rivista anarchica
anno 28 n.249
novembre 1998


Quel rifugiato non è abbastanza urbano
Intervista con Vicente Taquias Vergara
di Emanuela Scuccato

Da Pinochet a Napolitano passando per le lotte ecologiste in Massa e a Val Bormida. A colloquio con Urbano, rifugiato cileno in Italia da un quarto di secolo.

Illustrazione di Natale Galli

 

 

Incontro Taquias Vergara Vicente detto “Urbano” proprio all’indomani dell’anniversario del colpo di stato in Cile, l’11 settembre di venticinque anni fa.
Urbano è un rifugiato politico cileno che vive in Italia dal 1975 - oggi ha cinquantatré anni. In questo paese è venuto con la famiglia, la moglie e i figli; in questo paese ha saputo darsi, per poter sopravvivere, una nuova professionalità: da lavoratore del cuoio a operaio saldatore specializzato; in questo paese ha pagato le tasse in ragione del suo reddito.
In Italia Urbano non ha mai smesso di fare politica.
Dapprima il fulcro della sua attività è stato il Cile, com’era ovvio che fosse - la solidarietà con i compagni rimasti laggiù.
Poi, a mano a mano che il tempo passava, a mano a mano che la sua conoscenza della lingua e della realtà italiane migliorava, il suo lavoro politico ha cambiato direzione.
Il Cile era stato il sogno di una rivoluzione sognata da molti, in America latina e nel mondo. Un sogno che si era trasformato nell’incubo della dittatura.
Ma il Cile era stato anche una straordinaria fucina di esperienze di lotta. Di strategie. Di riflessioni, spesso anche molto amare. Urbano non aveva nessuna intenzione di dimenticare. La vita continuava e la vita adesso era in questo paese, in Italia.
Di qui la decisione di prendere parte attiva, negli anni Ottanta, alle lotte ambientaliste di Massa Carrara contro l’inquinamento della Farmoplant-Montedison e contro l’inquinamento chimico in Val Bormida. Di qui la decisione, più tardi negli anni Novanta, di mettere in piedi un comitato di immigrati che lavorasse non solo alla denuncia, ma anche alla creazione concreta di spazi di esistenza dignitosi per tutti quegli extracomunitari che fino a quel momento, in Alessandria e provincia, dove Urbano nel frattempo si era trasferito, avevano rappresentato nient’altro che un comodo serbatoio di lavoro nero. Buon lavoro nero in cambio di panchine, stamberghe, affitti alle stelle. Lavoro nero a buon mercato in cambio di indifferenza, quando andava bene, altrimenti: xenofobia.
Poi, il 17 maggio 1995, dopo vent’anni di permanenza in questo paese, Taquias Vergara Vicente detto “Urbano” chiede la cittadinanza italiana.
Invano!
La sua istanza viene respinta perché sarebbero “emersi nei confronti dell’interessato motivi ostativi ai fini della sicurezza della Repubblica”. La Repubblica italiana.
Lo dichiara il ministro dell’interno, il diessino Giorgio Napolitano, in risposta all’interrogazione parlamentare che in proposito gli è stata inoltrata dal senatore Giovanni Russo Spena.
Eppure la documentazione presentata da Urbano risultava ineccepibile, la sua fedina penale pulita.
Che cosa è successo allora?
È successo che al ministero dell’interno è pervenuta una nota del Dipartimento della P.S. - Ufficio Stranieri “da cui emergono elementi tali da non ritenere opportuna la concessione della cittadinanza” al signor Taquias Vergara Vicente.
Perché?, ha domandato Urbano.
“... in relazione all’esigenza di salva guardare l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità ... gli elementi documentali prodotti dai competenti organi di pubblica sicurezza sui quali è stato fondato il rigetto dell’istanza di concessione della cittadinanza” non sono accessibili. Questa la risposta. Gliel’ha cortesemente fornita il ministro stesso.
Dunque: ci si rivolge allo stato presentando un’istanza - la documentazione richiesta è completa e a norma di legge; lo stato ricusa l’istanza sulla base di un’informativa della polizia; il richiedente chiede di conoscere i contenuti della nota compilata dai funzionari di pubblica sicurezza - d’altronde lo si accusa di essere un pericolo per la Repubblica!; e lo stato italiano che fa?
Per bocca del suo ministro dell’interno risponde che no, proprio non lo si ha il diritto di sapere per quale ragione si è ritenuti pericolosi. Risponde che la cittadinanza non può essere concessa, punto e basta.
Il caso ha voluto che incontrassi Urbano proprio un quarto di secolo dopo il colpo di stato che ha sconvolto il suo paese d’origine.
I giornali sono pieni di commemorazioni.
... che bei tempi quelli del Cile, te li ricordi? ... erano gli anni Settanta, come eravamo giovani... e Allende? te lo ricordi Salvador Allende?... la rivoluzione... el pueblo unido jamas sera vencido...
Tra i suoi senatori a vita con pieni poteri, oggi il Cile annovera il generale-dittatore Augusto Pinochet. Leggo che il miracolo economico cileno sarebbe un’illusione: “un quarto del paese vive in assoluta povertà e un terzo della nazione guadagna meno di 30 dollari alla settimana” [Cile 98. Falso miracolo di Marc Cooper in Diario della settimana, Anno III, n.36].
Poi mi cade l’occhio su una lettera di Leoluca Orlando pubblicata da il Manifesto [09.09.98] e indirizzata a Giorgio Napolitano.
È giusto in materia di migrazione e politica di asilo, manco a farlo apposta!
Stando allo scrivente, in data 1 luglio 1998 la presidenza austriaca avrebbe varato in sordina “una proposta di documento strategico” dove “si mette in discussione e si smentisce la Convenzione di Ginevra (!) che sancisce il diritto di asilo come diritto individuale”.
Peccato che poco più in là Orlando smentisca la sua buona fede e abbia la spudoratezza di aggiungere che “il trattato di Schengen è ispirato all’abbattimento di muri e recinti per la circolazione delle persone...”.
Un pò di odierno Cile, un pò di odierna Italia. Così, mentre gli Inti Illimani rinverdiscono ancora una volta il mito della rivoluzione cilena al Festival dell’Unità - non dimenticando di invitare i presenti all’acquisto della loro ultima fatica -, mentre Salvador Allende entra nella rosa dei candidati alla beatificazione, mentre Enrico Deaglio si chiede “se la lezione del Cile abbia portato frutti, se questi siano amari o dolci, chi lo sa?”, mi domando se questo Cile di oggi e questa Italia di oggi siano poi così lontani. “In fin dei conti, ce la siamo cavata.”, riepiloga Deaglio, sibillino, in merito alle vicende di quegli anni. Di quel golpe.
[v. Diario, cit.]
Non si può dargli torto.
In merito a quegli anni, in merito a quel golpe, in quanti se la sono cavata?

