Documento senza titolo

A358 TESTI


COPERTINA

Ehi! Sono passati quarant’anni!
febbraio 1971 – gennaio 2011
numero speciale


SOMMARIO

A358
dicembre 2010
gennaio 2011

* * * AI LETTORI/Ci siamo 6
Paolo Finzi Fatti&Misfatti/Quell’edicola che non c’è più 7
Gianni Sartori Fatti&Misfatti/Un ricordo di Alex Langer 9
Angelo Tirrito Fatti&Misfatti/A proposito di terra, capitale e lavoro 10
Enrico Massetti Rassegna libertaria/Silvio visto da Stoccolma 14
Walter Pistarini Rassegna libertaria/Il gabbiere Fabrizio De André 15

72 scritti... che palle!
Adriano Paolella La casa libertaria? Ecologica e autocostruita 19
Adriano Paolella La città libertaria? Leggera e piccola 20
Agostino Manni Il signornò dei non sottomessi 22
Alessio Lega La musica... dov’era la musica? 23
Amedeo Bertolo Così nacque “A” 25
don Andrea Gallo Fede antifascista e anarchica 26
Andrea Papi A che cosa servono gli anarchici? 27
Andrea Staid Sul nuovo anarchismo 28
Angelo Pagliaro Il Sud libertario e la sfida della modernità 29
Antonio Cardella Da “Il Mondo” ad “A” 30
Arturo Schwarz Arte e Anarchia 32
Carlo Milani La libertà nell’era delle reti 33
Carlo Oliva La parola come strumento di asservimento o di liberazione 34
Chiara Lalli Un diritto sempre più negato: l’aborto 36
Claudio Albertani Il Messico per sempre 37
Claudio Venza Spagna 1936 tra mito e progetto 38
Colby Gioia, tubi Innocenti e anarchia 41
Corrado Stajano Non ho mai dimenticato 42
Cosimo Scarinzi Pratiche sindacali di vario tipo 43
Cristina Valenti “A” e il teatro. Un doppio compleanno? 45
David Guazzoni Educazione libertaria per strada 47
Davide Turcato Sentimento e metodo: la lezione di Errico Malatesta 48
Diego Giachetti Colonne sonore di “cattiva musica” 49
Domenico Liguori Abbattere dominio. Costruire libertà 50
Dori Ghezzi Un bellissimo sogno da consegnare al futuro 51
Elena Violato Non una, ma tante rivoluzioni 52
Fabio Santin Per i quarant’anni di A-rivista 54
Fausta Bizzozzero Una libreria chiamata Utopia 56
Federica Battistutta Anarchia e religione 57
Felice Accame L’inganno delle parole 58
Filippo Trasatti Della libera comunità nell’amicizia 60
Francesca
Palazzi Arduini Divertenti, saggi, militanti, istruttivi, moderni mangiapreti 61
Francesco Codello L’educazione libertaria oggi 62
Franco Bertolucci Memoria e storia: alcune riflessioni 63
Fulvio Abbate Il mio plastico. Auguri al mondo. 65
Furio Biagini Gli ebrei anarchici (e soprattutto le ebree) 66
Gaia Raimondi Anarchia della comunicazione 68
Gianni Alioti Diritti sindacali e strapotere delle Corporate 69
Gianni Mura Piacere e libertà 70
Gianni Sartori Indipendentismi e anarchismi 72
Gianpiero Bottinelli
ed Edy Zarro Con “A” gli anarchici son tornati a Lugano 73
Gianpiero Landi Attualità di Luce Fabbri 74
Gianpietro “Nico” Berti Una sostanziale coerenza ideale 76
Giorgio Barberis Perché l’Italia mi fa schifo 77
Giorgio Bezzecchi Fabrizio i leskero ovi rom 78
Giorgio Sacchetti «Mussolini è un bucaiolo che manda la gente a letto senza cena...» 80
Giucas Falchetto
Patchinko Radio libere e logiche di mercato 81
(Radio Bandita)
Lalli Ho un sogno 82
Lorenzo Guadagnucci Il guanto di ferro del potere 83
Luciano Lanza Una strage lunga quarant’anni 85
Luigi Balsamini Piccoli archivi crescono 87
Marco Pandin Erano anni di vinile e di nastro magnetico 88
Maria Matteo Prima che sia troppo tardi 89
Marianne Enckell Des anarchismes et des anarchistes au XXIe siècle 91
Mariella Bernardini Sull’orlo di una crisi di nervi 93
Massimo Ortalli Forti emozioni e incoercibili passioni 95
Massimo Varengo Nostra patria è il mondo intero 96
Maurizio Antonioli Storiografia: un bilancio aperto 98
Milena Magnani Noi, i desaparecidos della città uguale 99
Monica Giorgi La lettera della passione 101
Nadia Agustoni La responsabilità delle parole 102
Nicoletta Vallorani “Puu-tii-uuit?”, o il silenzio che urla 103
Persio Tincani Attualità dell’anticlericalismo 105
Pino Cacucci La mia anarchia 106
Pippo Gurrieri Una rivista da studiare (e diffondere) 108
Rossella Di Leo L’ingombrante zavorra della tradizione 109
Sergio Onesti Carcere no grazie 111
le comunarde
di Urupia Sentieri in Urupia 113
Valentina Volonté Il progetto e i suoi tranelli 114
Valeria Giacomoni Primo passo, le relazioni umane 115
Walter Siri Quarant’anni di anarchia a Bologna 116
Zelinda Carloni Appunti sull’utopia concreta 117
40 anni. 358 copertine.
* * * Le nostre copertine 121
Intervista A un redattore di “A”.
Adriano Paolella Intervista a?Paolo?Finzi/La (mia) vita dalla a alla “A” 213
2.616 collaboratori. Mica?male.
* * * Se 2.616 vi sembrano pochi 241

Alfredo López CAS. POST. 17120/En recuerdo de Nerio Casoni 255
Monica Giorgi CAS. POST. 17120/La D’Addario vittima? / Replica 255
Tiziana Montanari CAS. POST. 17120/Meeting anticlericali 1 / Botta... 257
Francesca P. Arduini CAS. POST. 17120/Meeting anticlericali 2 / ... e risposta 258
* * * I NOSTRI?FONDI?NERI/Sottoscrizioni, ecc. 258
* * * Elenco dei punti-vendita 259

In copertina e all’interno: Anarchik disegnato da Roberto Ambrosoli.
Le “A” cerchiate presenti in questo numero di “A” sono tratte dal volume A-cerchiata. Storia veridica ed esiti imprevisti di un simbolo, Eléuthera editrice, Milano 2008.


AI LETTORI

Ci siAmo
Tanti auguri. A pensarci bene, gli anniversari sono esclusivamente delle convenzioni. Si potrebbe lasciarli passare sotto silenzio – a partire dai compleanni delle persone – e non succederebbe niente. O forse sì, si perderebbe un po’ di quella coscienza del tempo che scorre (e che corre) che alla fin fine ci restituisce un po’ il senso stesso dell’esistenza.
È così anche per “A”, che ha voluto – questa volta – marcare con forza questa ricorrenza, offrendo (ma quale “offrendo” dirà qualcuno, costretto a pagare questa volta 10 euro!) ai propri lettori – e, si spera, anche a qualcuno nuovo – questa rivista di 260 pagine. Che cosa ci sia dentro, è già stato detto nell’editoriale dello scorso numero ed è riassunto qui in quarta di copertina.
Ci limitiamo solo ad un accenno a quel che non c’è. Accanto agli scritti (ma Fabio Santin, il solito anarchico, invece di uno scritto ha pensato bene di mandarci un suo disegno) che abbiamo chiesto ad una settantina di amici e compagni, ne mancano tanti che non abbiamo chiesto ad un numero significativo di altri amici e compagni. E non li abbiamo loro chiesti non perché siano “di serie B”, ma semplicemente perché non avremmo avuto la possibilità di pubblicarli in questo numero. Il quale numero – nonostante il prezzo aumentato – nasce come una “pazzia” economica e tale rimane.
E pensare che all’inizio si pensava ad una decina di persone da coinvolgere. Poi a mano a mano che proseguiva la preparazione del numero, ci è venuto spontaneo coinvolgere altre persone, poi altre. Ad un certo punto, stop: chi c’era c’era.
Avremmo poi voluto mettere, dopo le copertine dei (primi) 358 numeri di “A”, anche quelle delle altre cose (CD. DVD, dossier, ecc.) da noi prodotti in questi decenni, soprattutto negli ultimi dieci anni: in tutto almeno 40 “prodotti”, attraverso i quali abbiamo portato avanti le tematiche proprie di “A”, raggiungendo spesso pubblici ben più vasti di quelli raggiunti tramite la sola rivista (cartacea e on-line).

Una conferma. Il “ci siamo” del titolo può dunque essere letto sia nel senso di “la data è arrivata”, “eccoci con il preannunciato numerone speciale”. Ma anche – e a noi piace sottolineare questa seconda lettura – come la conferma, poco più che sussurrata, che pur nelle difficoltà di ogni tipo che caratterizzano la nostra epoca, pur nel frastuono assordante dei grandi media che schiacciano in un angolino i piccoli come noi, nonostante tutto, questo nostro modesto appuntamento mensile (9 volte all’anno) continua a ripetersi e – per quanto ci sarà possibile – si ripeterà ancora per molto.
Sulle nostre pagine si incontrano anche tanti autori e lettori che anarchici non si definiscono e spesso proprio non lo sono, ma trovano comunque qui uno spazio libero per affrontare in libertà e con taglio libertario tante tematiche.
A tutti riconfermiamo il nostro impegno e chiediamo la conferma del vostro impegno per portare avanti con rigore e serietà questa bella avventura editoriale. 2616 volte grazie (a pag. 241 la spiegazione di questo numero).


