rivista anarchica
anno 29 n.252
marzo 1999


Al passo con i
Tempi

"Errico Malatesta: un rivoluzionario (ingiustamente) dimenticato": così titolava, qualche anno fa, un lungo articolo sul quotidiano La Repubblica.
In effetti, non si può certo dire che tale nome sia molto popolare e conosciuto all’interno di quella sinistra che preferisce mitizzare, occultandone l’ideologia totalitaria, protagonisti della storia in gran parte criminale del comunismo. Un’occhiata agli scaffali delle librerie ci fa capire come gli eredi del più grande fallimento del ventesimo secolo si rifugino ormai nelle agiografie di quegli unici personaggi un po’ naif che possono far passare alla storia come eroi libertari: primo tra tutti, il comandante Che Guevara, uno che, sia pure in perfetta buona fede (ma delle buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno), ha contribuito, nel tentativo di liberare il popolo cubano dalla dittatura fascista di Batista, a realizzarne una forse peggiore.
Speriamo dunque che quelli che cercano nella storia della sinistra esempi concreti di libertà leggano questa agile antologia (Errico Malatesta, Individuo, società, anarchia. La scelta del volontarismo etico, ed. e/o, Roma 1998, pp. 126, lire 10.000) di scritti malatestiani curata da Nico Berti e preceduta da una lunga nota introduttiva del curatore.
La divisione in nove sezioni tematiche rende con sufficiente chiarezza i vari nodi teorici e pratici rispetto ai quali si concentrò la riflessione malatestiana: il problema dell’organizzazione, il tema difficile della violenza, il rapporto tra l’anarchismo e il movimento operaio, l’analisi dei due totalitarismi gemelli, il bolscevismo e il fascismo, il rapporto tra l’anarchismo e la democrazia e quello tra la scienza e la libertà.
L’unico difetto di questa preziosa antologia, di cui si sentiva un gran bisogno (quella precedente, peraltro ben più completa, era stata stampata dall’Antistato nell’ormai lontano 1982) sta forse nel fatto di non rendere conto dell’evoluzione del pensiero malatestiano rispetto a questioni fondamentali, come ad esempio quella della violenza (problema su cui sia Malatesta, sia il suo più stretto e capace collaboratore, Luigi Fabbri, rifletterono a lungo): per Malatesta la violenza è una dura necessità imposta dalla storia (la volontà liberatrice delle classi oppresse si scontra con quella delle classi dominanti di mantenere il potere e i privilegi economici), ma il pensatore anarchico percepisce, con sempre maggiore chiarezza, la carica autoritaria che ogni violenza, anche se volta a instaurare la libertà, si tira necessariamente dietro, rischiando di scatenare un vortice incontrollabile alla fine del quale a rimetterci è proprio il progetto di emancipazione di cui è portatore il movimento anarchico. Il caso del fascismo e del comunismo è in questo senso emblematico: Malatesta, in un articolo bellissimo "Perché il fascismo vinse e perché continua a spadroneggiare in Italia", si rende conto di quanto l’immaginario intriso di violenza e di volontà di sopraffazione, proprio anche di molti individui e gruppi della sinistra rivoluzionaria, abbia contribuito a creare quell’humus culturale su cui si è incuneato il fascismo.
Impossibile, in questo spazio, occuparsi di tutti i temi e tutti gli spunti offerti dalla lettura di queste pagine di Malatesta: mi limiterò a segnalare quelli che mi hanno più colpito.
Molto interessante poi risulta essere la lettura malatestiana del bolscevismo, delineatasi con nettezza a partire dal 1919 (con la famosa lettera a Luigi Fabbri): la classica critica anarchica della parossistica formula della dittatura del proletariato, la denuncia del marxismo come ideologia della futura classe burocratica, che in Russia rivela la sua reale natura totalitaria, si coniuga in Malatesta con una visione disincantata delle "minoranze agenti": "consapevole che la lotta decisiva si svolge tra minoranze coscienti, Malatesta ritiene che la prassi dittatoriale rivoluzionaria agevolerà ancor di più questa tendenza operante nel processo storico" (p. 12). Di qui la condanna del regime bolscevico e del giacobinismo gesuitico di cui sono intrisi i suoi funzionari:
"Il proletariato naturalmente centra come centra il popolo nei regimi democratici, cioè semplicemente per nascondere l’essenza reale della cosa. In realtà si tratta della dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura...che serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà dei dittatori, arrestare la rivoluzione, consolidare i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro la massa una nuova classe privilegiata" (p. 72).
L’aspetto più interessante del pensiero malatestiano è, a mio giudizio, il metodo: con mente sempre lucida, Malatesta analizzò instancabilmente i vari problemi che affliggevano l’umanità cercando sempre una soluzione libertaria degli stessi e anche se non sempre le sue riflessioni possono essere lette in termini di attualità (la visione malatestiana del rapporto tra anarchismo e democrazia è una questione da ridefinire alla luce anche delle esperienze totalitarie del XX secolo), quello che risulta ancor oggi moderno è il suo modo di impostare le questioni: mai fazioso, sempre pacato, aperto, pluralista, antidogmatico, antiassolutista.
Muovendo dalla distinzione tra giudizi di fatto e di valore, egli perviene non solo alla consapevolezza che il fine (l’anarchia) deve essere separato dal mezzo (l’anarchismo), in modo tale da "conferire al secondo la sua massima valenza realistica e alla prima la sua più alta espressione etica" (p. 8), ma anche alla lucida lettura della realtà, la quale, essendo un insieme di fatti, non deve essere confusa con i valori di cui è portatore l’anarchismo.
La laicità della metodologia malatestiana emerge anche dalla sua concezione della rivoluzione: il moto rivoluzionario per Malatesta non ha nessun fine palingenetico, non può essere direttamente costitutivo della società anarchica, anche perché anarchia significa non violenza, non imposizione, e quindi una società anarchica non può essere instaurata con un atto di forza e di violenza quale è appunto la rivoluzione. Lo scopo della rivoluzione è quello di liberare l’autonomia creativa, normativa e organizzativa della società civile dallo stato e dalla schiavitù del lavoro salariato: è quello, laicamente e liberalmente, di instaurare una società delle "pari opportunità" nella quale poi ciascun individuo e forza politica possa sperimentare, senza ergersi a monopolizzatore del diritto e della forza, la bontà delle proprie proposte politiche. Solo in tali condizioni gli anarchici potrebbero esercitare, con la forza dell’esempio e la superiorità morale del loro messaggio, una influenza tale da trascinare la società verso conquiste sociali che approssimerebbero la società stessa all’anarchia.
Con lo stesso approccio sperimentale e pluralistico Malatesta affronta poi la questione economica. Pur essendo rimasto, anche negli ultimi anni, un convinto assertore del comunismo libertario, si andò sempre più convincendo che una società aperta come quella che a suo avviso doveva emergere dalla rivoluzione antiautoritaria avesse il diritto ma anche il dovere di sperimentare più forme di economia non gerarchica, e che la scelta di privilegiare un modello piuttosto che un altro avrebbe dovuto essere compiuta solo in base ai risultati sperimentali del campo e non sull’onda di convinzioni ideologiche aprioristiche.
Il fatto di aver scelto di non essere un teorico, un intellettuale (le sue capacità speculative glielo avrebbero senz’altro consentito) nulla toglie alla forza delle sue argomentazioni, le quali anzi risultano ancora più pregnanti e incisive. Stupisce, leggendo gli scritti malatestiani, quel senso di concretezza che gli permise di affrontare in maniera semplice (ma niente affatto semplicistica) anche questioni teoricamente rilevanti, come ad esempio il rapporto tra scienza e libertà: il relativismo malatestiano in merito a quest’ultimo aspetto, desunto anch’esso dalla moderna separazione tra giudizi di fatto e di valore, è in alcuni punti precorritore delle recenti riflessioni popperiane.
L’impronta umanista e il respiro universale che Malatesta diede all’anarchismo, sganciando definitivamente il pensiero anarchico dagli approcci "fondamentalisti" propri dei pensatori anarchici a lui precedenti, unito all’attualità di molte sue considerazioni, è forse l’eredità più importante trasmessaci dall’anarchismo classico: questo lascito costituisce ancor oggi, a mio avviso, il bagaglio teorico per un anarchismo che voglia davvero essere al passo coi tempi. In questo senso, questa antologia contribuisce decisamente allo scopo.

