Rivista Anarchica Online





La memoria è il luogo che sappiamo abitare

intervista a Stefano Giaccone

“Datemi pure da mangiare il pane della questua, nero indurito, ho tanta voglia di lavorare. Si sono mangiati i miei calcagni queste strade d'asfalto dure a pestare. Sentite furie: alberghi e panifici e padroni che muovete questa ruota orrenda che ci stride sulle carni, ditte, navigatori, capitani sentite: eccovela la testa del mercenario accalappiata nel vostro frustone, desidero anch'io il mio posto in città, lì dove i giornali declamano le guerriglie della civiltà. Mi avete inutile respinto ad alloggiare nelle ville accanto agl'immondi vespasiani e la notte mi bastonano i ladri le prostitute mi sputano addosso.
Tutte le ho girate queste vie da lanzichenecco i posti di ristoro e non ho visto un solo sorridere degli uomini che camminano in fretta. E noi si cammina con la mano al cuore perché a forza potrebbero rubarlo.” Rocco Scotellaro, La città mi uccide.
Ero in viaggio per le terre calabresi per un lavoro di ricerca sull'anarchico Bruno Misefari e la strada ferrata che attraversava le campagne di Eboli e la Lucania di Vallo. E allora il “cristo” di Levi e il poeta-contadino Scotellaro mi risuonano violenti nel vortice di suggestioni del viaggio stesso lungo quelle terre “senza conforto e dolcezza”. E allora “mi è grato riandare con la memoria” a quegli incontri “eternamente pazienti”, con coloro “spinti qua e là alla ventura”, stavolta nelle terre sarde.
E allora ci raccontiamo con il viandante “musicopoeta” Stefano Giaccone.

Gerry – Stefano, inevitabile dunque ritrovarci tra le pagine di “A” e i sentieri nuraghi-contemporanei.
Stefano – Credo in pochissimi fatti, definizioni, teorie, religioni. Credo nella necessità di credere. Considerando che mi stimoli con Scotellaro, rimando a un altro grande socialista-libertario, sempre lucano (se non erro), Nicola Chiaromonte e il suo Credere e non credere del 1971. Nel 1989 venni per la prima volta in Sardegna. Aveva 30 anni, la metà di quelli attuali. E, forse, mi venne da pensare che tra me e questa regione del mondo, c'era qualcosa di inevitabile. Non che sia difficile: la Sardegna è la terra più bella del mondo! Ecco, credo in questa... inevitabilità.

Quali “strade d'asfalto dure a pestare” hai camminato?
Appunto! Strade tante, tante, tante. Ma a pensarci bene, quasi tutte raccolte nell'immagine di mondo trasmesso da mio padre: certi quartieri di Torino (Vanchiglia, Mirafiori, Santa Rita, Borgo Vittoria, Barriera di Milano) e il “pianeta anglosassone”, Stati Uniti, Galles, Irlanda, Inghilterra, la lingua inglese, la lingua del capitalismo e del rock'n'roll. Le strade di altri luoghi cari, a partire dalla Sardegna fino al Portogallo, Paesi Baschi, il Monferrato, il Triangolo D'Oro Alessandria-Parma-Sarzana, ovviamente Fenestrelle e la Val Chisone (The Big Chiso), il centro della nostra italica inquietudine e saudade che è Roma; non sono “dure a pestare”, sono luoghi del cuore.
Aggiungerei anche una strada d'Amerika, da San Francisco fino a Portland, passando per Eureka e Eugene. Un paio di città del Sud Italia, Cosenza e Palermo.

Ti è “grato riandare indietro con la memoria”? Cosa rappresenta oggi, per te, il tuo peregrinare pregresso, il tuo passato, le tue scelte di campo dettate dalla musica e dalla parola?
La memoria è il luogo, il solo luogo, che sappiamo abitare. Tutto è immediatamente, cioè senza mediazioni, memoria. Memoria non è il passato che è semplicemente ciò che è già avvenuto (dal nostro punto di vista, basta girare l'angolo, tipo andare sulla Luna, e già ci sarebbe da discutere su ciò che è passato). Memoria è il suono della tua voce. Nel senso più stretto. Io ho nuotato nella memoria, in modo consapevole, da molto piccolo. Il suono della voce è un delfino (o uno squalo...) immerso nel suono del mondo, la musica delle parole. Vorrei rimandare al mio progetto (che ha concluso la sua prima fase) “The Big Chiso”, primo esempio al mondo di PAM (Protesi di Audio Memoria): letzteworte.bandcamp.com un genere nuovo che ho inventato io. Sto giocando, ho bisogno di ridere un po'!

Dove non c'è “conforto e dolcezza” spesso agisce l'arte visionaria. Negli ultimi tempi, (re)incontrando alcuni musicoviandanti come te e approdando in un “luogo del pensiero” come il May Mask a Cagliari, stai (ri)lavorando anche con le arti visive. Che linguaggio stai utilizzando e che posto è il May Mask?
Il May Mask è un luogo della memoria. Raggiungibile a piedi da (quasi) tutta Cagliari, con ampie vetrine che danno sulla strada, quindi un ex negozio. Un luogo per mettere in scena la memoria, ovvero il suono della voce plurale di chi, a Cagliari e in Sardegna, ha ancora fame e sete di immagini, suoni, incontri, colori per ricordare un futuro (citando Lalli).