FATTI&MISFATTI

Quell’edicola
che non c’è più
Nella terza di copertina di ogni numero di “A” c’è l’elenco dei nostri punti-vendita. Fino allo scorso numero, a Milano, accanto a librerie, qualche edicola, centri sociali, ecc. c’era anche questa curiosa indicazione: vendita diretta davanti alla Stazione Nord (p.le Cadorna) tutti i mercoledì dalle 17 alle 19. Se andavi lì, nel luogo e nell’orario indicati, trovavi lui, Franco Pasello, in piedi, di fronte all’entrata più affollata della stazione, proprio nell’ora di punta del rientro. In mano Umanità Nova, “A”, magari Sicilia Libertaria, e appoggiati per terra o nella borsa (per evitare grane con i vigili o i poliziotti), alcuni libri – magari proprio quello ordinatogli la settimana prima da quello studente residente nel Varesotto e da quel professionista, tutto elegante, che faceva il pendolare da Como. Franco era un’edicola umana, o – se preferite – un uomo/edicola.
Con regolarità, da decenni, presidiava quel luogo in quell’ora. Così come aveva fatto per più di vent’anni, il sabato (prima per tutta la giornata, poi – sai, è dura andarci direttamente dal lavoro dopo la nottata del venerdì, quando si fa il pane triplo – solo al pomeriggio) alla Fiera di Sinigaglia, il mercato delle pulci milanese. Per tanti anni da solo, poi insieme con Lillino e Patrizio, poi di nuovo da solo.
Era mitico Franco, aveva un’innata capacità di vendita, era la gioia di noi editori. In realtà il trucco c’era, quel ragazzone che con il passare degli anni diventava più vecchio restando sempre un ragazzone, investiva molto di sè in quell’attività apparentemente commerciale. Sembrava che vendesse, in realtà cercava l’occasione per parlare, per spiegare le nostre idee, per dire e ascoltare commenti sull’attualità, per “cuccare” o almeno cercare di farlo con le ragazze. Era solido come un’edicola vera, te lo ritrovavi lì con la pioggia e il gelo (che a Milano non mancano, con un inverno che può andare da ottobre a marzo), sempre con la sua chiacchiera, il suo sorriso, la sua comunicativa. Quando me lo ritrovavo al fianco in qualche corteo, si divertiva sempre a fare il confronto con la mia incapacità: io vendevo per venti euro, lui per settanta, più un abbonamento, più il numero di cellulare di una ragazza, più il volantino della cena vegana dato a due di Mortara, ecc.. A volte mi sembrava anche eccessivo, al limite dell’insistenza.
Franco non era amico dei Rom, era un Rom. Non a caso solo nei campi regolari e irregolari lui si sentiva del tutto a casa propria. Più ancora che in redazione, dove in media è venuto almeno una volta alla settimana per 35 anni – e, d’estate, quando non andava in ferie, ti si piazzava qui con la chiacchiera, ed era un problema (e solo qualche Franco ne parliamo la prossima volta, se no non riusciamo a fare la rivista nuova e ti tocca continuare a vendere quella vecchia lo faceva desistere).
I suoi amici Rom (qualcuno anche amico mio) non gli rompevano, come noi a volte facevamo, con l’invito a curarsi i denti, a lavare più spesso i suoi vestiti, a darsi una regolata. Nei campi era amato, faceva foto a tutti, ma soprattutto parlava, stava ad ascoltare, cercava di capire quel mondo così diverso dal nostro. Dal nostro? Che dico: certo Franco, persona di grande sensibilità umana, di attente letture, di fini ragionamenti, partecipava anche al nostro mondo anarchico, ma la componente Rom è andata assumendo sempre maggiore peso nella sua vita. E lui, single certo non per scelta, ha sempre trovato nella grande famiglia allargata degli zingari, dei giostrai, dei Sinti la propria famiglia: quella famiglia che non ha mai avuto, da piccolo, e che non si è creato da grande (e chi lo conosce sa quanto ciò gli pesasse).
E allora ti snocciolava le parentele, i Braidic, i matrimoni incrociati, le detenzioni (tante) e le scarcerazioni (poche), e le fuitine delle ragazze, i raid nei campi delle forze dell’ordine. E poi comprava e divorava tutto quanto c’era sui Rom, la loro storia.
Aveva una forte etica del lavoro. Non saltava mai un turno di notte, aveva un’intima coscienza del valore sociale del panificare.
Non era un “talebano”. Convintissimo delle idee anarchiche, dedito come pochi altri alla loro diffusione, aveva una mentalità aperta, frequentava anarchici di tutti i tipi, da quelli dei centri studi agli insurrezionalisti, attento a capire ma fermo nei propri convincimenti. Bazzicava i vegani e mangiava carne, era di fondo un individualista ma non si applicava etichette e non considerava quelle altrui dei filtri per l’amicizia o la collaborazione. Era critico verso le forme che gli apparivano troppo organizzate nel movimento anarchico, ma (per esempio) aveva tanti amici nella FAI (di cui non avrebbe mai fatto parte) e ne vendeva il settimanale anche se spesso non ne condivideva il taglio o alcune cose: era troppo libertario e serio per farsi condizionare, nella sua attività di venditore, da giudizi personali e contingenti. In questo, era più serio e affidabile di altri che, pur parlando di militanza e di organizzazione, introducono motivi polemici ad ogni piè sospinto.
Era molto sensibile, anche troppo – se esiste il troppo. E per una sua vicenda personale, che aveva a che fare con amore, paternità e altre cose di grande rilievo personale, perse quasi la testa e arrivammo a litigare di brutto. Per tanto tempo ridusse di molto la sua frequentazione della redazione e si ritrovò “contro”, fortemente critici, tanti compagni e amici. Fu un periodo orribile per lui, per altri e altre, per noi.
Capii in quei mesi, lunghi mesi, che cosa significhi “sangue del mio sangue”. Scientificamente Franco non era sangue del mio sangue, ma di fatto è come se lo fosse: non fui capace di rompere con lui – di litigare sì, e tanto – per quante stronzate potesse fare (e ne fece, quante ne fece in quel periodo). Era come un mio fratello minore, o forse Aurora e io eravamo per lui figure un po’ genitoriali – ed io in particolare, forse, in parte, quel padre che non ebbe mai e che ancora non tanto tempo prima di morire era andato a cercare a Lendinara, il paese del Rodigino in cui era nato 56 anni fa. Risultato: una volta saputo chi era, il padre lo cacciò, intimandogli di non farsi più vedere, se no avrebbe chiamato i carabinieri. Quanta sofferenza nel suo racconto di questo viaggio nella terra natia!
Ne aveva vissute di cose forti, Franco. Come quella notte di una quindicina di anni fa, quando si era ritrovato, come sempre, nel cuore della notte, solo con il panettiere per cui lavorava. Per una tragica fatalità, il suo “padrone” letteralmente perse la testa, risucchiata e maciullata negli ingranaggi di un macchinario. E da solo con quel cadavere decapitato e sanguinante, Franco aveva dovuto avvisarne la moglie, che abitava nello stesso stabile, finendo – Franco – all’ospedale sotto shock. E da qui aveva chiamato Fausta, della redazione di “A”. Noi, la sua famiglia.
Tante immagini si affollano nella mente: la campagna per Monica Giorgi, Senzapatria, il periodo della sua appartenenza al gruppo Anarres (l’unica sua “appartenenza” che io ricordi), le sue critiche a tante cose che abbiamo pubblicato, la sua passione per la bici (rigorosamente l’unico suo mezzo di trasporto), la sua essenzialità nel vivere, con tirchierie e generosità.
Tra tante immagini, spicca la nostra prima volta. Era il 1976, ero in corrispondenza con lui, giovane detenuto per rifiuto del servizio militare. Si era fatto vivo prima dal carcere militare di Gaeta, poi da quello civile (si fa per dire!) di Sondrio, per chiedere l’invio della rivista e di alcuni libri. Poi uscì e ci scrisse. Abitava non distante dalla redazione, ma non venne a trovarci. Insistetti e alla fine venne, era imbarazzatissimo, non spiccicava una parola, ma ci fece subito simpatia. Tornò, lo intervistai. Poi ci fece conoscere sua madre, fummo invitati a pranzo. Il ghiaccio era rotto. Ora tutto questo appartiene al passato.
Franco è morto, un ictus a casa sua, mentre due Rom che lui aiutava da tempo (me ne aveva parlato) erano probabilmente passati a lavarsi i vestiti e a bere un caffè. Quei due Rom rumeni, che dormono in un’auto, non troveranno nessun altro gagio (come i Rom e i Sinti definiscono i non-appartenenti al loro popolo) che apra loro le porte della propria casa e della propria vita, come faceva con naturalezza Franco. Una cosa che nessuno di noi, pur grandi teorici della solidarietà e bla bla bla, farebbe mai. E che lui, invece, faceva. Concretamente.
Ma anche qui il trucco c’era. Franco smettila di imbrogliarci. Ora che sei morto, lasciaci dire la verità: tu non sei mai stato un gagio. E i tuoi fratelli Rom, i soliti imbroglioni, lo sapevano o almeno lo percepivano.

