sostenibilità è un cammino politico contro i modelli imperanti, gli interessi consolidati, lo sviluppo iniquo.

Adriano Paolella

Inizia da questo numero a collaborare con la nostra rivista Adriano Paolella. Nato a Napoli nel 1955, architetto, anarchico, si interessa di pianificazione e progettazione ambientale. Autore di numerosi saggi e libri, è docente presso la facoltà di Architettura di Reggio Calabria, responsabile Piano e Programma del WWF Italia e segretario generale dello IAED (International Association for Environmental Design), associazione di progettazione ambientale.
Il testo pubblicato in queste pagine è la relazione presentata da Paolella al 2° congresso dello IAED (Isernia, 3-5 dicembre '98), i cui atti ("Città sostenibile. Obiettivi, progetti, indicatori") sono stati pubblicati dalle Edizioni Papageno (Palermo, 1999).

 

Le condizioni mondiali:
5.000.000 di ettari consumati per urbanizzazione

La popolazione mondiale residente in ambiti urbani è il 45% del totale, con un incremento tra il 1950 e il 1995 del 250%, a fronte di un aumento nelle zone rurali del 76% e si prevede che superi il 55% del totale entro il 2005, con punte di crescita, attualmente già riscontrate in alcune aree urbane africane e asiatiche, fino al 4% annuo.
Negli Stati Uniti fra il 1982 e il 1992 sono stati edificati 5.000.000 di ettari, di cui 2.085.945 ettari su aree che erano state di foreste, 1.525.314 ettari di coltivi, 943.598 ettari di pascoli. In Cina, nel corso degli ultimi sei anni, 2,6 milioni di ettari sono stati ceduti all'urbanizzazione, con la perdita annua di 433.000 ettari di terreno agricolo; lo spazio destinato agli uffici a Giakarta è aumentato di 19 volte tra il 1978 e il 1992, passando da una superficie di suoli urbanizzati di 21 milioni di ettari del 1982 a 26 milioni di ettari nel 1992, con un incremento, nel decennio, pari ad un'area superiore alla superficie della Liguria; San Paolo del Brasile aveva una superficie urbanizzata di 180 kmq nel 1930 e una superficie di 900 kmq nel 1988.
In Asia e in Africa ci sono regioni in cui la popolazione urbana aumenta del 4% annuo e si stima che entro il prossimo decennio quasi la metà della popolazione mondiale, pari a circa 3,3 miliardi di persone, vivrà all'interno di aree urbane. In una stima effettuata recentemente, circa 220 milioni di individui non hanno accesso ad acqua realmente potabile e circa 420 milioni di individui non dispongono di impianti igienici, nemmeno pubblici. Lo stato di sofferenza evidenziato è dovuto in buona parte alla rapidità dei fenomeni di inurbamento e alle deprecabili condizioni economiche in cui vive gran parte della popolazione mondiale.
Considerando il continuo incremento delle superfici pro-capite abitative, infrastrutturali e di servizio dei paesi ricchi, e che al miglioramento delle condizioni di vita, anche nei paesi "in via di sviluppo", corrisponde un incremento degli standard insediativi, si può ragionevolmente ipotizzare un aumento delle superfici insediate di poco meno di 10 mq procapite all'anno. Alla luce di questa riduttiva ipotesi il consumo di suoli annuo mondiale per gli insediamenti si aggirerebbe intorno ai 5.000.000 di ettari.
Questa quantità, sommata ai circa 6.000.000 di ettari l'anno che si sono desertificati in relazione al cambiamento climatico e agli errori nell'uso agricolo, indicherebbe la verosimile misura di 11.000.000 di ettari l'anno effettivamente "desertificati".

 