E.S.

Un nome di battaglia

... Sto parlando del ’69, quando in Cile ci fu un massacro di pobladores. I pobladores erano persone che non avevano niente, famiglie intere che occupavano le terre del demanio nel Sud del Cile, a Punta Arenas. Ci fu un ministro - Sujovic - che ordinò lo sgombero di questa gente... Ne venne fuori un massacro, dodici morti. A quei tempi in Cile c’era il MIR [sinistra rivoluzionaria n.d.r.]. Ma anche altre organizzazioni rivoluzionarie.
Un blocco di queste si trasferì a Santiago... ...

Tu sei di Santiago?

Sì, io sono nato a Santiago.
Quindi ci siamo ritrovati con questi giovani rivoluzionari che venivano dalle università del Sud. Anarchici, trotzkisti, libertari, in polemica col MIR.
A quei tempi si faceva attività politica nelle fabbriche, io lavoravo nel settore calzaturiero e militavo con gli anarcosindacalisti - mio padre [Manuel Taquias n.d.r.] era stato tra i fondatori del sindacato anarchico cileno del cuoio...

... Provieni da una famiglia anarchica?

Sì. Come ti dicevo, nei primissimi anni Settanta si partecipava alle lotte per l’occupazione delle terre. E si lavorava già in semiclandestinità.
Il nome “Urbano”, che poi mi è rimasto, risale proprio a quel periodo. Di solito cercavamo un nome di battaglia che ricordasse qualcuno che aveva dato la vita alla causa del popolo.
A quel tempo era ancora vivo un Urbano che militava nell’Esercito Rivoluzionario del Popolo, in Argentina. E poi c’era l’Urbano che aveva fatto la guerriglia col “Che”, uno dei sopravvissuti al massacro di Guevara in Bolivia...

... Nel ’69 sei entrato in clandestinità...

... Sì, siamo entrati in clandestinità perché non si sapeva ancora quali sarebbero state le sorti di Unidad Popular [l’Unidad Popular, costituita nel ‘69, comprendeva i partiti comunista, socialista, socialdemocratico e radicale, una fetta di democratici cristiani scissionisti (MAPU) e l’API (Alianza Popular Independiente) n.d.r.].
Senza contare che erano molto attivi anche tutta una serie di movimenti di destra, dei quali si poteva intuire fin da allora l’obiettivo, cioè un golpe da attuarsi con il sostegno americano. Il colpo di stato del ’73 non fu una novità per noi, gli Americani vi avevano sempre lavorato.

L’I.T.T., la multinazionale americana International Telegraph and Telephone, col suo giro d’affari di 8,5 miliardi di dollari nel mondo, tra i più grandi investitori in Cile (153 milioni di dollari), finanziò la campagna elettorale di Nixon con 400.000 dollari...

L’I.T.T. aveva investito in tutta l’America Latina.

Com’era strutturato il vostro lavoro politico?

Principalmente occupavamo le terre. Santiago era ed è una città molto popolosa, un terzo dei cileni vive nella capitale [nel giugno 1970 i cileni erano 9,7 milioni, 3,2 milioni dei quali vivevano a Santiago n.d.r.].

Quindi c’erano delle terre da occupare...

... In Cile l’edilizia popolare era inesistente, c’era bisogno di conquistare degli spazi. La gente si aggregava in comitati di occupazione e cercava di stabilirsi nelle terre del demanio, dei latifondisti. I quartieri di Santiago sono sempre nati così e la zona Sud della capitale era la più affollata.

C’era il famoso quartiere de La Victoria...

... C’erano La Victoria, La Legua... Io vengo proprio da La Legua, un quartiere che è nato negli anni ’50, praticamente un quartiere di deportati. Tutti quelli che avevano sostenuto delle battaglie politiche negli anni precedenti erano infatti finiti qui, erano stati cacciati fuori dalla città - La Legua allora era molto in periferia. C’erano comunisti, socialisti, trotzkisti, anarchici. Con le famiglie. Una parte del quartiere era stata occupata, una parte acquistata. Ed era all’avanguardia in tutte le lotte sociali. Tutte le occupazioni a Sud di Santiago venivano organizzate dai figli di quegli operai che erano stati perseguitati durante i regimi dittatoriali precedenti [nel 1952 il Cile era nuovamente governato dal dittatore Carlos Ibanez del Campo, che era già stato al potere nel ‘26 quando, in qualità di ministro della guerra, aveva costretto alle dimissioni il presidente liberale Figueora n.d.r.].

La storia politica del ‘900 in Cile è alquanto movimentata, è stato tutto un avvicendarsi di presidenti...

... In Cile sono sempre stati al potere i militari. E sono al potere ancora oggi.

E la repressione?

La repressione era fortissima, perché come tu arrivavi ad occupare la terra ti trovavi subito di fronte l’esercito.

Com’era la strategia di resistenza?

Si era consapevoli che bisognava resistere a tutti i costi, scontrarsi con loro fino ad ottenere di rimanere.

Eravate armati?

No, ci si difendeva con i bastoni, con quello che si aveva. A sostenerci era più che altro la volontà di non essere mandati via. Perché non si aveva dove tornare.
A queste lotte partecipavano anche tutti i quartieri vicini.

 

Illustrazione di Natale Galli

Azioni illegali

Perché tu e i tuoi compagni, alcuni anche comunisti rivoluzionari, non vi riconoscevate nel MIR?

Perché noi avevamo una visione diversa della rivoluzione.
Noi in fondo eravamo più autogestionari, non accettavamo questa direzione centralista, marxista. Eravamo nati lì, vivevamo in questi quartieri. Vivevamo quella realtà di miseria sulla nostra pelle.
Comunque, pur non avendo una strategia nazionale, eravamo molto solidali con tutta la sinistra cilena. Eravamo presenti nell’occupazione delle fabbriche, agli scioperi, nei contratti nazionali... Ci muovevamo già allora in uno stato di illegalità. Il nostro Paese, infatti, non ci riconosceva alcun diritto. Non avevamo niente.
Quando sono venute le elezioni del ‘70, Santiago era circondata da accampamenti di pobladores. Dopo la vittoria di Salvador Allende, questi occuparono i nuovi quartieri in costruzione che il precedente governo Frei aveva destinato alla piccola borghesia, al ceto medio.
Io ed altri compagni ci installammo in un quartiere militare, destinato a pensionati dell’aviazione...

... Che si chiamava?

Si chiamava “la poblacion Guatemala”. La gente ci vive ancora oggi.