Paolo Finzi

In ricordo di
Alex langer
Nella primavera del 1995 avevo rivisto Alex Langer a Campogrosso, al confine tra Veneto e Trentino. Alpinista, esponente degli “Europarlamentari amici della montagna” e di Mountain Wilderness, auspicava la realizzazione di un Parco naturale delle Piccole Dolomiti. Davanti alla lapide in memoria del partigiano vicentino Toni Giuriolo (esponente di Giustizia e Libertà, ricordato da Meneghello in “Piccoli maestri”), aveva osservato che “Vicenza e provincia, purtroppo, godranno a lungo della notorietà internazionale (all’estero è già stata soprannominata “la Rostock d’Italia”) acquistata con la manifestazione dei naziskin dell’anno scorso”. Partiva da qui una serie di riflessioni su “l’attuale situazione politico- culturale impregnata di rigurgiti razzisti, di conflitti etnici più o meno latenti...”.
L’amara constatazione di Langer era che “al momento attuale interi strati di giovani sembrano non avere alcuna competenza di tematiche quali la solidarietà, la non violenza, la difesa dei diritti umani”. Si salvavano quelle “frange attive di volontariato che comunque sembrano rivolgersi soprattutto ai casi singoli, personali, ma che appaiono meno presenti sul piano collettivo”.
“Forse pensavamo – aveva aggiunto – che i giovani hanno comunque in sé le potenzialità per una cultura alternativa all’egoismo, al rampantismo, all’individualismo. Invece sembra che stiano diventando una brutta copia degli adulti”.
Parole molto dure, in parte ancora attuali.
Non era comunque privo di speranze per il futuro: “Molti di questi giovani che si sono fatti drogare dalla televisione non si sono mai sentiti dire una piccola frase:“Vieni e vedi”. Si tratta di creare ambiti in cui poter partecipare senza che questo comporti omologazione o sottoscrizione di una ideologia. Sono convinto che dalla diffusione del volontariato civile potrà derivare una rigenerazione politica”.
Sudtirolese di lingua tedesca, figlio di un medico ebreo austriaco fuggito prima a Firenze e poi in Svizzera durante il nazismo, Langer aveva vissuto con estrema partecipazione i conflitti tra serbi, croati, bosniaci. Era stato uno dei fondatori del Verona Forum per la Pace e la riconciliazione nell’ex Jugoslavia, una rete di collegamento tra tutte le etnie coinvolte nelle guerre balcaniche. “Gli incontri di Verona – ricordava – erano cominciati ancora prima del novembre ‘92 e della marcia pacifista a Sarajevo. E già allora abbiamo verificato come fosse difficile mettere insieme queste persone. Molti di loro non volevano riconoscersi sotto la sigla “ex Jugoslavia”. Abbiamo cominciato a incontrarci con gruppi minoritari, donne, pacifisti, democratici...”. Sono più di duecento le persone che hanno partecipato ad almeno uno degli incontri, confrontandosi e arrivando a firmare documenti comuni”. E naturalmente ognuno di loro “nel partecipare alla compilazione di un documento, di una dichiarazione deve anche pensare alla posizione della sua etnia”.
L’ultimo periodo della vita di Alex Langer era stato convulso. Aveva investito ogni energia nella lista per la sua candidatura a sindaco di Bolzano, pensata per “sciogliere i grumi esistenti nel mondo della politica, senza ferire le persone e senza sottovalutare la loro esperienza”. Per una “Bolzano città europea, luogo di convivenza stimolante. Città gentile, ospitale, solidale e sociale”. Il 29 aprile arrivò l’esclusione definitiva sia per il candidato sindaco (per aver rifiutato in due occasioni la dichiarazione di appartenenza etnica) che per la sua lista. Il 19 maggio giunse a Bolzano Selim Beslagic, sindaco della città bosniaca di Tuzla, tradizionalmente un luogo di pacifica convivenza. Langer lo aveva accompagnato in vari incontri in Italia e in Europa per istituire proprio a Tuzla un’“ambasciata delle democrazie locali”. Ma una settimana dopo, con una granata che uccise settanta giovani davanti ad un bar, la guerra riprese il sopravvento. Con l’appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo e con la manifestazione del 26 giugno a Cannes, sconfessando in parte la sua storia personale di pacifista, Langer chiedeva, in sostanza, un intervento per “dare qualche segnale chiaro che l’aggressione non paga”.
Poi la tragica conclusione. Non lontano da San Miniato, nella Toscana che amava, quella di Barbiana (sua la prima traduzione in tedesco di “Lettera ad una professoressa”) e dell’Isolotto (dove, coincidenza, lo avevo conosciuto nel 1969). Un cordino da arrampicata, l’albero di albicocco e i tre biglietti, due in italiano e uno in tedesco: “I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti per questa mia dipartita.(....). Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto. Pian dei Giullari, 3 luglio 1995”.
Pochi giorni dopo, l’11 luglio, le milizie serbe di Karadzic e Mladic entravano a Sebrenica.

Gianni Sartori

A proposito di terra,
capitale e lavoro
Nel tempo ho cercato di comprendere il senso dello svilupparsi della situazione economica/sociale cercando di non basare le analisi solo sulle interconnessioni tra i tre fattori: Terra, Capitale, Lavoro, ma osservando la “logica” propria di ciascuno di questi tre fattori, “logica” che, in situazioni difficili, ha finito sempre per imporre il più forte a danno degli altri.
L’ originario poco conto che si è dato alla Terra, nel suo complesso, che in quanto considerata dono divino agli uomini, si riteneva sfruttabile illimitatamente, era ovviamente fallace. La “logica” propria della terra oggi si impone con la sua forza di reazione distruttiva agli altri fattori tanto da obbligarli, volenti o nolenti, a tenerne invece il massimo del conto. (Cosa ancora non pacificamente accettata)
Il Capitale, che ha superato l’ iniziale forza limitata ai soli mezzi finanziari, oggi rappresenta l’intera organizzazione legale/sociale della quale si è appropriato contando sulla complicità delle religioni, sul controllo sullo Stato teso, tra l’ altro a garantire, con ogni mezzo, il diritto alla proprietà reso eterno con l’ereditabilità.
Il Lavoro, puntando la sua forza sulla capacità dei lavoratori alla solidarietà e alla sobrietà, ha creato le sue organizzazioni che, esclusi gli anarchici e i primi socialisti, sono andati sempre più alla ricerca della loro legittimazione, appiattendo le loro rivendicazioni, sulle leggi apparentemente economiche, trascurando che il potere Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, erano in mano o condizionati fortemente dal Capitale che, quando non in contrasto con i suoi interessi, avrebbe, al massimo, permesso un lieve miglioramento del tenore di vita ma mai accettato il diritto individuale all’ eguaglianza.
Infatti, man mano che la scienza e la tecnologia hanno consentito, come originariamente previsto in favore dell’ umanità, (ricordate il “Balletto Excelsior) un’utilizzazione numericamente sempre meno impegnativa del lavoro, il Capitale ha preteso, per la misurazione dei valori, i semplicistici (falsamente neutri) risultati di mercato. Questo ha comportato, l’accettazione passiva e la complicità da parte della società dello sfruttamento intensivo di tutti i fattori della produzione contro la promessa di un miglioramento futuro delle condizioni generali di vita.
Mentre per il fattore Terra sappiamo cosa questo sfruttamento intensivo ha significato, è’ opportuno capire come il Capitale ha inteso lo “sfruttamento” per se stesso.
Inizialmente ha diretto il “risparmio aziendale” (accantonamento degli utili) per procurarsi margini per investimenti nell’ impresa. Successivamente l’ obbiettivo degli investimenti si è spostato dall’ impresa alla finanza pura e semplice per via della facilità di formazione dei guadagni. Questa operazione è stata permessa dal fatto che il capitale ha ottenuto, sfruttando i riflessi sociali legati all’ occupazione, che gli investimenti strettamente produttivi, gravassero sul pubblico sotto forma, prima, di finanziamenti agevolati e/o incentivi e poi con partecipazioni vere e proprie che, se anche inizialmente parziali, potevano facilmente diventare totali, minacciando la disoccupazione per gli operai con la chiusura delle imprese e trasferendo così il proprio passivo interamente sulle spalle della società.
Poiché la maggior parte dell’ entrate pubbliche sono dovute; a) ai redditi da lavoro, tassati direttamente nel momento della loro formazione; b) ai contributi, che anche nella quota apparentemente in testa all’ impresa, di fatto sono anch’ essi a carico del lavoro perché esclusi dalla tassazione sugli utili; c) alle imposte indirette che gravano sui consumi, ne consegue che lo stornare fondi verso gli pseudo problemi della produzione diventano di fatto sottrazione di reddito ai lavoratori ai quali, si dice, che non possono ridursi le tasse.
Ai sindacati, chi più o chi meno, non è rimasto che confinarsi al ruolo di rivendicatori di contratti migliori, di salari maggiori ecc. sacrificando il loro scopo primario, l’ unico a cui erano veramente interessati i lavoratori, quello della costruzione di un mondo senza sfruttati e sfruttatori.
Ma oggi che la Terra non consente che sia sfruttata senza freni, al Capitale, non resta, con la scusa della legge del mercato, che sfruttare il lavoro e quindi, come abbiamo visto, l’intera società.
Per questo quanto più i sindacati cercano di difendere, nel paese di riferimento, i posti di lavoro di quei pochi che ancora lavorano, (magari a danno di lavoratori di un altro paese) tanto più e meglio il capitale sfrutterà l’ intera società globalizzata.
Mi rendo conto che le mie osservazioni portano a ritenere che il meccanismo del mercato non è in grado di permettere la “ripresa economica” intesa come sino ad oggi si intende.
Credo, (e spero) che portino a pretendere una “ripresa umana e sociale” per la quale tanti si sono battuti. Ripresa che non ha mai avuto il significato di arricchire se stessi a danno di altri.
Il lavoro ha sempre saputo che la ricchezza di alcuni comporta la miseria per tutti gli altri.

Angelo Tirrito

dida p7: Franco Pasello (foto Ivana Kerecki, grazie a Fabrizio Casavola).
dida p8: Franco Pasello (foto Roberto Gimmi).


RASSEGNA LIBERTARIA

Silvio visto da Stoccolma
Uno dei titoli più popolari presentato al festival del cinema di Venezia è giustamente intitolato “Videocracy”, documentario di una compilation abile di filmati di repertorio contemporaneo che descrive l’Italia come uno specchio dell’impero televisivo commerciale del primo ministro Silvio Berlusconi. Nella videocrazia che è l’Italia, l’immagine è la chiave del potere e Berlusconi è indicato come un maestro della propria immagine. Il Premiato documentarista Erik Gandini (“Surplus“, “GITMO”), nato in Italia che ora vive in Svezia, presenta un caso convincente senza ricorrere alla satira diretta o al commento politico à la Michael Moore, e il film ha un fascino morboso che ha effetto sia in un teatro così come in TV.
Anche se lo stesso Berlusconi – l’uomo, oligarca, personalità tabloid e vittima di chirurgia plastica – ha un valore innegabile d’intrattenimento, Gandini è più interessato a quello che potrebbe essere definito l’effetto Berlusconi. Quello che è l’impatto di Berlusconi sulla cultura italiana, in particolare su quelli per i quali la celebrità è potere. Ed è per questo, per caso o volutamente, “Videocracy” finisce con uno specchio più grande sul mondo.
Mentre Berlusconi è al centro del film, egli condivide tempo dello schermo con molti altri che Gandini ha scelto come simboli d’Italia di oggi –presentazioni persuasive (e ipnotizzanti e repellenti) delle figure di grandi dimensioni nella scena culturale pop: Lele Mora, agente di grande successo che dice il suo amico Silvio è “un grande uomo, un grande leader. Lui in realtà non arriva fino ai livelli dell’ideologia, dei metodi e delle modalità di Benito Mussolini, ma è ancora una grande figura.” Poi, con un sorriso sul volto, suona inni fascisti e mostra foto naziste sul suo telefono cellulare. C’ è poi Fabrizio Corona, un mercenario di foto dei paparazzi che cattura le celebrità nei momenti compromettenti, foto che vende poi di nuovo ai vip che vogliono evitare la pubblicazione in una miriade di riviste di gossip in Italia. Entrambi questi personaggi hanno un fascino agghiacciante, ma non si capisce perché il film dedichi così tanto tempo a Corona, un personaggio relativamente minore, che, tra le altre cose, si lascia filmare completamente nudo nel suo bagno.
È quando il film si concentra su Berlusconi che mette veramente a fuoco e diventa più rivelatore. Ci sono filmati della famosa villa di Berlusconi in Sardegna, girati dalla terrazza del suo vicino, il cui proprietario Marella Giovannelli scatta foto di ospiti del partito del primo ministro e le vende online.
Non è un bel quadro di Italia che emerge, e possiamo solo dire che è un poco troppo pessimista, visto che non copre tutti quelli che in Italia a gran voce resistono alla terra bruciata della televisione di Berlusconi. Tuttavia, le immagini d’archivio ci documentano il cambiamento che è venuto nel paese negli ultimi 30 anni, dai primi spettacoli di rottura di casalinghe che fanno lo strip-tease in TV alla incessante sfilata di aspiranti che danzano in lizza per la possibilità di mostrare seni e sederi come veline.
Il montaggio di apertura del film di queste immagini, insieme con la musica minacciosa di Johan Soderberg, crea un senso nauseante di pornografia di famiglia che è difficile da dimenticare. La maggior parte di tutti, il potere della TV di manipolare i giovani italiani immagini di sé si presenta come qualcosa che avrà un impatto duraturo in un lontano futuro.
Il trailer di questo film, che è stato bandito dalla RAI (e, naturalmente anche dalle reti di Mediaset), lo potete vedere a:
http://www.telegraph.co.uk/culture/culturevideo/filmvideo/cinema-trailers/7762165/Videocracy-Trailer.html
Il film, per la maggior parte parlato in italiano con sottotitoli in inglese, lo potete vedere su http://Netflix.com, dove è disponibile in streaming video.

