rivista anarchica
anno 28 n.249
novembre 1998


La nave morta
di Maria Matteo

 

L’assassinio della giovane nigeriana Semira Adamu ha scatenato,
non solo in Belgio, una diffusa rivolta morale
e politica contro il razzismo istituzionale.

 

Semira Adamu è morta a vent’anni.
La vita che l’attendeva è stata brutalmente spezzata da mani feroci di uomini in divisa, che sul suo corpo hanno brutalmente impresso il segno delle frontiere di un mondo sempre più diviso tra chi ha e chi non ha. Chi ha benessere, dignità, potere e chi non ha neanche il diritto di vivere. Per ben quattro volte avevano tentato di espellerla dal Belgio, ove aveva invano richiesto asilo politico. La quinta volta, caricata a forza su un aereo, legata come un animale, è stata soffocata da un cuscino messole sul volto per tacitarne le grida di protesta. La sua era una morte annunciata. Le proteste e le manifestazioni dei gruppi, delle associazioni e dei singoli che si erano mobilitati in sua difesa non sono valsi a nulla. La stessa Semira in un’intervista telefonica in cui narra dei precedenti tentativi di espellerla ci descrive, anticipandole tragicamente, le circostanze della sua morte.
“Hanno provato ad espellermi quattro volte.
La prima volta, non hanno usato la forza. Mi hanno portata all’aeroporto. Li mi hanno chiesto se accettavo l’espulsione. Ho detto di no e mi hanno riportata nel centro.
La seconda volta si è svolta in modo identico, ma mi hanno assicurato che la volta successiva, sarebbero stati molto più duri.
La terza volta, mi hanno preparata per andare all’aeroporto e all’ultimo momento non siamo partiti. Mi hanno detto che avevano dimenticato di prenotare un posto sul volo. Suppongo che avessero paura delle manifestazioni di solidarietà in mio favore…
La quarta volta è stato terribile. Sono stata svegliata alle 6.30 da una del centro chi mi ha annunciato che dovevo tornare nel mio paese e che avevo 20 minuti per preparare le mie valige. Non ho avuto neanche il tempo di fare la doccia e ho dimenticato delle cose mie nella precipitazione della partenza.
Finalmente ero pronta, mi hanno scortata fino alla porta di uscita e mi hanno fatto salire nel furgone per raggiungere l’aeroporto. All’arrivo, mi hanno legato braccia e gambe a due livelli diversi. Poi mi hanno chiusa in una cella di isolamento, ci sono rimasta dalle 7.00 alle 10.30. Sono venuti a riprendermi, mi hanno portata verso l’aereo e alle 11.15 e mi hanno fatto salire. Una volta dentro, mi sono messa a urlare e a piangere. Subito otto uomini mi hanno circondata: due guardiani della Sabena e sei poliziotti. I due guardiani della Sabena hanno usato la forza: facevano pressione sul mio corpo e uno dei due mi ha applicato un cuscino sul viso. Per poco mi soffocava... Poi i passeggeri sono intervenuti e hanno detto che volevano lasciare l’aereo se non fossi stata liberata.”

Oppressione femminile

Semira era nata in Nigeria: nel suo paese aveva un destino segnato. La sua famiglia, suo padre o i suoi fratelli avevano deciso per lei: doveva sposare un uomo di 68 anni, già marito di altre mogli, un uomo per il quale sarebbe stata una proprietà tra le altre. Semira ha detto no ed è fuggita. E’ fuggita e, dopo lunghe peripezie, è giunta in Belgio, dove ha chiesto asilo. Il governo belga ha detto no. Semira non aveva diritto all’asilo politico: la sua era una vicenda personale, la sua vita non correva pericolo. Essere privata della libertà non era un motivo sufficiente. La sua condizione di donna che in quanto tale era privata della facoltà di decidere della propria vita non bastava a giustificare una richiesta d’asilo politico. L’oppressione femminile non è una questione politica, una questione che investe un ambito pubblico: è e deve restare, in Nigeria come in Belgio, una faccenda “privata”, una faccenda per la quale non è il caso di reclamare diritti, per la quale non è il caso di scomodare il “Diritto”.
Ai ragazzi e alle ragazze d’Europa insegnano a scuola che i loro sono paesi civili, in cui non esiste discriminazione, in cui i diritti delle donne sono tutelati. I ragazzi e le ragazze della civile Europa pensano che un enorme divario culturale separi i luoghi in cui sono nati da quei paesi ove le donne non hanno diritti, dignità, libertà. Una bella favola. Una favola alla quale deve aver creduto anche Semira che in Belgio pensava di poter vivere una vita scelta da lei. Semira ha pagato con la vita questo sogno folle, quest’aspirazione esagerata per chi come lei era nata nel posto “sbagliato”.