La situazione italiana:
meno popolazione, maggior consumo di aree costruite

La situazione italiana, più o meno omogenea a quella europea, evidenzia maggior lentezza nei fenomeni di inurbamento, unita ad una crescita molto contenuta della popolazione: nel nostro paese il tasso di crescita della popolazione è pari a +1,1%; le previsioni indicano che la popolazione dovrebbe avere un leggero incremento fino al 2005 (57,7 milioni di abitanti contro i 56,7 del 1990) per poi ridursi progressivamente (lentamente fino al 2020, quando raggiungerà i 56,1 milioni, e più consistentemente nei trenta anni successivi, fino a raggiungere i 46,3 milioni nel 2050).
Nei 12 comuni più popolati, tra il 1981 e il 1991, c'è stato un incremento del costruito che va dal minimo di Torino (+1,5%) al massimo di Bari (+9,9%). E' interessante notare che nei comuni dove si è maggiormente costruito si riscontra la maggiore percentuale di abitazioni non occupate: Roma 13% di abitazioni non occupate e 7,5% nuove costruzioni; Palermo 16% e 9,5%; Bari 13,8 e 9,9%.
Sui 30.133.079 ettari di superficie totale del paese, 1.321.798 ettari sono coperti di fabbricati; 632.319 ettari sono costruiti in pianura e occupano complessivamente l'11% della superficie pianeggiante del paese, 503.488 sono costruiti in collina e occupano il 6% della superficie collinare del paese e solo 186.030 sono costruiti in montagna. Il sistema insediativo italiano è caratterizzato da un consistente fenomeno di accrescimento che interessa praticamente tutti i comuni costieri e da un'aggregazione unica pedemontana che attraversa l'intera pianura padana dalla Lombardia al Veneto.
Un recente studio sulle aree industriali periurbane ha evidenziato che, su 1500 ettari presi in esame, lo sviluppo dell'edificato ha ridotto la superficie di suolo libero dal 73% del 1969 al 56% nel 1980 fino al 44% del 1994, con un incremento di 22 ettari l'anno tra il 1969 e il 1980 e di tredici ettari l'anno tra il 1981 e il 1994. L'occupazione di terreni non è direttamente connessa allo sviluppo di iniziative produttive, tantoché su cinque milioni di metri cubi di costruito quasi un milione risulta inutilizzato. E' evidente che gli aspetti speculativi hanno avuto un ruolo prevalente nello sviluppo di queste aree. Nel corso del 1996 sono stati dati in concessione 67 milioni di mc di fabbricati residenziali e 83,2 milioni di mc di fabbricati non residenziali, ovvero sono state rilasciate in un anno concessioni pari alla cubatura edificata del comune di Torino, la quarta città italiana.
L'andamento delle concessioni di fabbricati residenziali dal '90 al '96 si rivela praticamente costante in tutte le regioni, e mostra un leggero decremento complessivo (da 84,4 ml di mc nel 1990 a 67 ml di mc nel 1996), un totale pari a 554,3 ml di mc in sette anni; mentre l'andamento delle concessioni per fabbricati non residenziali, per un totale leggermente superiore (586 ml di mc in sette anni) ha un calo da '92 al '94.
Il totale della popolazione in Italia negli ultimi sette anni è diminuito dello 0,4%, mentre le concessioni per fabbricati sono aumentate di 1140,3 ml di mc, cioè circa 20 mc ad abitante, il che equivale a dire che ogni famiglia italiana, di media composta di tre individui, ha ottenuto in sette anni una stanza in più, e che la quantità di metri cubi di abitazione pro-capite è in continuo aumento: nei dodici maggiori comuni fino al 1945 c'erano 44 mc di costruito, e nel '91 erano diventati 127 mc. Mentre i metri quadrati di superficie abitativa occupata pro-capite ha dato il minimo a Napoli con 24 mq/ab e il massimo a Milano con 34 mq/ab.

50.000 ettari urbanizzatie 15.000 occupati da edifici

In Italia, al 1990, vi erano 1.321.199 ettari occupati da fabbricati, pari a circa il 4,5% della superficie totale del paese. A questo va aggiunto che la cartografia non rileva le case sparse, i piccoli nuclei e le infrastrutture extraurbane, che, se considerate insieme all'incremento di edificato nel periodo '90-'97 danno complessivamente un ammontare di 2.114.150 ettari, e regionalmente variano da un minimo di 4.749 ettari della Val d'Aosta ai 356.726 ettari della Lombardia e, in percentuale sul totale della superficie regionale, dal 1,2% del Molise al 14,9% della Lombardia. Se agli ettari di urbanizzazione si aggiungono i terreni inclusi dalle infrastrutture, i "terreni in attesa", gli "sfridi", le aree inglobate nei perimetri urbani, l'urbanizzazione può arrivare a 50.000 ettari all'anno.

il turismo è ancora sinonimo di costruzione

Nel 1991 il 29% della popolazione che risiedeva lungo le zone costiere abitava nel 14% della superficie complessiva del paese, con una densità di popolazione pari a 4 ab/ha, rispetto a 1,9 ab/ha di quella nazionale.
Il numero complessivo delle abitazioni presenti nei comuni costieri è pari a 7.765.172, che corrisponde al 32% del totale nazionale, ovvero circa 3.150.000.000 mc. Volendo ipotizzare lo sviluppo di questo costruito distribuito omogeneamente lungo tutte le coste si otterrebbe un edificio continuo lungo 8.000 km, largo 10 metri e alto 15 piani.

350.000ettari consumati da strade

Tra le voci che hanno una significativa incidenza nella occupazione di suolo vi sono sicuramente le superfici occupate da infrastrutture stradali ed extraurbane. Partendo dallo sviluppo della rete stradale nazionale e provinciale, senza quindi considerare il reticolo altrettanto sviluppato della piccola viabilità, e dando una dimensione media alla sezione stradale a seconda della loro tipologia, 359.000 ettari sono occupati dalla viabilità, con una forte incidenza sulla superficie territoriale delle regioni. Questo valore è di poco superiore alla superficie territoriale della intera regione Valle d'Aosta. La superficie totale di strade è dell'1,2% sul totale della superficie nazionale.
Nel nostro paese ci sono 52.160 km di autostrade e strade statali extraurbane, e 253.870 km di strade comunali e provinciali sempre extraurbane. A livello regionale, sommando i dati relativi alla superficie occupata da aree urbane alla superficie occupata da infrastrutture extraurbane, la regione che raggiunge il valore più elevato è la Lombardia, con il 16,3% della superficie territoriale occupata, seguita dalla Campania con il 12,6% e dal Veneto con l''1,4% di superficie totale occupata, il Lazio 10,5% e l'Emilia Romagna 10,3%.
In uno studio fatto per l'area romana è stato evidenziato come in quarantasette anni la superficie occupata da edificato è aumentata complessivamente di 18 volte, occupando così 19.270 ettari dei territori comunali a popolazione stabile.