Enrico Massetti

Il gabbiere Fabrizio De André
È uscito nelle librerie Il libro del mondo. Le storie dietro le canzoni di Fabrizio De Andrè, di Walter Pistarini (Giunti, Firenze 2010, pagg. 320, €22,00). Ne riproduciamo l’introduzione dell’autore.

“Non c’è un libro che spieghi tutte le canzoni di Fabrizio De André?” È questa la domanda più comune e più difficile che spesso mi fanno sul sito www.viadelcampo.com.
De André viene “scoperto” di continuo, e chi si avvicina alle sue canzoni magari guidato dalla Guerra di Piero o da Marinella presto scopre che c’è un mondo molto più esteso di quanto sembrava e che quello che sembrava bello viene continuamente superato da altro ancora più bello.
Ma per quanto si presti attenzione, per quanto si riascoltino le canzoni, rimane spesso un che di sfuggente, come se la canzone, benché oltremodo stimolante, nasconda ancora altri messaggi, altri contenuti. E come un buon brano di musica classica, ad ogni riascolto si riscopre qualcosa, nonostante permanga la sensazione che qualcosa ancora sfugga. Credo sia una sensazione che accomuna molti appassionati, e che, appunto, fa scattare la domanda di ricerca di aiuto.
Non che non ci siano stati tentativi di risposta, anzi. La rete è ricca di discussioni e materiale molto interessante. Ci sono moltissimi siti che raccolgono e organizzano materiale su De André con amore e passione. Oltre al mio, mi piace segnalare quello della Fondazione http://www.fondazionedeandre.it/index.html , con una rassegna stampa indispensabile per ogni studio; e poi quello di Marcello, http://www.faberdeandre.com/ ricco e raffinato, con molti video; quello di Giuseppe, http://www.giuseppecirigliano.it/ e quello di Giacomo, http://www.creuzadema.net/ . Segnalo poi una mailing list, ora praticamente inattiva (ma potrebbe risvegliarsi dal suo torpore): http://it.groups.yahoo.com/group/fabrizio/ e comunque nel suo archivio ci sono migliaia di post molto stimolanti e interessanti. Per finire un paio di forum: http://www.faberdeandre.com/forum/ e http://deandre.forumfree.it/ .
In ultimo, ma non per interesse, nasce un nuovo sito, con la sua particolarità: http://tangoitalia.com/fabrizio_de_andre/ la versione in italiano e inglese di “L’altro Fabrizio”, un sito dedicato alle idee anarchiche di Fabrizio de André. Nel sito ci sono molti video con le canzoni di Fabrizio, completi di parole e commenti, in italiano e inglese (e in dialetto genovese quando necessario).
E che dire dei libri? Ad un mio rapido conteggio ne ho listati 94, senza contare quelli sulla musica italiana. E gli articoli di giornali, i video, le interviste?
Bene. Questo è tutto il materiale che ho utilizzato per scrivere “il libro che avrei voluto leggere”. Sul sito avevo già cominciato, da tempo, a migliorare della FAQ (domande più comuni su De André) e raccogliere documentazione. Nei due anni che mi ci sono voluti per la stesura del libro ho raccolto quello che avevo già ed ho rielaborato il materiale succitato. Ho solo esteso le ricerche delle fonti, e quindi Brassens, Dylan,Cohen e qualcos’altro. E’ stata un’avventura entusiasmante, molto più di quanto avessi mai creduto possibile. Studiando con molta attenzione i testi, le fonti, le interpretazioni altrui, le interviste ho praticamente riscoperto tutte le canzoni di Fabrizio De André. Ho capito appieno cosa vuol dire Ivano Fossati quando definisce De André “un letterato prestato alla musica”. Infatti ogni singola canzone ha un substrato culturale impressionante. Sally, tanto per fare un piccolo esempio, è ricchissima di citazioni: inizia dalla filastrocca inglese “My Mother said that I never should / Play with the gipsies in the wood” ma poi va per la sua strada con richiami a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez (Pilar) e El Topo di Jodorowsky… Sappiamo tutti che Smisurata preghiera è stata scritta utilizzando versi di Mutis. Quello che è meno noto è che De André ha sì preso versi da Mutis, ma li ha piegati al suo messaggio. Mentre in Mutis Maqroll che è un gabbiere (il marinaio che sta sulle vele più alte) e vede tutti dall’alto, in Smisurata preghiera è la maggioranza che sta alta e distante.
De André mantiene sempre la sua visione, molto particolare, sicuramente anarchica, di un anarchismo fiducioso nel prossimo, attento alle esigenze degli ultimi. Secondo me De André aveva la rara capacità di saper leggere “Il libro del mondo” è questo è quello che spero si riesca a intravvedere in questo testo.

Walter Pistarini

Errata corrige. Sullo scorso numero, nella didascalia della foto a pag. 18, abbiamo erroneamente indicato Ken Worpole, mentre trattasi di Ben Ward, figlio di Colin Ward. Il pianista dietro di lui è Tom Unwin, figlio adottivo di Colin e quindi fratello di Ben.


72 SCRITTI... CHE PALLE!
Gli scritti sono pubblicati in ordine alfabetico per nome proprio
(e non, come di consueto, per cognome) per sottolineare la familiarità del rapporto
che unisce la redazione di “A” ai suoi collaboratori.


La casa libertaria?
Ecologica e autocostruita

di Adriano Paolella

L’uniformazione produttiva ha espropriato le comunità e le persone delle capacità tecniche del costruire e quindi di definire soluzioni specifiche

L’attuale diffusa conformazione della casa degli uomini è la soluzione specializzata, e colpevolmente parziale, alle esigenze umane. Operando con criteri industriali di uniformazione e standardizzazione delle esigenze, di massima redditività e minimo costo, di centralizzazione della produzione l’esito morfologico della casa è una scatola alienata dal contesto della cultura, delle attività e dell’ambiente. In tutte le parti del mondo la casa contemporanea è formata da vani con le medesime funzioni, strutturati e relazionati alla stessa maniera aggregata in unità immobiliari nella quantità e con la densità dettata dalla speculazione.
Eppure l’ambiente e la creatività determinano modalità di vita diverse e il combinarsi di innumerevoli luoghi, individui, culture dovrebbero conformare innumerevoli soluzioni edilizie.
Ma l’uniformazione produttiva ha espropriato le comunità e le persone delle capacità tecniche del costruire e quindi di definire soluzioni locali. Il prodotto uniformato, culturalmente scadente, energeticamente e ambientalmente insufficiente, è sostenuto da una filiera di produzione di materiali, tecniche, attrezzature e organizzazione dei processi di tale forza economica che asservisce le amministrazioni ed impone soluzioni alle comunità. Case con materiali e tecniche di scarsa qualità ambientale con ridotti orizzonti temporali coerentemente vengono riempite da mobili, strumenti, merci della medesima qualità, sono enormi accumuli temporanei di rifiuti.
Nelle case si dorme, si mangia, si riposa ma in generale non si lavora, non si crea, non ci si relaziona con l’ambiente; nella logica aberrante della divisione delle funzioni, vi sono altri spazi altrettanto specializzati. Così la vita della casa è defraudata da attività fondanti quali, ad esempio, la manutenzione e l’adattamento della stessa o la produzione, il trattamento e la conservazione degli alimenti.
La casa è svuotata di attività, il tempo nell’abitazione è svuotato di azioni e riempito di atti alienanti; la casa è uno dei contenitori del tempo disperso (vedi televisione, rete, etc).
Così la casa, sia in condominio sia unifamiliare, è estranea tanto alla comunità quanto all’ambiente. Gli spazi verdi privati tentano un rapporto con la natura, ma questo è così malamente impostato che l’esito sono edulcorazioni dei caratteri sublimi della naturalità e immiserimento delle forme naturali in un contesto controllato e rigidamente gestito.
La casa libertaria è autocostruita, o comunque fortemente partecipata, con materiali principalmente naturali e locali; essa pone un’attenzione prioritaria alla riduzione del “peso” ambientale, morfologico, energetico e sociale, risponde alle esigenze specifiche dell’abitante, tende ad essere il luogo della complessità della quotidianità non parcellizzando le funzioni e relazionandosi con l’ambiente e con le altre unità abitative.


La città libertaria? Leggera e piccola

di Adriano Paolella

Ogni piccolo centro può essere rivissuto con nuova autonomia.