Come giudicavate allora, tu e i tuoi compagni, il programma economico di Unidad Popular? avevate discusso, per esempio, la questione della nazionalizzazione delle risorse cilene che il governo Allende si proponeva di portare a compimento?

Il problema del governo Allende era un altro.
Sì, il governo Allende intendeva lavorare alla nazionalizzazione dell’economia - e in questo senso alcune cose sono state anche realizzate -, ma subito dopo la presa del potere, il presidente ha dovuto negoziare il suo programma da cima a fondo con la De-mocrazia Cristiana. Dopo le elezioni, il numero delle imprese da nazionalizzare è stato notevolmente ridimensionato.
Per “nazionalizzazione” noi invece intendevamo un’altra cosa.
Non ci importava niente che le fabbriche fossero monopoliche... Intanto le avevamo occupate. Tutti i luoghi di lavoro erano in mano ai lavoratori. E questo contrastava fortemente con il programma economico ufficiale di Unidad Popular.
Le nostre azioni venivano viste dal nuovo governo della sinistra come illegali. Mentre noi indirizzavamo la lotta in un certo senso, Allende cercava di frenarla. Con la repressione.
Per tre anni Salvador Allende ha cercato di garantire alla borghesia che in Cile non ci sarebbe stata rivoluzione...

... Perché gli investitori stranieri, la borghesia cilena non si spaventassero troppo di fronte a questo programma economico...

... Era un continuo richiamarsi “al popolo in divisa che difenderà la Costituzione”. Fatto sta che poi Allende ha chiamato Pinochet. Era totalmente assurdo: da una parte si stava vivendo una situazione rivoluzionaria, dall’altra il governo cercava di mantenere una legalità che non era la nostra a tutti i costi.
Era l’unità dei politici, dei borghesi, dei capitalisti dell’America Latina. E dell’America del Nord.

... E l’Europa? cosa vi arrivava dall’Europa in quel periodo? dai partiti comunisti di allora, dai socialisti, dagli anarchici?

Di quello che si pensava del nostro progetto fuori del Cile non ci eravamo per niente preoccupati. Con gli europei non c’era alcun contatto. O meglio: i contatti li avevano alcune organizzazioni ufficiali come il Partito Comunista e il Partito Socialista. Noi che eravamo nei quartieri, nelle fabbriche, eravamo ben lontani da questo.
Anzi, quando in Italia c’era Saragat, si credeva che da voi fossero al governo le sinistre! Si era disinformati, si pensava solo al nostro, di progetto rivoluzionario.

E con gli altri Paesi dell’America Latina?

Eravamo molto, molto vicini. Coi peruviani, coi boliviani, con gli argentini c’era una solidarietà grandissima... Il Cile, nei primissimi anni Settanta, era pieno di rifugiati. Ai quali, peraltro, non veniva quasi mai concesso asilo politico.
Questa gente si nascondeva nei nostri quartieri e partecipava direttamente alle nostre lotte, senza preclusioni.

Prima stavi dicendo della repressione del governo di Unidad Popular nei vostri confronti...

... Il problema più grosso lo ha creato proprio il parlamento cileno, due anni dopo l’insediamento di Allende, quando ha approvato la legge sul controllo delle armi.

La presidenza di Camera e Senato era nelle mani della Democrazia Cristiana fin dal ’71...

... Nel Paese, tra destra e sinistra, c’erano molti scontri a fuoco, era un periodo di grande tensione.
Si era di fronte a uno stato di aggressione permanente dei sindacati, di tutte le iniziative popolari.
Questa legge sul controllo delle armi, che in apparenza era stata fatta per disarmare la destra, fu applicata invece soltanto contro di noi. Furono perquisiti tutti i quartieri, le sedi sindacali...
... Dall’Italia scrivevamo articoli sul Cile, contro la repressione dei militari, parlando della resistenza che c’era laggiù. Abbiamo pubblicato le fotografie dei morti massacrati [vedi El amigo del pueblo n.0/1986, pubblicato a Carrara a cura del Comitato dei lavoratori cileni libertari in esilio n.d.r.].

Come siete riusciti a reperire il materiale fotografico?

Ci è arrivato direttamente dal nostro Paese, da amici. Nascosto tra le pagine di una rivista.

Durante la dittatura di Pinochet, siete riusciti a mantenere i contatti con i compagni anarchici rimasti in Cile?

Sì, dall’Italia si portò avanti una grande campagna di solidarietà con il movimento anarchico cileno e facemmo anche in modo che alcuni di loro potessero venire qui a tenere delle conferenze.

Intanto in Cile la repressione continuava...

... Ferocemente. Contro tutti quelli che si opponevano al regime.
Le formazioni politiche presenti in Cile oggi sono le stesse di allora. Però adesso sono ancora più deboli...

Perché?

Perché in Cile si è creata una situazione molto particolare.
Si è imposto un regime economico che ha portato il Paese ad una crescita molto grossa che ha arricchito una parte della popolazione...

 

Con l’aiuto della gente

... Per quanto riguarda le iniquità nella distribuzione del reddito, le relazioni sulla situazione economica del Cile, quelle più recenti, danno il Paese a livelli africani. Dell’Africa più povera.

La maggior parte della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta. È stato privatizzato praticamente tutto: le scuole, la salute, l’assistenza. Chi è fuori da questo sistema non ha alcuna possibilità. E fuori da questo sistema ci sono più o meno sei milioni di persone, circa metà della popolazione del Cile.

Chi ancora fa politica si trova...

... Si trova a dover affrontare tutti i problemi del dopo dittatura.
Comunque in Cile, se vuoi fare politica oggi, devi continuare a stare molto attento. Il sistema di “collaborazione” con gli organi della repressione resta infatti capillare, non è mai venuto meno.
La sinistra è molto debole, anche a livello istituzionale - con l’approvazione delle nuove leggi è molto difficile riuscire ad ottenere una rappresentanza consistente in Parlamento.
Ma del resto la sinistra cilena non è mai stata maggioritaria, neppure ai tempi di Allende. Il suo consenso si è sempre aggirato intorno a percentuali del 35, 40%.

Ritorniamo un momento indietro, alla tua storia.
Mi dicevi che tu e i tuoi compagni siete tornati nuovamente in clandestinità sotto il governo Allende...