Tra l'altro, proprio con una delle teste pensanti del May Mask, Massimiliano Murru, stai proponendo un lavoro sul tema delle migrazioni dal titolo, provocatorio, Viaggio libero.
Viaggio Libero è un evento-installazione che ha elementi scenografici, di reading, musica dal vivo, video, immersi dentro una piroga/barca disegnata con un gesso, a terra. Due voci, due viaggiatori, due anime in fuga, in transito, in libertà, in purezza persino, attorniati da una straordinaria collezione di statue africane in legno, materiali di naufragi ma anche recuperati da botti antiche, ceramiche artistiche di Luciano Melis.
Venti, trenta minuti che ripetiamo nel corso della giornata tre o quattro volte, offrendo sempre del cibo, del vino, cous cous o frutta, fregola, pane carasau e olive. E brevi racconti con al centro l'etimo della parola Viaggio, ovvero il latino Viaticum, la provvista necessaria al cammino.

Se dovessimo tracciare una sorta di percorso a ritroso del tempo, bandendo elementi cronologici, cosa ti andrebbe di raccontare della tua vita parlando di musica e rock indipendente, di Franti e di Marc Porcu, di filosofia e di Lalli? Con parole tue o, se vuoi, con quelle di Letzte Worte.
Faccio molta fatica a scrivere, da anni. Ho comprato un registratore MP3, ci parlo dentro e spedisco via mail lunghi pipponi sconclusionati! Ma qui non posso farlo, certo. Quindi vorrei solo citare il progetto Traversèe-Traversata in italiano e francese, con Dimitri Porcu. Dopo anni, tanti, ho ricominciato a scrivere testi nuovi (diciamo poesia-prosa non canzoni, di quelle non ne scrivo più). Un progetto centrale per ripristinare il mio sistema solare, le distanze, le attrazioni, le rotazioni. Sistema che si combina e si s-combina con altri fratelli e sorelle come Marc Porcu, Pasolini, Ivan Della Mea, Leonard Cohen, Faber, Coltrane, Lalli, Giorgio Mirto, Airportman, FRANTI MM, Dylan Fowler, il Dust Trio (ci vorrebbe un libro solo per questo progetto folle che ancora vive, nelle polveri galattiche!), le Voci del Tempo, Fra Diavolo e molti, molti altri.
Ecco, vedi se mi metto a elencare mi rendo conto che le mie crisi di solitudine sono assurde, immotivate!

Qual è, o cos'è, Stefano, “la ruota orrenda che ci stride le carni”?
Marx Marx Marx Marx (citando Mingus Mingus Mingus Mingus): con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce.

A-rivista” per te vuol dire anche Mille Papaveri Rossi e Stella Nera.
Marco Pandin, senza il quale, a proposito, Franti non avrebbe mai maturato una certa coscienza di se stesso. Un lavoro enorme di documentazione, editoria, visione della contro-cultura libertaria, da decenni. Un viaggio non immune da scontri immani dovuti alla mia natura filosofica marxista e punk, quindi sangue e merda, contro quella anarchica-libertaria, quindi poetica, di Marco.

Stefano Giaccone
foto di Sonia Ponzo

Dove trovi, mangi, condividi “il pane della questua”, Stefano?
Nel mare del mondo, un luogo infinito di memoria, storia, rivolta.

Spinto qua e là alla ventura”, nomade e stanziale tra le tue caratteristiche, che effetto ti fa la terra sarda?
La Sardegna è il luogo dove il vento ha scolpito la sabbia, la terra, le piante, le bestie e le mani delle persone. La Sardegna è dove passano leggeri la Limba, il silenzio, l'amore per la propria terra, la ferocia, il sangue versato di uomini, bestie e antichi guerrieri. La Sardegna è, per me, cresciuto un po' a New York e poi Torino, il suono della voce del mondo. La Sardegna è immortale, nessuno e niente la piegherà mai completamente. Che non ci vivano i miei due figli è una sofferenza per me, una grande amarezza. Spero di dare ai sardi almeno un parte della goccia di splendore che loro mi hanno donato.

Stefano, cos'è la scena indipendente oggi e se ha ancora (un) senso definirla tale?
La scena indipendente non è mai esistita. Esiste da svariati decenni un'editoria, una rete distributiva, una rete organizzativa di vita sociale e di creatività sociale, un'intenzione politica, ovvero poetica. È il fiume carsico della contro-cultura. La scena indipendente è il modo in cui la macchina dell'intrattenimento intercetta fasce di pubblico, convinte dai loro diplomi e lauree, che esista una qualità intrinseca al fatto di far parte di un qualche club di topolino. Tanto poi i topolini aspirano tutti a diventare dei bei toponi, per azzuffarsi attorno agli avanzi di quelli che fanno i soldi veri.