G li insediamenti contemporanei sono la risultante di azioni che, anche quando mediano gli interessi fondiari e immobiliari con quelli degli individui, non hanno come fine il benessere della comunità.
L’attività dei tecnici, progettisti, pianificatori, esperti in genere, per comporre lo spazio delle comunità dovrebbe essere a supporto delle richieste delle stesse, mentre oggi si configura come una totale delega usata, inoltre, troppo frequentemente per accontentare gli interessi dei potenti e degli speculatori. L’abitante, condizionato dalla forme e dall’organizzazione spaziale dei luoghi, si adatta faticosamente ad una situazione di cui non è né protagonista né partecipe.
Città imposte dall’interesse e subite dalla comunità, non lasciano tregua e piegano gli abitanti a modalità di vita aberranti, a comportamenti nocivi per la loro salute e dannosi per l’ambiente; città che dovrebbero essere chiuse, dichiarate inagibili per le condizioni di estremo degrado ambientale e spesso sociale; città dalla possente forza attrattiva in cui si concentrano economia, mercato, relazioni, possibilità di “successo”. L’aumento delle dimensioni degli insediamenti riduce il rapporto con il territorio e le risorse, centralizza i servizi e gli approvvigionamenti annullando la capacità di autonoma sopravvivenza delle comunità e asservendole sempre più a monopoli e gestioni private. In una città nessun individuo può direttamente trasformare gli spazi, né conformare il paesaggio, né produrre i propri alimenti, né accedere all’acqua o ad altre risorse indispensabili per la propria esistenza. In nessun parco pubblico un individuo può piantare un albero, né porre un nido, né allevare galline, né modificare, adattare, mantenere, riqualificare. Sono spazi predisposti per lo svolgimento di una specifica funzione di cui viene fornita anche la regolamentazione di uso; sono un’astrazione delle necessità degli individui, una semplificazione delle complessità dell’abitare, una limitazione dell’essere. Nella dicotomia pubblico-privato ciascuno spazio ha una sua funzione ed un suo regolamento; ma il loro insieme non soddisfa le esigenze e il piacere della comunità.
Le città contemporanee sono l’immagine concreta di una organizzazione sociale, sono rappresentazione di un autoritarismo culturale, economico e sociale altrove meglio celato.
Una comunità dovrebbe avere la possibilità di definire i luoghi in cui vivere e dovrebbe farlo potendo ricercare in via prioritaria il proprio benessere basato sullo stabile e duraturo equilibrio tra effettive necessità, disponibilità locali di risorse.
La città libertaria è tendenzialmente leggera, morbida, con dimensioni e numero di abitanti direttamente collegate alle risorse disponibili; città stabili non in crescita, né demografica né spaziale, ove le comunità si riappropriano di una delega data indirizzando le scelte degli amministratori, gestendo direttamente le attività, ricucendo il rapporto con le risorse, perseguendo un’autonomia economica, adattandosi alle condizioni dell’ambiente ed adattando esso senza destrutturarlo.
Ogni piccolo centro può essere rivissuto con nuova autonomia, ogni città può essere parcellizzata in aggregazioni più piccole attraverso l’azione diretta e la pressione esercitata sui “tecnici” per una urbanistica sociale e ambientale in cui il benessere diffuso non trovi compromessi, in cui i piani non siano giustificativi e mediatori di interessi, in cui le comunità controllano e gestiscono gli spazi e, attraverso di essi, la propria esistenza.


Il signornò
dei non sottomessi

di Agostino Manni

Senzapatria era la principale rivista anarchica che sosteneva le nostre idee.

L a prima volta che fui arrestato, nel gennaio dell’’88, esistevano in Italia tre grosse carceri militari: Peschiera del Garda per il Nord, Forte Boccea a Roma e Santa Maria Capua Vetere per i detenuti del Sud. C‘era poi qualche caserma minore, come il carcere di Bari Palese, dove stavano in isolamento prevalentemente detenuti in attesa di giudizio, e dove fui trasferito dal civile di San Vittore, a Milano, dopo il mio arresto avvenuto nella stessa città.
La popolazione di un carcere militare – oltre agli sbirri colpevoli di qualche reato, che in genere stavano in un reparto distinto del carcere – era composta perlopiù da centinaia di Testimoni di Geova ai quali si aggiungevano varie decine all’anno di insubordinati, soprattutto disertori, militari di leva spesso analfabeti, privi di qualsiasi sostegno legale, politico ed economico. Poi c’eravamo noi, gli ‘obiettori totali’ o ‘non sottomessi’, con un nome mutuato dagli ‘insoumis’ della Spagna, dove centinaia di compagni ogni anno rifiutavano la leva, compreso il servizio civile sostitutivo obbligatorio.
In Italia il fenomeno riguardava solo pochi individui, quattro o cinque all’anno, quasi tutti anarchici, che scontavano per il rifiuto circa un anno di galera, cui potevano aggiungersi mesi a causa di altre condanne per le frequenti proteste e insubordinazioni. Senzapatria era la principale rivista anarchica che sosteneva le nostre idee: pubblicizzava le nostre lotte, denunciava i casi dei disertori e degli insubordinati, informava sui processi, raccoglieva fondi, stampava libri e opuscoli, organizzava manifestazioni....
In realtà tutta la stampa anarchica ci sosteneva: quasi su ogni numero, nell’anno e passa della mia galera, A-Rivista ha pubblicato qualche mia lettera, qualche mia denuncia, qualche mio urlo da quell’assurdo buco di mondo. All’epoca il PCI in Italia si opponeva all’abolizione della leva obbligatoria: col pretesto che, eliminandola, sarebbe mancato un baluardo contro il rischio di colpi di stato da parte della destra e dei militari, si legittimava una clientela nella quale evidentemente il ‘Partito’ gestiva alla grande voti ed affari.
Anche all’interno del movimento anarchico le posizioni non erano uniformi: alcuni sostenevano la necessità di un’opposizione dentro le caserme, tra il ‘proletariato in divisa’, una stategia praticata da alcune organizzazioni dell’estrema sinistra italiana negli anni ‘70.
La non sottomissione partiva invece da un altro presupposto: sosteneva che la costruzione di un mondo nuovo non poteva prescindere dal rifiuto netto del sistema dominante, in ogni sua forma: la patria, l’esercito, la chiesa, la fabbrica, la famiglia, la scuola. Il rifiuto di tutte queste istituzioni veniva considerato una premessa necessaria e imprescindibile alla costruzione di una società di liberi e di uguali. Con in testa queste idee e nel cuore questi sogni, tanti giovani anarchici in quegli anni sono stati rinchiusi in un carcere militare.


La musica...
dov’era la musica?

di Alessio Lega

Abbiamo bisogno di una ricerca strenua delle radici più pure e profonde

N ei salotti lustrati da servi venerati nei concerti segreti dai segreti merletti nei templi invecchiati da ricordi fottuti. È là che appassisce la Musica, è là che abortisce la Musica... Noi nelle strade la vogliamo la Musica. E ci verrà. E l’avremo la Musica.

Diceva – anzi cantava – Léo Ferré, il più profeta e il più libertario dei cantautori. Portare la musica e la poesia nelle strade è il compito che s’è prefisso certa canzone, quella di cui mi occupo, quella contro cui certi sostenitori dell’arte pura o del minimalismo si scagliano.
Mestiere duro quello di fare stare le canzoni all’altezza delle strade come una testimonianza, come una rivolta gettata in faccia a chi vuol capire e a chi non vuole, senza “vasellina di violini” (per dirla con un grande un po’ troppo dimenticato, Herbert Pagani). Come uno strumento di resistenza al potere, all’oblio, alla morte.
Persino noi stessi valutiamo a volte poco questo strumento: quanti di noi si sono avvicinati a certe idee perché le hanno sentite cantare? La libertà è un’idea che canta.
Quanta gente è diventata anarchica per “addio Lugano bella/gli anarchici van via” (non certo dall’orecchio, visto che questa canzone si canta da cento e più anni), per

Non son l’uno per cento ma credetemi esistono.
Hanno bandiere nere sulla loro speranza
e la malinconia per compagna di danza
coltelli per tagliare il pane dell’amicizia
e del sangue pulito per lavar la sporcizia.

o per

Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.

Poi si va avanti, si studia, si approfondisce... ma la prima pulce nell’orecchio (è proprio il caso di dirlo) spesso la mette una canzone. A canzoni forse non si fanno rivoluzioni – come hanno detto in tanti – ma senza canzoni la memoria perde uno dei tasselli cui reggersi.
Scrivo queste note nel settembre del 2010. Nel luglio di quest’anno è ricorso il cinquantesimo anniversario dei tragici fatti di Reggio Emilia: il 7 luglio del 1960 cinque dimostranti disarmati furono uccisi dalla polizia, che aprì il fuoco nel corso di una manifestazione. Fausto Amodei dedicò a quelle vittime un brano divenuto celebre. Recentemente Fausto è stato presentato al pubblico così: “Questi è Amodei, per chi non lo conoscesse, quello che ha fatto i Morti di Reggio Emilia”.
“Veramente è stato il governo Tambroni a farli” ha chiosato subito “io mi son limitato a celebrarli”. L’aneddoto è buffo e mostra bene come la memoria di certe vicende si affidi ai canti. Oggi quei morti son diventati la loro canzone. Non è una cosa irrispettosa, più vivo di un libro quel pugno di versi trasporta la memoria storica dei cinque di Reggio, la fa vibrare nell’indignazione dei nipoti, come vibrò in quella dei fratelli, come ha vibrato in quella dei figli.
Di fatti simili, di tanta sanguinosa repressione, di troppe storie di piombo sulle folle, e di qualche bel momento di felice rivendicazione manca la testimonianza cantata. Ed è male.
Oggi che la comunicazione di massa mangia e distrugge subito ogni notizia è più che mai necessario scrivere le nostre canzoni e per farlo abbiamo bisogno di una ricerca strenua delle radici più pure e profonde, perché molte delle nostre parole si sono stancate e bisogna rinnovarle, trovare nuovi modi per cantare la stessa storia.
Cantare come Woody Guthrie, che viveva sui treni nell’America degli anni ’40 e aveva scritto sulla chitarra “questo strumento uccide i fascisti”. Come Lluis Llach, il catalano costretto all’esilio per aver scritto L’Estaca. Come Jacek Kaczmarski che riprese quella canzone in polacco e la fece diventare l’inno di Solidarnosc. Come Violeta Parra la pasionaria cilena che cantava come dipingeva e che si suicidò dopo aver composto Gracias a la vida. Come Victor Jara, suo allievo spirituale, assassinato dai militari durante il colpo di stato del 1973. Come Zeca Afonso la cui canzone Grandola fu il segnale d’inizio della Rivoluzione dei garofani il 25 aprile del ’74. E poi i due francesi Ferré e Brassens, libertari e opposti per carattere e poetica, opposti come due poeti, differenti come due anarchici.
Questa è la ricerca che sta alla base della rubrica “E compagnia cantante” per cantare al presente, scrivendo una lettera d’amore agli uomini che verranno.

dida p24: Leo Ferré


Così nacque “A”

di Amedeo Bertolo

Eravamo giovani e un tantino presuntuosi.