... Siamo stati costretti alla clandestinità. Il governo della sinistra ci perseguitava.
Come ti dicevo nel ’70, dopo la vittoria di Unidad Popular, mentre Salvador Allende negoziava il suo programma economico con l’opposizione, noi operai delle grosse città occupammo le fabbriche, i contadini le terre - e d’altra parte Allende lo aveva sempre detto: “la terra ai contadini!”...
Ma c’era anche un altro grosso problema in Cile, che si era verificato subito dopo l’insediamento del nuovo governo di sinistra: il mercato nero. Sì, Allende aveva aumentato gli stipendi di molto, però la cosa non aveva quasi nessun valore nella pratica. I prezzi erano esorbitanti, impossibili.
Allora noi, a Santiago, mettemmo in piedi un’organizzazione autogestita di distribuzione diretta dei generi alimentari di prima necessità. Per fare questo, avevamo occupato i centri di smistamento di viveri della capitale, i supermercati, i magazzini, in una vera e propria guerra al mercato nero.
Con l’aiuto della gente dei quartieri riuscivamo ad imporre dei prezzi accessibili.
Su questa cosa Allende non era affatto d’accordo, voleva gestire la distribuzione degli alimenti con una organizzazione che si chiamava La Jap (Junta del Abatecimiento y pecio).
Ci trovammo contro il Partito Comunista, il Partito Socialista. Ci diede addosso il presidente...

... E il MIR?

Il MIR era a favore, partecipava attivamente.
Ad un certo punto, a Santiago, eravamo riusciti a mettere in piedi 32 centri di distribuzione diretta.

Un’organizzazione molto estesa...

La battaglia contro il mercato nero era molto sentita, molto partecipata. Questa partita con noi, Allende ha cercato di chiuderla fino all’ultimo.

In che modo?

Facendoci cercare dalla polizia. Era proprio una questione fisica: volevano farci fuori. Ci furono parecchi scontri, sia con la polizia che con i comunisti.

Come si chiamava la vostra organizzazione?

Non c’era una sigla... Però eravamo in tutti i quartieri.

Gli scontri...

... Gli scontri erano più che altro con la sinistra, con la destra era normale. Il governo ci identificava col MIR - allora infatti non esisteva un’organizzazione specifica degli anarchici.
Gli anarchici, i libertari partecipavano alle battaglie politiche direttamente, ognuno dove si trovava.
Quando poi in Europa ho potuto leggere della guerra di Spagna, della guerra civile, ho riscontrato molti punti in comune con quello che era stato tentato in Cile. In particolare sulla questione della collettivizzazione...

La clandestinità sotto il governo Allende significava per voi...

... Che ci preparavamo a combattere di nuovo!
Intanto perché il governo di Unidad Popular voleva farci fuori - in quanto radicalizzavamo la lotta - e poi, ovviamente, perché la destra non aveva mai smesso di attaccarci.
Inoltre sapevamo che si stava preparando un colpo di stato.
Da una parte agivamo in clandestinità, dall’altra continuavamo la nostra attività politica nei quartieri come dirigenti di base.
Siamo passati dal golpe alla resistenza direttamente e molti di noi sono sopravvissuti proprio grazie a queste organizzazioni clandestine attive fin da prima. Il massacro più grosso, infatti, è stato perpetrato proprio contro gli operai. Che non avevano nessun tipo di difesa. E tutto è stato fatto subito, nei primi giorni della dittatura.

 

Illustrazione di Natale Galli

Nello stadio

I militari erano entrati a far parte del governo Allende già nel ’72 con il generale Carlos Prats, comandante in capo dell’esercito, che ottenne il ministero dell’interno. Successivamente il sesto gabinetto del governo di Unidad Popular inglobò tutti e tre i comandanti delle armi cilene (l’Ejercito, la Fach, l’Armada). Era l’agosto del ’73.

Allende li ha fatti entrare perché la destra si appellava in continuazione all’esercito, l’opposizione riteneva che il presidente avesse violato la costituzione e che bisognasse quindi “ripristinare l’ordine”.
I primi risultati di questa operazione furono che i militari pretesero, in qualità di ministri, che le fabbriche venissero sgomberate e restituite ai padroni.
Poi, con la scusa del controllo delle armi, la nostra organizzazione di distribuzione di generi alimentari venne ostacolata rimanendo comunque in piedi fino alla caduta di Unidad Popular. Ma tutto era cominciato molto prima.
Quando Allende ci chiamò a raccolta per difendere il palazzo presidenziale [il riferimento è al 28 giugno ’73, quando un reggimento blindato tentò di conquistare La Moneda n.d.r.], la situazione in Cile era già chiara: o la guerra civile o il golpe. Quella volta chiedemmo al presidente di distribuire le armi. Non lo fece. Fu per questo che noi dei quartieri popolari non rispondemmo al suo appello.
Allende era il solo a non voler vedere in faccia la realtà. Continuava a ripetere che in Cile non ci sarebbe mai stato colpo di stato. Continuava con la sua politica di disarmare la gente.
Invece tutti in Cile sapevano che il colpo di stato sarebbe venuto. Lo sapevano i comunisti, i socialisti. Lo sapeva il MIR. Che era molto preparato alla resistenza - loro combatterono i militari immediatamente, pagando un prezzo altissimo.
Noi dirigenti di base dei quartieri abbiamo fatto le barricate con quello che avevamo. Ma non era certo sufficiente ad affrontare un esercito. E neanche ad affrontare una guerra civile.
Con i nostri mezzi potevamo al massimo difenderci dai fascisti, niente di più.

Quando sei stato arrestato?

Mi hanno arrestato il 27 settembre del ‘73. Mi hanno portato in un campo di concentramento dell’aviazione, a Santiago, e poi di lì mi hanno trasferito allo stadio nazionale.

Quanti eravate?

Non ho idea, lo stadio era pieno.

Cosa succedeva?

Vicino allo stadio nazionale c’è un velodromo, il centro torture era stato impiantato lì. Avevano diviso la gente a seconda dei quartieri di provenienza - io ero con altri 32. Ci torturavano praticamente per quartiere. Volevano avere nomi, informazioni.
Fin dall’inizio ci siamo resi conto, però, che la gente resisteva, non collaborava per niente. E tra noi c’era anche molta solidarietà, si cercava di non dare fiato ai militari. Anche perché non si sapeva se avevamo perso o meno.

Eravate tagliati fuori dal mondo...

... Era stato così anche quando avevamo iniziato la resistenza: non sapevamo quello che stava succedendo.
Ogni quartiere combatteva per conto suo, senza una direzione - in quei giorni, dei responsabili nazionali dei partiti di governo non si trovava nessuno.
Ogni quartiere di Santiago cercava di resistere pensando che anche gli altri stessero facendo la stessa cosa. Mentre invece da altre parti non si stava magari facendo nulla, semplicemente perché mancavano i mezzi...

Quanto tempo sei rimasto nello stadio nazionale di Santiago?

Dodici giorni.

E poi cosa è successo?