Francesco Berti


Errico Malatesta in una caricatura di Francesco Berti.

 


La notte algerina

Nell’immaginario comune l’Algeria è diventata un luogo di violenze inenarrabili e di continui massacri di innocenti. Al punto che le ripetute stragi trovano spesso solo qualche trafiletto sui quotidiani nella sezione Esteri. Se il numero delle vittime è nell’ordine delle decine e qualche raro filmato o qualche fotografia entrano in circolazione, viene dato più spazio alla notizia. Ma trattandosi, appunto, di notizie anche queste morti strazianti vengono fagocitate dai media e scompaiono nel calderone delle violenze quotidiane: l’ultima strage nel Kosovo o in Africa, i viaggi della disperazione di kosovari e curdi, gli ultimi bombardamenti in Iraq.
La struttura stessa dei media, soprattutto di quello televisivo, fanno si che una distanza tra noi occidentali e il resto del mondo, si consolidi giorno dopo giorno in un processo di rimozione continua.
L’Algeria è ai miei occhi uno dei simboli di questa rimozione e di questa distanza in cui i nostri sentimenti anestetizzati riposano giorno dopo giorno. È quindi con grande emozione che ho letto gli ultimi due libri pubblicati in Italia della scrittrice algerina Assia Djebar: Bianco d’Algeria - Memorie di un paese spezzato ed. Il Saggiatore 1998 - 190 pag. L. 26.000 e Nel cuore della notte algerina Giunti-Astrea 1998 - pag. 254 - L. 20.000.
Il primo, che è anche quello cronologicamente più vecchio, è un libro di ricordi nato dalla necessità di ridare corpo e voce a tre amici della scrittrice assassinati dagli integralisti. Così le tre "giornate bianche" in cui questi uomini furono assassinati emergono dalla polvere del tempo passato. Il primo dei morti, M’Hamed Boukhobza sociologo, muore in una luminosa mattina d’estate del giugno 1993 nella sua casa sulle colline di Algeri. La sua colpa era di essere un intellettuale, uno degli autori di un rapporto intitolato "L’Algeria, anno 2000" scomparso dopo la sua morte, uno di quegli uomini convinti che l’Algeria avrebbe potuto intraprendere un originale percorso di modernizzazione radicato nella cultura araba, senza imitare il modello unificante proposto dall’Occidente.
Il secondo è lo psichiatra Mahfoud Boucebci, un uomo "dedicato al miglioramento della condizione degli esclusi: dei pazzi, dei bambini abbandonati, delle donne sole in difficoltà" e in continua polemica con il "nuovo oscurantismo" che stava già devastando l’Algeria. Nella terza giornata bianca a essere trovato dalla morte è Abdellaker Alloula, drammaturgo, regista e attore di teatro, condannato a causa di ciò.
Assia Djebar lo ricorda anche con le parole di un altra voce scomparsa: quella dello scrittore Kateb Yacine morto di leucemia.
"Morire così è vivere
Guerra e cancro del sangue
Lenta o violenta ognuno la sua morte
Ed è sempre la stessa
Per chi ha imparato
A leggere nelle tenebre
E per chi a occhi chiusi
Non ha mai smesso di scrivere
Morire così è vivere".
A partire da questi tre amici scomparsi vengono richiamati come su un proscenio gli scrittori, poeti e intellettuali algerini che racchiudono in sé la storia di questo paese a partire dalla lotta per l’indipendenza dalla Francia.
Ogni storia una voce singolare, una morte diventata simbolo. Per me lettrice occidentale i più sono sconosciuti tranne uno che conosco e amo anche per la sua passione per la libertà. Si tratta di Albert Camus che viene ricordato anch’egli nell’incompiutezza di una vita falciata da una morte accidentale, durante la stesura del "Primo Uomo".
Assia Djebar vuole recuperare a tutti i costi le parole di questi morti perché ritiene che le parole scritte sopravvivano ai loro autori, perché anche quando il loro sangue versato è ormai secco, queste parole ci toccano con una potenza inalterata. Nel caso specifico dell’Algeria le parole si intrecciano in molteplici lingue: francese, berbero, arabo classico e arabo dialettale. Ognuno di loro, come la Djebar stessa, si muove in un territorio di confine nel quale le lingue si sovrappongono, si intrecciano appunto, ma non si sopraffanno mai. La molteplicità di lingue e culture è una ricchezza che gli integralisti vogliono sopprimere. È la voce della poesia "fragrante dolcezza" a far si che l’autrice risenta le voci di ognuno "prima dell’approssimarsi di ogni aurora".