Ti caratterizza il cantare e il raccontare in modo discreto, quasi sommesso alle volte, sicuramente da antidoto al rumore di fondo e al vociare ridondante. Cosa provi a lasciare durante un tuo concerto e cosa ti resta?
Sono distante da una volontà conscia di comunicare (tanto meno di “esprimermi”, parola che mi smuove dentro, nel senso proprio intestinale). Vengo da una storia di lavoro creativo come condivisione cosciente di strumenti per spaccare lo specchio che ci deforma tutti quanti, tutti i giorni. Mentre suono penso a non sbagliare gli accordi, dopo a tirare su di morale l'organizzatore, i compagni, gli amici spesso costretti a darmi meno del pattuito e poi andare a mangiarsi una pizza.
Se dormo bene, vuol dire che ho fatto tutto quello che potevo per creare un incontro unico, irripetibile, sentimentalmente memorabile per chi c'era, me compreso. Di solito dormo bene.

Qual è il posto che desideri in città?
Dipende dalla città. Il luogo dove sto bene, ma purtroppo ci vado poco poco, è un teatro. Posso stare bene guardando qualunque cosa. O quasi. Se c'è un mago, proprio quello con il cilindro, il coniglio, che sega in due qualcuno, allora è ancora meglio. Mi piace essere stupito. Appena dopo vengono i burattini, le marionette, i pupi. Sono sempre rimasto un “gagno”, come si dice a Torino, un bambino che guarda con la bocca spalancata la milionesima ripetizione di un trucco.

A proposito dell'anarchico di Palizzi, Bruno Misefari: “Un poeta o uno scrittore che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L'arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria.” Pensa bene a cosa dire Stefano, potresti guadagnarti il dono di bere il mitico vino greco-calabro di Palizzi.
Per bere del vino di Palizzi farei qualunque cosa, ma so che un rivoluzionario (una mia vecchia ossessione, niente di preoccupante, una cosa tipo la sinusite o le emorroidi) deve sempre dire la verità (la sua, ovvio...) e quindi copio qui alcuni stralci del mio prossimo saggio Into You Like A Remix: per un'ermeneutica della sterilità (sto cercando un editore, voglio un grosso anticipo sulle vendite!): “Non si può fermare una mutazione antropologica. Scavare fuori dal suo inappellabile stomaco masticatore la componente di propaganda, di controllo e sfruttamento è ciò che rimane da fare, è il compito storico di ogni attività creativa e meditativa. Compito a cui sono chiamati filosofi, poeti, scienziati, educatori. I miserabili, i disperati, i lavoratori in nero, i migranti, donne, bambini, vecchi, i dimenticati di Gaza, Chicago, Libia, Amazzonia, Rosarno, Kobane, Lampedusa e Liverpool pagano il prezzo più alto di trasformazioni e decadenze epocali, irreversibili. Non si può aspettare di “avere le idee chiare” e nemmeno “agitarsi per restare umani”.
Non usiamo più la parola “arte” e “artista”: sono termini merceologici della cultura dominante, definiscono solo dei prodotti a forma di foglia di fico, per non scrivere “Merce”, “Software”, “Controllo sociale”, oppure “Tele-visione”, “Politica”. La ROBA, insomma.”

Quali sono i tuoi prossimi progetti? Di che cosa vorresti narrare o cantare, ma soprattutto, di cosa non vorresti più parlare per tenere vivo “lo scopo della ribellione”?
Mettere su una piccola distribuzione sotto il moniker “Letze Worte” di libri, cd, dvd, chiavette usb. Cose mie, ma soprattutto di sorelle e fratelli che testardamente sono in direzione ostinata e contraria. Cose che mi piacciono, cose che mi riscaldano il cuore e che possono scaldare quello di altri attorno. Finire il saggio sulla sterilità del remix, portare avanti Traversèe-Traversata con Dimitri Porcu e Viaggio Libero con il Collettivo May Mask di Cagliari. Poi continuo a suonare e brigare con Lalli, FRANTI MM, teatro, reading, il PAM (Protesi di Audio Memoria), The Dust Trio.
Il sogno è sempre quello di ritirarsi con la mia compagna in centro alla Sardegna e avere tempo di leggere i tanti libri che ho comprato, metter su delle piantine di pomodori, bere un bicchiere di vino rosso guardando il tramonto sulla Giara. Il sogno chiamato “le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta.”

In qualche modo, sei riuscito a trovare un “sorriso tra gli uomini che camminano in fretta” o anche tu cammini “con la mano al cuore perché a forza potrebbero rubarlo”?
Trovare un sorriso è un po' come un passaggio armonico di una canzone che si ama. Diciamo, per oggi (c'è una canzone per ogni giorno!) How long has this been going on (Gershwin, la versione, tra le mille di Lonette McKee). Condividerlo, quel sorriso, è un po' la melodia che ci canti sopra, a volte bene, a volte a cazzo.

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Gerry Ferrara