I primi giorni di ottobre è arrivata in Cile una commissione dell’ONU. Per i massacri dello stadio nazionale, per la questione dei diritti umani. Per fermarla...

... Per fermare questa intrusione...

... Pinochet ha pensato di fare un’operazione d’immagine. Ha cominciato a liberare 200, 300 persone alla volta.
Si usciva dallo stadio con un certo documento. Con quello ci si sarebbe dovuti presentare poi alla caserma del proprio quartiere [Urbano me lo mostra. Il documento è intestato “Ejercito de Chile, Campamento de detenidos “Estadio Nacional” e l’ordine di rilascio è firmato dal generale Jorge Espinoza Ulloa n.d.r.].
Era tutta una montatura! Una volta che ci fossimo presentati, ci avrebbero ripresi in tutta comodità per spedirci nei campi di concentramento su al Nord. Oppure in quelli del Sud. O anche sulle navi da guerra della marina militare cilena dove nessuna commissione internazionale sarebbe mai potuta arrivare.
Hanno ammazzato centinaia di persone così.

E tu cosa hai fatto?

Una volta fuori sono passato di nuovo alla clandestinità.
Sono andato dove lavoravo e mi sono fatto dare dal padrone, che nel frattempo mi aveva licenziato e non voleva saperne, i soldi che mi spettavano e i materiali che mi servivano per riprendere la mia attività di calzolaio - da clandestino ho tirato avanti facendo scarpe per bambini.
Intanto si continuava a lavorare all’organizzazione della resistenza. Ma le cose erano molto più difficili rispetto a prima. Non si combatteva già più da nessuna parte e nei quartieri dove eravamo conosciuti la gente aveva paura della nostra presenza. Quando arrivava, l’esercito non si limitava a perquisire qualche casa: setacciava tutto un quartiere, gli uomini venivano rinchiusi nei campi sportivi. Era ovvio che la gente avesse paura di noi... Aveva paura che i militari ci trovassero e facessero una carneficina. La complicità di prima non esisteva più.
Facendo trovare cadaveri dappertutto, i militari erano riusciti a raggiungere il loro scopo: si viveva nel terrore.
Poi, piano piano, la destra ha iniziato ad essere sempre più forte. In tutti i quartieri c’erano spie, la polizia segreta era dovunque. La gente ha cominciato a collaborare con i militari.
Per noi non si trattava più, a questo punto, di fare la resistenza, ma di salvare la pelle. Cominciavamo a contarci ed eravamo pochi. Molti erano morti, molti erano nei campi di concentramento.
Alcuni avevano scelto l’esilio.

Ecco: l’ambasciata italiana in Cile... Raccontami come ci sei arrivato.

È stata una vicenda strana. Perché io non pensavo di lasciare il mio Paese, volevo restare e continuare la mia esperienza lì.
Dei compagni con i quali avevo fatto politica fin dal ‘69 eravamo rimasti in quattro... A un anno dal golpe ci decidemmo per l’esilio. Abbiamo preso le nostre donne, i bambini, tutte le donne e i bambini dei compagni che erano prigionieri, e li abbiamo aiutati ad entrare nell’ambasciata italiana. Perché noi l’abbiamo occupato, questo spazio.
[Le relazioni diplomatiche con il Cile sono state interrotte dal-l’Italia il 31 dicembre 1973. La ripresa ufficiale dei rapporti diplomatici è del 7 aprile 1989, con l’insediamento dell’ambasciatore Michelangelo Pisano Massamormile n.d.r.]

Quale fu l’atteggiamento dell’ambasciata italiana nei confronti dei cileni che cercarono asilo subito dopo il golpe?

L’ambasciata italiana collaborava con i militari, collaborava con la giunta. E anche il personale dell’ambasciata era quasi tutto di destra. Ma l’ambasciata italiana accolse i rifugiati? No, loro non aprirono le porte a nessuno. Collaborarono, anzi, con la dittatura facendo catturare dei compagni che volevano scappare. Una volta presi gli accordi per accoglierli, invece di rispettarli, i funzionari italiani avvertivano la polizia.

 

Davvero a Carrara?

... Eravamo senza difesa [all’interno dell’ambasciata italiana n.d.r.]. Non so perché i militari non entrarono, forse perché la violazione sarebbe stata troppo eclatante. Venivano solo quelli dell’ONU, ci portavano da mangiare con un camioncino...

Allora gli italiani non collaborarono affatto?

Con noi no. Nessuno.
Erano di destra. Noi eravamo tutti di sinistra e sapevamo, inoltre, che collaborando con i militari loro si erano resi responsabili della morte di alcuni compagni.

Quanto siete rimasti nell’ambasciata italiana?

Più di quattro mesi, ma c’era gente che ci era stata quasi un anno. La giunta non voleva saperne di lasciarci andare.
Quando hanno deciso di portarci in Italia... Però noi non avevamo chiesto asilo politico a questo Paese...

E come è stato che siete arrivati qui?

In fondo il governo italiano voleva sbarazzarsi di questa situazione. Noi eravamo una testimonianza vivente che in Cile i diritti umani e politici erano continuamente violati e che era in corso un massacro. Il governo italiano aveva interrotto le relazioni diplomatiche, è vero. Ma le relazioni economiche non erano mai state messe in discussione. La nostra presenza dava quindi fastidio.
L’asilo politico, poi, l’Italia non l’ha mica concesso a tutti! Prima della legge Martelli, lo status di rifugiato politico veniva riconosciuto soltanto a chi proveniva dai Paesi dell’Est.
Una volta qui, quelli tra noi che avevano militato nelle fila del Partito Comunista o in quelle del Partito Socialista cileni, o anche i militanti del MIR, trovarono delle sponde nei partiti italiani. Chi invece, come me, non aveva mai avuto un riferimento politico specifico si trovò in grosse difficoltà.
Arrivò addirittura notizia al ministero dell’interno, da parte della sinistra cilena, che noi eravamo in realtà dei delinquenti comuni, il che complicò ulteriormente le cose.
Siccome eravamo in parecchi ad essere in questa situazione, per ottenere il riconoscimento dell’asilo decidemmo di mettere in piedi un comitato. A Grottaferrata. Avevamo avuto l’appoggio del Partito Radicale, la faccenda era arrivata anche a Ginevra...
Però in tanti, col tempo, si stancarono.
Lasciarono l’Italia.

Ho letto che in tutto si trattò di tremila rifugiati...

Sono stati molti di più. Se riuscivi a dimostrare che nel tuo Paese eri stato comunista, allora in Italia eri amico dei comunisti; se riuscivi a dimostrare che eri stato socialista, allora si davano da fare i socialisti. Ma se solo avevi fatto parte di una organizzazione minore, un’organizzazione che si era magari mostrata critica nei confronti del governo Allende, ti ritrovavi tutte le porte chiuse.

