rivista anarchica
anno 29 n.252
marzo 1999


È solo un concerto sospeso

di Mauro Macario

"Belin, ma cosa vai a fare il militare, sono tutte cazzate, diserta!"

 

Se essere anarchico significa spogliarsi d’ogni reticolato indotto, disfarsi dei ruoli imposti, rifiutare le identità obbligate, allora oggi per ricordare Fabrizio, a così pochi giorni dalla sua scomparsa, mi sradico da ogni attesa, respingo la parte di critico, di chi tenta con troppa sollecitudine di abbozzare un ritratto già storicizzante dell’artista con quel senso odioso di postumo cui oppongo invece il senso del presente e del futuro e, come in una nicchia, torno a impadronirmi della dimensione pura e selvatica dell’amico che pur compenetrato nell’infinita stima e nell’utopia struggente che ci ha accomunati (in un rapporto purtroppo non di lunga data) preferisce calarsi nella voragine della sua assenza, uno scavo affettivo, esistenziale e generazionale, che è difficile culturalizzare in un gergo precotto da intellettuale di regime o da anticonformista euclideo.
Nel 1967 quando Tenco si suicidò avevo vent’anni. Fui attraversato da uno stato d’animo che definirei "sentimento dell’orfano". Però quel colpo di pistola risuonò in me come il colpo dello starter alla partenza: la mia corsa verso i poeti in musica e sulla mia strada incontrai De André, una presenza centrale e parallela per tutta la vita. D’impulso telefonai a Fabrizio che non conoscevo personalmente ma che già amavo e gli chiesi di incontrarlo, forse per riacquistare parentela elettiva con "la famiglia dei poeti". Senza esitare mi invitò nella sua casa di Genova e mi fece ascoltare, ancora prima di averla incisa, "Preghiera in gennaio" la canzone dedicata a Luigi. Prima di congedarmi, emozionato e in soggezione, gli dissi che stavo per partire per fare il servizio militare. Si voltò, mi guardò di sbieco e così proruppe: "Belin, ma cosa vai a fare il militare, sono tutte cazzate, diserta!" e concluse affermando che, a causa del panico, non avrebbe mai cantato in pubblico.

Emozione latitante

Io non disertai e per fortuna lui, dopo qualche anno, prese a cantare in pubblico e per la gioventù musicale, poetica e utopica cominciò un’era: il poeta dopo epoche arcaiche tornava tra la gente con la musica, lasciando la poesia d’élite nei salotti transilvanici. L’invocazione di Leo Ferré si avverava: "La musica, la poesia nelle strade... e ci verrà!" E nel caso di Fabrizio, una poesia che coniuga la tenerezza con l’indignazione, il sarcasmo con l’invettiva, la pietà con l’amore, il sogno con l’anarchia. Il poeta in musica, sebbene raro (ne nasce uno ogni cento anni) rappresenta nella contemporaneità la forma più alta e toccante di poesia anche se gli accademici, quelli del verso cattedratico, non digeriscono questa metamorfosi assumendo un atteggiamento sprezzante verso chi, ad un linguaggio ermetico, enigmistico e glaciale, sceglie invece la grande comunicazione, quella viva, palpitante, diretta, condotta sul filo di un’emozione sempre più latitante in un’epoca disidratata da sistemi sociali inumani, demenziali e distruttivi.
Nel ‘94, ventisette anni dopo il primo incontro, rividi Fabrizio a un concerto milanese e la fraternità spontanea che è un fenomeno inspiegabile rifiorì in un attimo facendomi oggi rimpiangere di non averlo frequentato in tutti gli anni precedenti. Durante un pomeriggio trascorso a casa sua, a Milano, mi disse, anche sapendo della mia amicizia con Leo Ferré, che gli sarebbe piaciuto cantare "Gli anarchici" e una volta al telefono me la accennò. E fu per me un onore indimenticabile averlo tra il pubblico a "Genovantasette", un festival internazionale di poesia che ogni anno si tiene a Genova e dove in quell’occasione davo un recital su Ferré assieme a Enrico Medail.
Anche quest’anno ci siamo visti a Genova, ma per il suo ultimo ritorno. C’erano tutti: giovani musicisti di strada che cantavano, compagni con le bandiere nere e la A cerchiata in rosso, cantanti famosi, gente del popolo, borghesi pentiti. E una Nannini rigorosamente fuori dalla chiesa. E io ero in chiesa, un luogo non adatto a Fabrizio né a me.

 

Tre gonne indossate

Tra la gente "normale" stazionava funambolica e assente una barbona con tre gonne indossate una sopra l’altra per il freddo e un sacchetto di plastica con la sua casa incorporata: un personaggio "reale" del mondo poetico di Fabrizio era lì, per lui. Per lui c’erano anche le autorità; quelle autorità che Fabrizio aveva sempre detestato e che lo avevano sempre guardato con sospetto e timore adesso lo omaggiavano, compreso il prete che gli ha riconosciuto di aver inventato un nuovo alfabeto dell’amore per gli umili e i diseredati. Solo che Fabrizio voleva che gli ultimi fossero i primi qui, sulla terra, e non in paradiso. La chiesa metabolizza anche chi la avversa. Ma quelle bandiere nere che sventolavano meste alla brezza gelata, quelle sì erano l’unico sudario che avvolgeva Fabrizio e i suoi sogni, i sogni di noi tutti. E’ solo un concerto sospeso.

Mauro Macario