"Il poema era dapprima Parola - Awal - parola della lingua, ancora impronunciata; recondita: parola dimenticata o disseminata, di cui il linguaggio faceva un uso peculiare, come scarto, margine, erosione o altezza remota e trascurabile: Parola-collina; Parola-dimenticata".
Ogni poeta, ogni scrittore è uomo fatto di parole e di memoria che non si arrende all’oblio. Assia Djebar ci restituisce nel suo libro, non solo la potenza delle parole e l’incanto della poesia, ma donne e uomini di carne e sangue morti prima di avere anche solo potuto pensare di portare a termine l’opera cui si sentivano chiamati.
L’Algeria di Camus ricordata con queste sue parole "Il mio appello sarà più che pressante. Se avessi il potere di dare una voce alla solitudine e all’angoscia di ciascuno di noi, è con quella voce che mi rivolgerei a voi. Quanto a me, ho amato con passione questa terra in cui sono nato, da essa ho attinto tutto quello che sono e non ho mai separato dalla mia amicizia nessuno degli uomini che ci vivono, a qualsiasi razza appartengano. Benché abbia conosciuto e condiviso le miserie che non le mancano, essa è rimasta per me la terra della felicità e della creazione. E non posso rassegnarmi a vederla diventare la terra dell’infelicità e dell’odio." è diventata la terra in cui si "uccidono giornalisti, medici, insegnanti, donne professoresse o infermiere, si uccidono dei "diplomati" quando non sono al potere, non vogliono proteggersi o non se ne preoccupano.... Uccidere i giusti, poiché gli ingiusti si tappano in casa, si difendono, continuano ad accumulare profitti. Colpire chi parla, dice "io", manifesta la propria opinione, difendere la democrazia. Abbattere chi si colloca sul passaggio: del pluralismo linguistico, degli stili di vita, chi si tiene in disparte, chi va avanti, incurante di sè o inventandosi ogni giorno la sua verità personale".
Questa è l’Algeria "ghermita da tenebre mutevoli, paurose e a volte orrende.. dunque non c’è più soltanto la notte delle donne rinchiuse , soffocate, sfruttate come semplici genitrici - e questo da generazioni".
Sono le donne raccontate splendidamente nel secondo libro di cui scrivo all’inizio. Donne che vivono nel terrore ma che non si arrendono. Donne che vivono in quel territorio della molteplicità che gli integralisti vogliono cancellare.
"Racconti di donne nella notte algerina, nuove "donne d’Algeri" di oggi. Briciole di vita trasportate, riferite dalle viaggiatrici, dalle passeggere che vanno e vengono, tra una tappa e l’altra, sotto un riparo dove si possa prendere fiato e ricordare. Tappe non della fuga, no: piuttosto della mobilità. Dialoghi scambiati fra algerine di qui e di laggiù. In quei momenti si stagliano, si staccano lembi di vita: immagini di caccia, di fuga, di morte. Di speranza, talvolta, in questa lunghissima notte".
Due libri dolenti e nonostante tutto pieni proprio di vita e di speranza. Due libri che hanno arricchito di poesia le mie riflessioni su integralismo e globalizzazione. Due modalità diverse di "volere" il mondo che hanno in comune il desiderio di cancellare la ricchezza della molteplicità e di erigere sulle ceneri dei molti mondi che stanno distruggendo, un mondo unico fatto a loro immagine e somiglianza. Molto semplicemente mi viene da dire che il fanatismo religioso, i nazionalismi rinati, l’integralismo non sono che l’altra faccia, e non so quale delle due sia più oscura, della globalizzazione. Questo modello di vita, di economia che sta sommergendo come una lunga onda fangosa tutto il mondo. Ma sono altresì convinta che con la forza delle parole, dette e scritte, con la propria vita quotidiana che non si accasci nell’uniformità del mercato e della vita solo televisiva si possa quanto meno dare forma a una sorta di "resistenza".

Elena Petrassi