Sei entrato subito in contatto con gli anarchici italiani?

Quando sono arrivato a Carrara - nella mia famiglia, in Cile, si era sempre parlato di Barcellona, di Carrara, degli anarchici di questi posti...
I comunisti cileni ai quali veniva riconosciuto l’asilo politico andavano a Bologna, i socialisti a Milano.
Davanti alle autorità italiane, o in altre sedi, io non mi ero mai dichiarato anarchico, ma quando mi hanno chiesto dove volevo andare, ho detto che volevo andare a Carrara.
Ma come a Carrara?, mi è stato chiesto. Sì, voglio andare a Carrara, ho risposto. E ci sono andato. È stato lì che ho preso i primi contatti con gli anarchici italiani.

Sei arrivato in Italia nel ’75. Quando sei intervenuto pubblicamente per la prima volta sui temi dell’immigrazione e del diritto alla cittadinanza, in occasione delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dell’assassinio di Sacco e Vanzetti [V.”Profughi ed emigrati tra razzismo e legge” in Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e Provincia N.33], abitavi e lavoravi qui da dodici anni. La polizia italiana ti stava già alle costole. Non avevo mai smesso di fare attività politica per il Cile... ...

Come lavoravi dall’Italia?

Più che altro lavoravamo alla costruzione di progetti concreti, alla creazione di cooperative di lavoro e di sopravvivenza per gli amici che erano rimasti in Cile. Eravamo riusciti a mantenere i contatti con i quartieri dai quali provenivamo. E anche con alcuni compagni nelle fabbriche.

Raccoglievate denaro?

Sì, raccoglievamo dei fondi. Con i portuali di Carrara bloccammo le navi cilene...

... Anche a Genova era successo, vero?

Sì, sia a Genova che a Carrara. Mi ricordo che con i soldi raccolti in quell’occasione si comprarono delle macchine da cucire per una cooperativa di donne...
Tutte queste iniziative erano state promosse da noi, da questo comitato di lavoratori cileni della zona di Carrara.
Nei confronti delle organizzazioni che rappresentavano la resistenza ufficiale del Cile noi mantenevamo infatti delle posizioni molto critiche. Come prima del golpe, non avevamo mai smesso di ritenere la sinistra ufficiale cilena corresponsabile della sconfitta.
Siamo intervenuti più volte anche sulla questione della trasparenza. Abbiamo denunciato più di una volta che i soldi raccolti dal “Cile democratico” non erano mai arrivati alla resistenza.
Per quanto ci riguardava abbiamo voluto cambiare sistema: facevamo arrivare il denaro direttamente, tramite compagni italiani.

Senza intermediari...

Senza intermediari. Senza passare da queste organizzazioni mastodontiche...
Quella per il Cile è stata una delle campagne di solidarietà più lunghe e più ricche. Sono stati pubblicati centinaia di libri a favore della lotta del popolo cileno; per la rivoluzione ci sono state raccolte di soldi in tutto il mondo. Una rivoluzione che in fondo non c’era.

Non c’era?

Non c’era. Perché aveva vinto la destra. Si trattava solo di fare in modo che quelli che erano rimasti là potessero sopravvivere. Ormai era una questione di pura e semplice sopravvivenza.

Perché lo stato italiano, tramite la polizia, ti teneva d’occhio? Continuare ad occuparti del tuo Paese era un tuo diritto in fondo...

Quello che gli dava fastidio era la nostra radicalità. Nel senso che noi accusavamo anche l’Italia, la Democrazia Cristiana italiana, di avere avuto la sua parte nel golpe cileno.
Le borghesie occidentali erano state tutte conniventi.
Non per niente, al tempo del governo Allende, le navi cariche di rame venivano sequestrate proprio ad Amsterdam, e questo per favorire gli Americani che vi reclamavano un diritto di proprietà.
Inoltre, per quanto mi riguarda, facevo anche molta attività politica insieme agli anarchici. Abbiamo portato avanti una campagna di solidarietà con il movimento anarchico cileno durata tre anni, una campagna promossa dal nostro comitato.
Tra l’altro in Toscana eravamo pochissimi, tutti operai.
Rispetto a quella degli esuli che stavano a Roma, a Milano o a Bologna, e che rappresentavano la resistenza ufficiale, la nostra posizione era senza dubbio più radicale. Mentre loro venivano sostenuti, anche economicamente, dalla sinistra italiana, la situazione per noi era invece molto pesante. Non avevamo mezzi, ognuno si doveva muovere a sue spese.

 

Illustrazione di Natale Galli

Gli anni “di piombo”

Ad un certo punto sono iniziate le perquisizioni...

... Ad un certo punto la polizia è riuscita a definire che ero un anarchico - a quell’epoca era in corso una repressione fortissima contro gli anarchici. Un compagno cileno finì in galera. E ci è rimasto quattordici anni.

Come si chiamava?

Juan Soto Paillacar [vedi Umanità Nova, 21 dicembre 1986 n.d.r.]. Alla fine abbiamo scoperto che questo ragazzo non c’entrava niente.

Che fine ha fatto?

Juan si è fatto qui quattordici anni di carcere, poi è tornato in Cile.
La polizia mi teneva d’occhio perché ero anarchico e perché partecipavo attivamente alle lotte locali, a Massa Carrara, per la questione della Farmoplant, dell’inceneritore [le lotte ambientaliste contro la Farmoplant-Monte-dison cui fa riferimento Urbano sono ampiamente documentate dalle pagine locali e non di tutti i quotidiani toscani e nazionali n.d.r.].
Sono andato parecchie volte a tenere dei comizi anche in Val Bormida [contro l’ACNA di Cengio n.d.r.]...

... Cominciavi quindi ad interessarti delle questioni più specificatamente italiane...

... Sì, accanto al lavoro di solidarietà con i compagni latino- americani e di denuncia del governo italiano che non voleva riconoscergli l’asilo politico, cominciavo ad interessarmi di quello che succedeva qui.

Dicevamo delle perquisizioni...

Erano gli “anni di piombo”, del terrorismo, e chiunque venisse sospettato di essere un rivoluzionario veniva inevitabilmente sottoposto a tutta una serie di provvedimenti.
Hanno incominciato a perquisirmi la casa con il pretesto che potevo nascondere armi, esplosivi. Con la scusa di indagini di cui peraltro non ho mai saputo niente. E me ne hanno fatte parecchie, di perquisizioni... Senza risultato.