Lunghe linee del dolore

Le frontiere tra nord e sud del mondo sono lunghe linee del dolore sulle quali si infrangono i sogni, le aspirazioni e le stesse vite di migliaia e migliaia di esseri umani. Esseri umani braccati come delinquenti, perché “clandestini”, “stranieri illegali”, “extracomunitari”, “sans papiers”. L’espressione francese è forse la più efficace, perché riducendo la questione ai suoi più crudi termini burocratici ce ne mostra a pieno l’assurda brutalità: non puoi stare qui, non puoi abitare, lavorare, amare, giocare perché non hai “le carte”, sei uno senza carte. Se non hai le carte non esisti, non devi esistere, devi andartene da un’altra parte, perché a te, che non hai le carte, non è concesso di sederti alla nostra tavola nemmeno per raccoglierne quegli avanzi che non si negano neppure ai gatti randagi del cortile sotto casa. Non hai le carte e quindi ti cacciamo. Ti cacciamo con le buone se accetti con condiscendenza il nostro verdetto, altrimenti useremo la forza. Il diritto è dalla nostra parte. In questi anni l’attività dei legislatori dei paesi del Nord e dell’Europa in particolare è stata frenetica: occorreva al più presto adeguare le norme per impedire l’accesso a stranieri indesiderabili, per fermare “l’invasione degli straccioni”, per limitare il diritto d’asilo, per far sì che le espulsioni avvenissero a norma di legge. La legge del più forte. Sancita dai democratici parlamenti dei paesi civili. La civiltà d’Europa si misura nella capacità di tenere lontani i “barbari”, gli stranieri appunto.
Terre d’Europa, che erano state a lungo terre d’asilo per i profughi ed i perseguitati si sono trasformate in luoghi di frontiera. Una frontiera lungo la quale uomini armati affrontano esseri umani che la miseria, le persecuzioni, le guerre sospingono lontano dai loro paesi. Uomini, donne e bambini che affrontano ogni sorta di disagi e peripezie per entrare in Europa o negli Stati Uniti. Molti muoiono per lungo la via: soffocati nelle intercapedini dei camion, affogati nell’Adriatico, schiacciati nelle gallerie ferroviarie, uccisi sulle rive del Rio Grande dalle guardie di frontiera, ingannati e truffati dai tanti malavitosi che si arricchiscono grazie al trasporto di questa merce umana. Non si può più parlare di emigrazione, di singoli che decidono di partire, poiché sempre più marcatamente quello cui assistiamo è un vero fenomeno migratorio, che vede muoversi interi gruppi sociali o etnici. Il presumibile acuirsi del divario tra Nord e Sud non potrà che mettere in movimento masse sempre maggiori di persone.
Così un po’ ovunque sono cominciati a sorgere campi di detenzione per stranieri illegali. In Francia i centri più importanti, dotati di filo spinato, torrette di guardia e truppe dell’esercito, somigliano a dei veri lager. D’altro canto la Francia ha accumulato ormai una lunga esperienza in materia: i campi di internamento di Argeles e di Rivesaltes per gli antifascisti spagnoli negli anni 30; i campi di concentramento di Drancy e Pithiviers, vere anticamere dello sterminio nazista, negli anni 40; i campi di lavoro per gli operai immigrati negli anni 50; i campi di prigionia per gli indipendentisti algerini negli anni ‘60. In Italia le vicende dell’ultima estate mostrano come amministratori, politici, poliziotti e giudici sopperiscano con molta applicazione e buona volontà alla mancanza di esperienza.

Il destino dei “senza carte”

Negli anni ’30 Ben Traven, autore oggi forse ricordato solo in virtù delle trascrizioni cinematografiche dei suoi romanzi - ricordiamo tra tutti “Il tesoro della Sierra Madre” - descrisse con grande efficacia narrativa e straordinaria lucidità critica la tragedia, di un san papier, di un uomo senza le carte. Dietro lo pseudonimo di Ben Traven si celava Ret Maahrut, un anarchico tedesco esule in Messico e certo nel romanzo v’è il riflesso di un’esperienza vissuta in prima persona.
Ne “La nave morta” il protagonista, un marinaio apolide, viene respinto da ogni paese, non ha la possibilità di fermarsi in nessun posto, non può trovare imbarco regolare su nessuna nave che non sia una “nave morta”, una nave destinata ad affondare con il suo carico umano per consentire ai proprietari un risarcimento assicurativo. Quella nave è l’emblema del destino riservato a tanti anonimi “senza carte” nei “civili” paesi del Nord del mondo: vivere nascosti, lavorando in nero, senza diritto ad un alloggio decente, all’assicurazione in caso di malattia o infortunio, alla pensione o magari divenendo la comoda manovalenza per il racket della droga e della prostituzione. Questo per chi ha la fortuna di non morire per strada o di essere cacciato a forza. Chi poi, come Semira, ha il coraggio di levare alta la propria voce, di non accettare in silenzio l’ingiustizia e la sopraffazione, può incontrare solerti funzionari che, applicando le normative, soffochino per sempre le sue grida.
Dopo l’assassinio di Semira, migliaia di persone hanno manifestato in tutt’Europa: in Belgio diecimila persone sono sfilate davanti al campo di internamento di Vottem, presso Liegi e analoghe manifestazioni, grandi e piccole si sono svolte un po’ ovunque: a Parigi, Londra, Stoccolma, Genova, Vienna... Mentre scrivo sull’onda dell’indignazione per questa morte ingiusta e terribile altre iniziative stanno prendendo corpo. All’impegno di ciascuno che questa sia un’onda lunga...

Maria Matteo

 

“Un pò ovunque
sono cominciati a sorgere
campi di detenzione
per stranieri
illegali ”