E ravamo giovani, decisamente. Il più vecchio ero io: avevo ventinove anni. Il più giovane, Paolo Finzi, ne aveva diciannove. Gli altri (Luciano Lanza, Fausta Bizzozzero, Nico Berti, Roberto Ambrosoli) avevano tra i venticinque e i ventotto anni. Sto parlando del nucleo centrale dei fondatori di “A” nell’autunno del 1970, quando nasce il progetto della rivista. Giovani e avventati: saggiamente avventati, visti i risultati.
Il progetto nasce in modo singolare, su sollecitazione esterna a quelli che saranno – che saremo – i suoi effettivi promotori. Un piccolo editore romano ci propone, tramite un suo collaboratore (Guido Montana), di dare vita a una nuova pubblicazione anarchica. Nuova, diversa. Il Montana ci suggerisce anche il titolo: “A”, graficamente una A cerchiata. Perplessità nostra iniziale sul progetto e sul titolo, poi accettazione. Mentre prepariamo il primo numero, inventandoci grafici e giornalisti, l’editore ha un ripensamento (probabilmente trovandoci troppo anarchici e dilettanteschi per i suoi gusti) e lascia il progetto. Che fare? Rinunciare? Continuare? Con quali capacità, con quali soldi? Avventatamente e saggiamente decidiamo di esserne capaci e di proseguire da soli. E decidiamo di utilizzare un gruzzolo accantonato nel corso degli ultimi due anni per un progetto – arenatosi – di comune libertaria, sufficiente a malapena a coprire i costi tipografici dei primi tre numeri della rivista. Poi si vedrà; che Bakunin ce la mandi buona.
Il vecchio Bak ce la manda buona. Tirata a diecimila copie, “A” vende da subito sette-ottomila copie, diventando di gran lunga la più diffusa pubblicazione anarchica. La formula che a tentoni, un po’ programmaticamente un po’ sperimentalmente, avevamo adottato funzionava, era adeguata ai tempi, tempi di rivolta giovanile e di intensa conflittualità sociale (eravamo a ridosso del ’68 studentesco e del ’69 operaio) e di inaspettata riscoperta dell’anarchismo (effetto paradossale anche dell’affaire Piazza Fontana).
La formula? Una veste grafica attuale (attuale allora, evidentemente), un linguaggio attuale, contenuti attuali (o attualizzati). Un po’ specchio delle lotte e un po’ riflessione critica, con un po’ di pensiero di più ampio respiro, un po’ di proposte teoriche innovative (quelle dei Gruppi Anarchici Federati – G.A.F. – cui la rivista faceva riferimento, pur non volendone essere espressione ufficiale) e un po’ di riproposizione orgogliosa di identità anarchica…
Eravamo giovani e un tantino presuntuosi. Quel tanto di presunzione necessaria forse a farci credere capaci di ridare giovinezza a un anarchismo che percepivamo come senile, ripetitivo, stancamente e inutilmente retorico, una vulgata che tradiva le potenzialità dell’anarchismo classico…
Ho lasciato la redazione di “A” alla fine del 1974, dopo avere pensato e realizzato il suo passaggio grafico e redazionale al nuovo format magazine, per impegnarmi in altre iniziative editoriali e culturali: la rivista internazionale di ricerche anarchiche “Interrogations”, il Centro Studi Libertari G. Pinelli, le Edizioni Antistato…, perseguendo in altre forme più o meno lo stesso progetto identitario e insieme apertamente innovativo che aveva fatto nascere “A”.


Fede antifascista e anarchica

di don Andrea Gallo

I nvece di un suo scritto, del nostro giovane (anche se l'anagrafe non è d'accordo) amico prete genovese pubblichiamo un biglietto inviato a un nostro redattore che l'aveva invitato a partecipare a una "festa partigiana" promossa dall'ANPI di Piacenza il 29 agosto 2010 a Peli di Coli, sull'Appennino Piacentino.
La festa si è tenuta davanti alla chiesetta che, durante la Resistenza, vide Emilio Canzi, anarchico, comandante della XIII Zona Partigiana, partecipare con ruolo di primaria responsabilità alla lotta armata contro i nazi-fascisti, aiutato anche dal parroco di quella chiesetta di montagna, don Bruschi.
Trascriviamo quanto scritto da don Gallo:

“Carissimo Paolo, ti ringrazio per gli inviti. Per testimoniare la mia fede antifascista e anarchica, verrei sempre di corsa. Purtroppo, la vecchiaia, qualche impegno... mi trovo in difficoltà. Sono fiero di essere con voi a Peli di Coli. Il patrimonio di Emilio Canzi risvegli tanta indifferenza. Il fascismo è “in libera uscita”. Fermiamolo! Ciao. Andrea Gallo”


A che cosa servono
gli anarchici?

di Andrea Papi

Ha ancora senso spendersi per un’idea come quella anarchica?

D a un punto di vista utilitaristico, non servono a nulla. Anzi! Per quanto riguarda profitti, utili e rendite, attuali dèi il cui potere incombe sull’andamento complessivo del mondo, rappresentano un sicuro rischio di perdita. Lo testimoniano i conti anarchici perennemente in rosso. Dal punto di vista del benessere interiore, di un fare disincantato e creativo, di una prospettiva intellettuale ed estetica aperta e irriducibile a qualsiasi canonizzazione dall’alto, invece sono senz’altro una panacea. Se assimilato nel modo giusto, infatti, l’anarchismo è in grado di offrire possibilità taumaturgiche sorprendenti per risollevare lo spirito, perché aiuta ad acquisire in modo autonomo un’acuta capacità di sguardo sul mondo, allo stesso tempo avveniristica e realista.
La vera domanda è se ha ancora senso spendersi per un’idea come quella anarchica, dileggiata e considerata irrealistica dalla cultura dominante, al punto che chi l’abbraccia si trova facilmente destinato a una specie di non voluto eremitaggio intellettuale e ideale. Contro questo conformismo imperante rispondo con determinazione che non solo ha senso, ma che è rimasta l’unica idea sensata che propone un modo di essere e di vivere radicalmente alternativo all’attuale degradata situazione sociale, economica, politica ed esistenziale.
L’anarchia è rimasta l’unica prospettiva, seria e poetica al tempo stesso, in grado di emanciparci dallo stato di cose presente, nonostante che i suoi detrattori continuino a presentarla come fonte di ogni caos. Ma basta guardare in modo disincantato come sta (non)/funzionando il mondo, sempre più soggetto a una gran quantità di leggi, a governi che impongono il volere di pochi, ad oligarchie che arraffano ogni cosa impoverendo tutti gli altri, per rendersi conto che è proprio questo (non)/funzionamento il vero generatore di un continuo caos strutturale, fattore di un costante aumento di confusione.
Quando la gran parte dell’umanità si renderà conto che l’accumulazione finanziaria, l’imposizione politica, la schiavizzazione del lavoro e il controllo dall’alto degli esseri umani da parte di elite autolegittimantesi, sono le vere cause della sofferenza e del malessere sempre più diffusi, allora riscoprirà la proposta anarchica e non la considererà più né distante né fuori portata. Capirà che i suoi presupposti di libertà, individuale e collettiva, di cooperazione, di solidarietà, di metodi libertari non gerarchici, sono indispensabili per trovare i modi giusti per cominciare a risolvere i mali da cui è afflitta.


Sul nuovo anarchismo

di Andrea Staid

L’anarchia si deve costruire nel nostro vissuto senza aspettare la rivoluzione.

P artiamo da un concetto fondamentale, per definire il nuovo anarchismo o quanto meno per darne la mia interpretazione;
l’anarchismo dovrebbe essere pluralista, non può essere riproposto uguale in tutto il mondo, non è universale, ed è portatore del concetto relativista.
L’anarchismo deve essere legato al contesto della sua produzione, è mutevole, perennemente in transito, se si fermasse diventerebbe un dogma e sarebbe destinato a morte certa. Il pensare anarchico è programmaticamente instabile, non cerca riposo ma diviene incessantemente. (Salvo Vaccaro) Detto questo è chiaro che è importante continuare ad affermare, per esempio, che vogliamo un mondo di liberi ed uguali, praticare l’autogestione, produrre un messaggio chiaro e deciso, ma senza mai affermarlo in termini assoluti; un messaggio che si costruisce gradualmente, che cambia nella pratica, nel confronto quotidiano con e tra la gente.
Chiaramente questo modo di vedere l’anarchismo e la sua pratica rende tutto più complesso e incerto. La vecchia sicurezza anarchica “de l’anarchia che verrà” svanisce, si sgretola.
L’anarchia si deve costruire nel nostro vissuto senza aspettare la rivoluzione, poiché non esiste un solo grande potere da abbattere, un palazzo da conquistare. Il potere come ci ricorda Michel Foucault non occupa un luogo unico privilegiato, né dipende da un unico soggetto identificabile una volta per tutte. Lo stato, le leggi, le egemonie sociali sono soltanto effetti e manifestazioni sul piano istituzionale di rapporti e strategie di potere. Il potere è, invece, anonimamente diffuso ovunque; è onnipresente e dappertutto, “non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove” Il potere coincide con la molteplicità dei rapporti di forza, che variamente si intrecciano e si contrappongono. È una relazione fra individui e la società è attraversata da rapporti di potere: ogni rapporto sociale è un rapporto di potere.
Fondamentale è il lavoro costante tra la gente per combattere il dominio, cioè quel sistema di potere che è monopolio solo di una parte della società; è necessario un lavoro lungo e profondo di delegittimazione dell’autorità, per riuscire a rompere le asimmetrie nelle relazioni funzionali scatenando dal basso un inizio di mutazione culturale. Perché abbattere lo stato, (ammesso di riuscire a capire come fare) non risolverebbe il problema del dominio, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali e sulla terra; senza un profondo lavoro di mutazione culturale nelle reti di rapporti fra esseri umani si ricreerebbe un nuovo dominio solamente con una veste nuova, come è successo in tutte le rivoluzioni del 900.
Per questo il nuovo anarchismo ha una forte attenzione volta al presente che non deve essere letta come una rottura con il passato e la storia della tradizione anarchica ma come una attualizzazione della stessa.
È importante qui ricordare le parole di Gustav Landauer: L’anarchia non è cosa del futuro, ma del presente; non è fatta di rivendicazioni ma di vita. Una vita che non attende il giorno della rivoluzione, o meglio che vede la rivoluzione come qualcosa in perenne movimento e aperta al cambiamento durante il suo percorso.
Come abbiamo scritto nella piccola introduzione dell’opuscolo del laboratorio sperimentale (asperimenti.noblogs.org) su anarchismo e post-strutturalismo, il nuovo anarchismo ci porta a intraprendere un percorso di riflessione e sperimentazione collettiva che nasce dall’esigenza comune di risolvere una frattura tra quella che è la teoria, la tradizione anarchica che abbiamo ereditato e i tentativi pratici di risolvere e superare le contraddizioni e i conflitti che si presentano nella società di oggi.