Dai processi che ti sono stati intentati per la tua partecipazione politica alle lotte ambientaliste di Massa Carrara sei uscito sempre a testa alta: una volta con un non luogo a procedere per non aver commesso i fatti che ti erano stati imputati, un’altra assolto perché il tribunale di Massa ritenne la protesta tua e dei tuoi compagni legittima [le date di deposito delle sentenze risalgono, rispettivamente, al 28.01.’91 e al 28.03.’92 n.d.r.]...

... Alla fine degli anni Ottanta, quando mi era già stato intentato il processo per la questione della Farmoplant e mentre prendevo i primi contatti con un gruppo di immigrati di Alessandria, la Digos di Massa preparò un dossier a mio carico da inviare al procuratore della repubblica di Genova.
Secondo loro, io e i compagni che avevano partecipato alle lotte ambientaliste eravamo dei facinorosi, degli istigatori, dei terroristi.

... A due giorni dal famoso incidente, c’erano stati in piazza, a Massa, scontri violentissimi: dopo averli provocati, la polizia aveva caricato i manifestanti.
Si trattava di un centinaio di persone che si erano ritrovate davanti alla prefettura per chiedere conto di quello che era successo ai ministri che stavano dentro.
Una televisione locale - Tele Toscana Nord - riprese e mandò in onda in diretta il pestaggio. Il che fece infuriare ancora di più la gente. Alle tre del mattino eravamo in tremila...

... E questa battaglia è stata vinta.

Ed è servita parecchio. Perché ha dimostrato che la gente non ne poteva più, non ne voleva più sapere di questa fabbrica.
Le manifestazioni continuarono, fu dichiarato lo sciopero generale. Dopo gli scontri con la polizia davanti alla prefettura siamo arrivati ad essere anche in diecimila.
Abbiamo occupato il Comune, la Ferrovia, l’Aurelia.
A questo punto il governo di Roma ha dato ordine alla polizia di ritirarsi, di non cercare più lo scontro. La cosa gli stava sfuggendo di mano, avrebbero potuto esserci dei morti.
A Massa ci siamo presi il Comune per quarantacinque giorni...

 

Illustrazione di Natale Galli
Urbano (a destra, con i baffi) in una foto recente.

Impegno antirazzista

... Poi me ne sono venuto ad Alessandria dove ho continuato a partecipare alle lotte ambientaliste in Valle Bormida.
Ma piano piano le cose sono cambiate. Cominciava ad esserci molta partecipazione da parte dei Comuni, dei sindaci. A livello istituzionale insomma.
La lotta si svuotava di contenuti... La partecipazione si è talmente affievolita che quella fabbrica è ancora aperta.

Intanto avevi incominciato ad occuparti degli immigrati...

Avevamo creato un comitato per i diritti dei lavoratori immigrati. Volevamo denunciare le condizioni non solo di lavoro, ma anche di vita, alle quali era costretta la maggior parte degli extracomunitari ad Alessandria.
Dormivano alla stazione, sulle panchine, in case fatiscenti. Oppure erano costretti a pagare affitti esorbitanti - gente poverissima che stava qui per aiutare le famiglie nei paesi d’origine...
Era un’ingiustizia palese, un sistema di sfruttamento inumano. Abbiamo cominciato a parlarne pubblicamente nell’87, ‘88.
Io giravo per tutta la provincia, dovunque ci fossero delle conferenze, e prendevo la parola a nome degli immigrati indipendentemente dal tema dell’incontro.
Una volta capitò che il ministro Goria venisse ad un convegno organizzato, mi pare, dalle ACLI. Erano presenti anche diversi extracomunitari, i sindacati, il vescovo.
Quando mi sono alzato per fare il mio intervento, sono subito entrato in polemica con il ministro. Goria sosteneva che l’Italia, purché gli stranieri avessero i mezzi di sostentamento, era apertissima. Io l’ho accusato di cinismo; gli ho ricordato lo sfruttamento secolare da parte degli europei delle risorse dell’America latina; gli ho rammentato la politica di colonizzazione dell’Occi-dente nei confronti dei paesi del Terzo mondo... Finché il vescovo si è alzato dandomi ragione.

A proposito di vescovi... Quale fu l’atteggiamento della chiesa cilena nei vostri confronti?

Molto ambiguo, perché le gerarchie ecclesiastiche sono sempre state a destra.
In America latina la chiesa ha incominciato ad occuparsi di diritti umani quando le dittature c’erano già.

E la famosa teologia della liberazione?

I vescovi cileni non erano affatto d’accordo. I pochi preti di base che partecipavano alle nostre riunioni erano puntualmente sconfessati.

Invece il vescovo di Alessandria ti ha dato ragione...

In quell’occasione il vescovo di Alessandria disse che dopo aver tanto preso era ormai tempo di restituire...

Il lavoro del comitato che avevate messo in piedi, le iniziative che avete intrapreso hanno avuto una grossa eco. I mezzi di informazione se ne sono occupati spesso, sia per la determinazione con la quale vi ponevate nei confronti del territorio e dell’opinione pubblica sia per la novità di trovarsi di fronte ad un gruppo di lavoratori extracomunitari politicamente consapevoli.

Qui in provincia la nostra organizzazione era diventata capillare. Nonostante che i sindacati avessero creato degli appositi coordinamenti, gli immigrati facevano riferimento a noi - allora eravamo alla Camera del Lavoro.
Ad un certo punto però, visto che non eravamo disposti a farci mettere il cappello, la situazione si fece insostenibile.

Che anno era?

Era l’89. Siamo rimasti alla Camera del Lavoro ancora qualche mese, poi ce ne siamo andati. Avevamo ottenuto che il Comune ci assegnasse dei locali per insegnare l’italiano agli stranieri ed è partita una scuola autogestita. Ma soprattutto avevamo ancora un luogo per ritrovarci, per continuare a portare avanti il nostro discorso...

... E le forze dell’ordine?

La polizia era sempre lì, fuori dalla scuola.
Nel ‘90, contemporaneamente all’inizio della guerra del Golfo, abbiamo deciso di fare una manifestazione. Volevamo scendere in piazza per dare visibilità alla nostra protesta. Volevamo rendere pubblica la denuncia del lavoro nero, della mancanza di case. Volevamo che la nostra presenza fosse riconosciuta.

Come reagiva il sindacato confederale alle vostre iniziative?

I sindacati erano contrari perché ci vedevano concorrenti.
Per la nostra prima uscita pubblica scegliemmo lo slogan “casa, lavoro, giustizia, libertà”, in ricordo di uno slogan che era stato della rivoluzione di Zapata.
La manifestazione ebbe un risalto incredibile...

... Ma la vostra scuola venne bruciata. Da chi?

Non lo abbiamo mai saputo. Almeno ufficialmente. Comunque nel ‘91, mentre eravamo in trattative con il Comune per ottenere un centro di accoglienza, decidemmo di scendere in piazza ancora, questa volta con una manifestazione per il primo maggio.
Fummo gli unici, ad Alessandria, a sfilare in corteo. Le iniziative dei sindacati erano al chiuso, nei cinema.
La manifestazione riuscì molto bene. Bella. L’avevamo preparata a lungo, pubblicizzata con cura.

Il comitato esiste ancora?

No. Ad un certo punto il comitato si è trasformato in associazione, ma adesso non esiste più nemmeno questa.
Io me ne sono andato nel ‘93, altri prima o dopo. Ci siamo dispersi per ragioni di lavoro, per motivi di sopravvivenza.
In ogni caso, in Alessandria e provincia, la situazione degli immigrati era migliorata.
Alcuni risultati, per esempio il diritto alla casa, li avevamo ottenuti.
A quelle prime due manifestazioni importanti ne erano seguite delle altre: contro la repressione - perché con la scusa della droga la polizia perquisiva a tappeto la città ed espelleva i clandestini; contro gli interventi della socialista Margherita Boniver, che pretendeva che gli immigrati avessero un contratto di lavoro, il modello 101. Figurati!
“Il 101 non ce l’ha nessuno”, le rispondemmo dalla piazza.
Intanto a Cremona era nata un’associazione parallela alla nostra: “l’assemblea degli immigrati”. Eravamo in contatto, ci appoggiavamo a vicenda. Gli extracomunitari venivano da tutte le provincie vicine, dalla Liguria...

Illustrazione di Natale Galli

Se 23 anni vi sembrano pochi

Quand’è che hai pensato di chiedere la cittadinanza italiana?

Con la fine delle mie traversie giuridiche per le lotte di Massa, intorno al ‘95.

Cosa ti ha spinto a chiedere la cittadinanza?

Sono sempre stato un pò sindacalista, particolarmente attento alla questione dei diritti...
Io credo che il diritto alla cittadinanza italiana mi spetti perché in questo Paese ho lavorato, ho pagato i contributi.
La cosa più vergognosa di questo governo è che non mi concede la cittadinanza perché sono anarchico.

Però questo non ti è mai stato detto a chiare lettere...

Loro dicono che io sono un pericolo per l’ordine pubblico, per le istituzioni. Il ministro dell’interno, Giorgio Napolitano, rispondendo all’interrogazione del senatore Russo Spena [l’interrogazione parlamentare di Russo Spena risale al 17.09.’97 n.d.r.] ha scritto che la mia richiesta è stata respinta “essendo emersi nei confronti dell’interessato motivi ostativi ai fini della sicurezza della Repubblica”. Addirittura!
Un anarchico può essere astensionista. Può rifiutarsi di partecipare alla vita istituzionale. Ma nessuno stato può privarlo del suo diritto ad essere cittadino. Altrimenti bisognerebbe revocare il diritto di cittadinanza a tutti gli anarchici.

Il diritto alla cittadinanza ti è stato negato l’anno scorso in base ad una nota del dipartimento della P.S.- Ufficio Stranieri.
Sui contenuti di questo dossier vige il più stretto riserbo...

Per saperne qualcosa, di questa nota, abbiamo scritto anche al garante della privacy, Stefano Rodotà [in data 28.11.097 n.d.r.]. Al momento non ha ancora risposto.
Il fatto che un’informativa della P.S., un’informativa riguardante una certa persona, possa essere trasmessa al ministero dell’interno senza che l’interessato ne conosca i contenuti, neppure dopo averne fatto esplicita richiesta, è una procedura assurda, da vero e proprio regime dittatoriale.

Il fatto è che il dossier che la polizia di Massa ha inoltrato al ministero dell’interno non può essere portato in alcun tribunale. Perché?

Perché non è legale. Dovrebbero esserci dei riscontri.
E gli unici riscontri che la polizia può tirar fuori sono i processi che mi sono stati intentati per le lotte ambientaliste. Processi che si sono conclusi con la mia assoluzione. Con la nostra vittoria.
Loro si sono riservati il diritto di esprimere lo stesso un giudizio...

E ora quante sono le probabilità di spuntarla?

Gli avvocati che seguono il mio caso, Luca Gastini e Vincenzo Giovinazzo, hanno presentato ricorso al TAR. Il problema è che non sappiamo esattamente di che cosa sono accusato. Cosa contenga quella famosa nota di P.S..
L’ha richiesta Russo Spena. E gli hanno risposto picche.
Ha presentato un’interpellanza Angelo Muzio; ne hanno presentata un’altra i parlamentari Lino Rava e Renzo Penna...
Il garante della privacy è stato chiamato in causa proprio per verificare che non ci sia stato un abuso di potere, una manomissione dei miei dati personali da parte delle questure...

Quindi tu sei in Italia da ventitré anni con lo status di rifugiato politico...

... Al quale non rinuncio. Perché questo vorrebbe dire riconoscere le autorità cilene. Che io invece non voglio riconoscere.
Il Cile è governato ancora oggi con la stessa costituzione varata dai militari. Non vedo per quale ragione, se sono stato più di ventitré anni rifugiato all’estero, ho avuto i famigliari assassinati, sono stato in campo di concentramento, la mia famiglia conta quindici esiliati, non vedo perché, adesso, dovrei andare a chiedere i documenti a quel Paese, legale con la legalità dei militari...
Non lo farò mai, è una questione di principio.

È una questione di principio anche ottenere la cittadinanza italiana.

In questo momento la mia situazione è particolarmente grave in Europa. Se io dovessi, per esempio, andare in Francia e fossi fermato dalla polizia francese per un banale accertamento, potrei essere arrestato senza alcun motivo. Soltanto perché in Italia esiste una nota di P.S. che mi dichiara pericoloso.
Sono praticamente ostaggio dell’Italia, è questo il punto. Non riconoscendomi il diritto alla cittadinanza e dichiarandomi pericoloso, il governo di questo Paese mi impedisce di circolare liberamente. Con gli accordi di Schengen, che prevedono lo scambio di informazioni anche a livello dei controlli di polizia, mi trovo in una posizione di estrema debolezza. Non posso andare a trovare i miei famigliari che risiedono in altri Paesi d’Europa, non posso muovermi per incontrare amici...

Prima di richiedere la cittadinanza italiana eri al corrente dell’esistenza di una informativa della polizia che ti riguardava?

No, questa cosa è venuta fuori nel ‘97.
Pensa che paradosso: in Cile Pinochet è senatore a vita; invece io, un rifugiato politico cileno, rappresenterei addirittura una minaccia per la sicurezza della repubblica italiana!

Emanuela Scuccato

 

Illustrazione di Natale Galli