Il Sud libertario
e la sfida della modernità

di Angelo Pagliaro

La politica rivendicativa in alcune regioni del Sud è stata sostituita dall’etica del reale.

L a presenza libertaria nel Sud Italia è stata storicamente caratterizzata non tanto da gruppi o comunità organizzate quanto da individualità prestigiose, amate dai buoni ma poco inclini, come si direbbe oggi, a “fare gruppo”.
Al congresso di fondazione della FAI a Carrara (1945), il Sud era presente con una folta delegazione in rappresentanza di vari gruppi organizzati, che, in seguito, dimostrarono tutta la loro fragilità e le individualità ritornarono come alberi monumentali a svettare nelle singole realtà geografiche. Vi è quindi, nel Sud, una propensione all’individualismo, una sorta di naturale, quasi genetica, indisponibilità verso le ipotesi organizzativiste? Non ho una risposta a queste domande, posso solo affermare che, grazie alla rete Internet, in questo ultimo decennio, il rapporto comunicativo e informativo tra le varie situazioni di movimento e le singole persone è migliorato tantissimo. Gli Indymedia costituiscono, a mio avviso, un esempio eccellente di “azione diretta produttiva”. Ma guardando al futuro mi chiedo: quali sfide ci attendono in quell’enorme deserto politico che è la sinistra italiana? Nessuna nube divina guiderà, con la sua ombra proiettata al suolo, il popolo libertario verso la/e meta/e.
Sarà l’approccio quotidiano con le questioni ritenute importanti e le modalità di dialogo con la gente, le tattiche adottate per mettere insieme le persone in modo nuovo, a convincere e convincerci della bontà delle nostre pratiche evitando quel fenomeno negativo definito “orticellismo”. Il post – movimento sta già assumendo caratteristiche nuove perché, rispetto al passato, si occupa di una vasta gamma di antagonismi : inquinamento, razzismo, beni pubblici, psichiatria ecc. e anche l’attenzione dei militanti ( sia marxisti che anarchici) si è spostata verso una politica della vita quotidiana e della trasformazione anche individuale, perseguendo effetti sui singoli assi e non tesi, come un tempo, alla realizzazione del sogno della “conquista” del potere. La politica rivendicativa in alcune regioni del Sud è stata sostituita dall’etica del reale, dalla ”politica dell’atto”.
La critica più forte e frequente che ci viene rivolta qui al Sud, non solo da avversari politici, ma anche da “amici” della sinistra storica, è quello di sconfinare, a volte, nel folklore e di esser quasi incapaci di creare, per dirla con i colti, una “genealogia delle affinità”. Bene! Non bisogna offendersi per queste critiche, anzi bisogna ringraziare, perché dobbiamo ammettere (essendone consapevoli) che, anche da questo, dipende la mancanza di potenza d’urto verso i poteri diffusi.
Lo sforzo maggiore, che dovremo fare nei prossimi anni, va nella direzione esattamente opposta a quanto facevamo trent’anni fa. In quel tempo combattevamo per il riconoscimento delle diversità nel contesto di attributi comuni, mentre oggi, nella polverizzata galassia della sinistra italiana, dovremo lavorare, con maggiore alterità, educazione e rispetto, per il riconoscimento di elementi comuni nel contesto delle diversità.


Da “Il Mondo” ad “A”

di Antonio Cardella

Merito dei Failla, dei Marzocchi, dei Mantovani, degli Aldo Rossi, di Sergio Costa, ma anche dei mille compagni che, col sonno strappato dagli occhi ...

L a sconfitta delle lotte contadine in Sicilia aveva stabilizzato nella mia condizione esistenziale uno stato di sordo e costante rancore che non aveva certo migliorato la mia disponibilità al confronto politico ed alla tolleranza nei riguardi di chi, rispetto a quelle lotte, si fosse mostrato tiepido o addirittura indifferente. Così, quando inopinatamente mi trovai a frequentare l’ambiente dei collaboratori de Il Mondo di Pannunzio, mi chiesi come fossi capitato in un ambiente così lontano dai miei placidi furori di quel tempo.
Mi chiesi cioè come mi fossi trovato a scrutare con un interesse non soltanto estetico quel Cenacolo di crociani a tutto tondo intenti a veicolare, nella sostanza, il messaggio di un liberalismo moderato sia pure sostanziato da una cultura tutt’altro che approssimativa e con l’uso di un linguaggio accurato, quasi si volesse a tutti i costi evitare da un canto l’accusa, assai frequente in quei tempi di clerical-scelbismo, di oltranzismo ideologico e, dall’altro, di un riformismo di basso conio che barattasse l’intransigenza sui principi con una malintesa real politique praticata anche da una certa sinistra cinica e compromissoria.
Passò del tempo perché decifrassi la vera natura della mia curiosità verso quel mondo da me, a prima vista, lontanissimo. Il fatto era che nei colloqui inizialmente occasionali e fuggevoli con alcuni protagonisti della Rivista constatai una disponibilità al confronto sconosciuta in quel periodo di furori ideologici, la consapevolezza del pericolo di regime che incombeva sul nostro Paese, e l’urgenza di un patto d’emergenza che unificasse tutte le forze che al regime avrebbero potuto opporsi. Questo – dicevano i Carandini, i Manlio Rossi Doria e lo stesso Pannunzio – per cominciare un percorso consapevole verso una società libera e solidale.
Così mi sovvenne quello che Camillo Berneri aveva scritto in Sovietismo Anarchismo e Anarchia nei lontani anni Trenta del secolo scorso:
La storia è opposizione e sintesi. L’anarchismo, se vuole agire nella storia e diventare un grande fattore di storia, deve aver fede nell’anarchia come una possibilità sociale che si realizza nelle sue approssimazioni progressive. L’anarchismo… è più vivo (di una verità di fede, n.d.r), più vasto. Più dinamico. Egli è un compromesso tra l’idea e il fatto, tra il domani e l’oggi. L’anarchismo procede in modo polimorfo, perché è nella vita”.
In una certa misura quella lezione di Berneri, ma anche de Il Mondo, fu pratica anarchica alla fine degli anni Sessanta e servì quando il terrorismo di Stato si scatenò sugli anarchici a partire dalla strage di Piazza Fontana. Allora i redattori dell’Espresso (Camilla Cederna tra tutti) che in una certa misura avevano raccolto il testimone de Il Mondo, fecero fronte con gli anarchici contro le false ricostruzioni dello Stato. Ma non soltanto negli ambienti dell’informazione, anche in quelli forensi e in quelli dell’editoria la rete di relazioni che gli anarchici avevano costruito contribuì a respingere gli attacchi delle istituzioni statali.
Da quei giorni terribili, la nostra stampa fu più aggressiva e puntuale. In stretta connessione con il lavoro svolto dal Comitato politico-giuridico di difesa e con alcuni legali che ci erano stati sempre molto vicini (ricordo per tutti Giuliano Spazzali e Rocco Ventre) ricostruì fatti e personaggi della stagione delle stragi, contribuendo in misura determinante alla mobilitazione in tutto il territorio nazionale di una opposizione che, per quanto variegata, tenne sempre in grande considerazione le ragioni degli anarchici. Merito dei Failla, dei Marzocchi, dei Mantovani, degli Aldo Rossi, di Sergio Costa, ma anche dei mille compagni che, col sonno strappato dagli occhi, incontravi la notte nelle sedi di Umanità Nova, de L’Internazionale e di A Rivista Anarchica da poco venuta ad arricchire l’editoria anarchica.
Io credo che da questa temperie straordinaria dell’Anarchismo la lezione da perseguire siano il rifiuto deciso dell’autoreferenzialità e la disponibilità a comprendere le ragioni di quanti, pur ancora lontani dall’anarchia, possano condividere con noi tratti di quel percorso che ci approssimi sempre di più ad una società autenticamente libertaria.


Arte e Anarchia

di Arturo schwarz

L’artista è la dimensione estetica dell’anarchico.

U n’opera d’arte dovrebbe possedere tre qualità essenziali. La prima è l’originalità, requisito indispensabile perché l’opera d’arte possa ampliare i nostri orizzonti visivi e mentali. Ma l’originalità non basta. Nella nostra era tecnologica è facile escogitare novità provocanti che, però, vengono ben presto rese obsolete dalle successive. Al contrario, ciò che è davvero originale porta con sé la promessa di una valenza senza tempo. L’artista crea quando è motivato da una esigente pulsione interna il che implica che non può creare “su commissione” obbedendo a una richiesta di carattere politico o commerciale. Fatto, questo, che porta alla seconda qualità dell’opera d’arte.
Infatti, un’opera d’arte, per essere tale, deve essere l’esito di una irresistibile necessità interiore. L’artista deve obbedire a un impellente bisogno cognitivo ed emotivo avendo sempre presente il consiglio dato da Polonio a suo figlio Laerte: «Questo sopra tutto: a te stesso sii fedele» (Amleto I:3). Ma nuovamente, la sincerità emotiva non basta. La pulsione creativa non è prerogativa dei soli artisti. Uno squilibrato mentale può obbedire alla stessa esigenza, ma non sempre le sue opere hanno una potenza espressiva e un valore estetico.
La terza qualità è la più sfuggente, sia da descrivere sia da acquisire. L’opera d’arte non solo deve farci conoscere una nuova realtà ed essere il frutto di una necessità esistenziale; deve anche emanare un’aura poetica. «L’oggetto della scena letteraria non è la letteratura, ma la letterarietà, vale a dire, ciò che dà ad ogni opera una qualità letteraria», come ricorda Jakobson. Analogamente, un’opera d’arte, è interessante non tanto per la sua qualità estetica, ma per il suo potere poetico che è proprio quello che le conferisce la qualità più pregnante.
Ricordiamo inoltre che, nell’elaborare un’opera, l’artista percorre – del tutto inconsciamente – le tappe della longissima via che dovrebbe portarlo all’illuminazione, al livello, cioè, dove l’arte non è più utopia ma diventa elemento iniziatico e di auto-conoscenza. L’artista raggiunge allora lo stato di veggenza, secondo l’imperativo di Rimbaud. E lo consegue in quanto è ispirato, in preda, cioè, di una sollecitazione creativa di carattere transpersonale e transrazionale. Infatti, come insegna Platone, “nessuno che sia nel possesso della ragione raggiunge una divinazione ispirata e verace”.
In altra sede ho definito l’artista come l’archetipo dell’anarchico, infatti, l’anarchia non è, lo sappiamo bene, sinonimo di disordine, confusione, arbitrarietà o irresponsabilità (che sono invece connaturali ai sistemi autoritari, ugualmente ostili all’individuo e alla collettività), ma implica un ordine superiore basato sull’armonia e l’amore. L’anarchia è uno stato d’animo. Ogni persona può scoprirlo da sé e per sé nel solo modo possibile, facendo proprio il rifiuto del principio di autorità.
Per questa ragione penso che l’artista sia un modo d’essere dell’anarchico perché creare significa dare origine a qualcosa che non è esistito prima. Ogni creatore, parte dalla tabula rasa, rifiuta il principio di autorità così come ogni modello anteriore. Ne consegue dunque che, coscientemente o meno, chiunque è impegnato in una attività creativa è un anarchico. Infatti, “artista” e “anarchico” sono termini intercambiabili, sinonimi perfetti. L’anarchia è la forma di esistenza dell’artista, proprio come il movimento lo è della materia. Allo stesso modo in cui la materia è la dimensione del movimento, l’artista è la dimensione estetica dell’anarchico.


La libertà nell’era delle reti

di Carlo Milani

Si può fare con il digitale così come con le biciclette: metterci sopra le mani, smontare per capire, imparare a usare e insegnare agli altri.

A l termine del XX secolo gli strumenti digitali erano di uso comune solo per pochi. Nel giro di un decennio la situazione si è capovolta: ovunque, e non solo nell’Occidente ipersviluppato, computer, telefoni cellulari, lettori musicali, videocamere e ogni sorta di incroci immaginabili fra questi dispositivi sono imprescindibili per la vita quotidiana. Consentono a miliardi di persone di connettersi alle reti telefoniche e quindi soprattutto a Internet, quasi realizzando il sogno dell’ubiquità nella telepresenza. Le distanze non sono mai state così ridotte.
L’inflazione di gadget tecnologici è deprecabile per diversi motivi. Sono espressione di un consumismo esasperato, in quanto beni cosiddetti «di sostituzione», destinati a essere rapidamente sostituiti da modelli più avanzati. Sono anti-ecologi, costruiti per durare poco (obsolescenza programmata). La loro produzione esige lo sfruttamento di minerali rari, e la lotta per accaparrarseli provoca conflitti continui in varie zone particolarmente povere (Africa centrale, ecc.). Implica anche il parallelo sfruttamento delle masse operaie asiatiche che li fabbricano. Infine, ed è quello che qui più ci interessa, la costante connessione «in rete» pone problemi enormi all’esercizio della libertà.
Le reti hanno una doppia faccia: servono per connettere persone e cose, ma anche per imprigionarle. I dibattiti sul controllo e sulla privacy sono sintomi di un malessere diffuso. Non dimentichiamo che Internet è l’evoluzione civile di un progetto militare che, durante la guerra fredda, mirava alla costruzione di una rete decentrata di nodi autonomi, virtualmente indistruttibile a un attacco. Autonomia di guerra, non per ampliare la libertà. Non a caso, oggi i meccanismi di delega tecnocratica sono sempre più diffusi. Le nostre mail, foto, conversazioni, dati si trovano su macchine remote, completamente al di fuori del nostro controllo. Ogni azione e discussione è accuratamente auscultata e archiviata, non solo per accumulare informazioni utili al controllo globale, ma soprattutto per propinarci pubblicità personalizzate. Così si finanzia la gratuità delle reti: oggetti personalizzati per tutti i consumatori evoluti.
Come uscirne? Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di adottare uno stile critico e sobrio. Evitando il luddismo, l’unico modo di liberarsi dalla dipendenza è imparare a gestire la tecnologia in maniera autonoma. La libertà nell’era delle reti richiede curiosità e immaginazione radicale. Si può fare con il digitale così come con le biciclette: metterci sopra le mani, smontare per capire, imparare a usare e insegnare agli altri. Per creare strumenti conviviali, pensati per soddisfare i nostri desideri e per estendere le sfere di autonomia personale e collettiva.


La parola come
strumento di asservimento o di liberazione

di Carlo Oliva

Anche se ho cambiato mestiere da vent’anni, continuano tutti a chiamarmi “professore”.

E ntro sempre un po’ in crisi quando mi capita di dover spiegare a qualcuno quali siano esattamente i miei interessi. Laureato in filologia classica, ex insegnante di lettere antiche e moderne nei licei, esperto di problemi dell’istituzione scuola e della cultura giovanile (e fin qui fila tutto abbastanza liscio...), autore di saggi di linguistica, traduttore da varie lingue, cultore e storico di libri gialli, notista politici... sono irrimediabilmente un eclettico. A quasi settant’anni di età, non ho ancora deciso che cosa farò da grande. Ne fa fede la varietà e l’eterogeneità degli argomenti che, non ricordo più neanche per quanti anni , ho trattato su “A” (e a “Radio Popolare” di Milano, nonché su una quantità di periodici di maggiore o minore levatura che vanno dal “Corriere della sera” al “Manifesto” e al bollettino del club dei fan dell’agente 007). E il dubbio, in casi come questi, è che la molteplicità stessa dei campi di applicazione precluda la capacità di approfondirne uno che sia uno. Il rischio di chi coltiva qualsiasi eclettismo è quello di sconfinare senza neanche rendersene conto, nella superficialità.
D’altra parte, sappiamo tutti che il primo amore non si scorda mai. Ed è grazie alla frequentazione del mondo classico (il mio primo amore, appunto) che ho scoperto il principio per cui la parola è un dio potente, che avendo un esile corpo può compiere grandissime cose, rendendo grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande (come scrive, se non mi sbaglio, Gorgia di Lentini nell’Encomio di Elena, più o meno nel V secolo a. C.). Rendendomi conto, al tempo stesso, che chi della potenza di quel dio sa servirsi non lo fa, come dire, per sport, ma con il fine preciso di controllare gli altri e imporgli il proprio dominio. E viceversa, naturalmente, perché la conoscenza dei meccanismi verbali attraverso i quali è possibile asservire i propri confratelli in umanità rappresenta a sua volta un indispensabile strumento per chi da ogni giogo desideri liberarsi.
Ecco. Potrei dire, con un po’ di presunzione, che di questo mi occupo: dell’uso della parola come strumento di asservimento e di liberazione. Ogni tanto sintetizzo il concetto scrivendo (nei risvolti, nelle quarte di copertina, nelle schede biografiche che qualcuno si ostina a chiedermi) che mi occupo di “ideologia del linguaggio”. Suona bene, anche se non significa nulla di preciso, e ha un rassicurante tono accademico. Perché si può essere rivoluzionari finché si vuole, estremisti, eversori e persino anarchici – tutti ambienti che ho frequentato, pur senza appartenervi del tutto – ma su tutta questa brava gente l’Accademia continua a esercitare un gran fascino. E allora, perché no? Una laurea e un’abilitazione non nuocciono mai e infatti, anche se ho cambiato mestiere da vent’anni, continuano tutti a chiamarmi “professore”.
Naturalmente il concetto non è originale. Ha qualcosa in comune con la teoria marxista dell’ideologia come “falsa coscienza”, ma il marxismo, pur restando un formidabile strumento di analisi, ha subito, erigendosi in sistema (e per di più, spesso, in sistema di stato), troppe ossificazioni ontologiche perché sia possibile richiamarcisi con la necessaria serenità. Un fondamento teorico più tranquillizzante l’ho trovato, or è mezzo secolo, nelle analisi di Silvio Ceccato sulla “svista conoscitiva” (analisi che con il marxismo, checché ne pensasse lui, non sono poi troppo confliggenti), e, soprattutto nello sviluppo che ne ha dato Felice Accame, con il quale, da allora, non ho mai cessato di collaborare. Certo, non sono bravo come lui: non pretendo, con la mia sola presenza, di poter mandare in rovina qualsiasi testata, o di scrivere delle cose tanto pericolose da esserne immediatamente estromesso. Ma faccio anch’io del mio meglio per mettere in luce e comunicare quanto altri hanno interesse a tenere nascosto. Nella consapevolezza che la più ampia messa in comune delle opinioni e dei punti di vista è il fondamento di quella prassi della decisione in comune che chiamiamo democrazia. O, se preferiamo, dell’anarchia.


Un diritto sempre
più negato: l’aborto

di Chiara Lalli

Di fatto sta diventando sempre più difficile abortire in condizioni di sicurezza.

L’ interruzione volontaria di gravidanza è un argomento moralmente molto controverso. Fino al 1978 in Italia era illegale interrompere una gravidanza e ancora oggi in molti Paesi ci sono norme molto restrittive.
La ragione principale dei divieti è l’attribuzione dello status di persona all’embrione: come soggetto detentore di diritti la sua esistenza non deve essere interrotta. L’attribuzione di diritti, però, non può essere una premessa apodittica, ma andrebbe sostenuta da argomentazioni forti e l’impresa non è affatto semplice. Si potrebbe discutere a lungo sulle altre ragioni che spingono alla coercizione: la concezione della donna come madre, il controllo sulle vite e sulle decisioni delle persone, una idea paternalistica e moralistica che nega ai singoli la possibilità di scelta.
Decidere di interrompere una gravidanza, seppure si rifiuti la visione personale dell’embrione, mette comunque in conflitto due visioni: quella della donna e quella dell’embrione. La sentenza 27/1975 della Corte Costituzionale esprime bene l’inevitabilità del conflitto e indica la soluzione più ragionevole: “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.
La decisione di abortire può essere motivata da ragioni di salute della donna, da una diagnosi prenatale infausta o da altri motivi. La legge 194 stabilisce i criteri nel seguente modo: per i primi 90 giorni una donna può abortire nel caso di “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Dopo i 90 giorni “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; [e] quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
Sebbene di diritto le donne abbiano la possibilità di ricorrere alla IVG, di fatto sta diventando sempre più difficile abortire in condizioni di sicurezza, soprattutto a causa della altissime percentuali di personale sanitario obiettore di coscienza (le ultime stime parlano dell’80%). Inoltre il clima di condanna è molto forte e non sono infrequenti i casi di donne maltrattate da zelanti difensori della vita o abbandonate senza assistenza in attesa dell’unico ginecologo non obiettore. Non è certo questo il modo per combattere le IVG!
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che promuovere il divieto di abortire delinea inevitabilmente il ricorso alla clandestinità – mai sparita del tutto e ultimamente in aumento proprio a causa della difficoltà di ricorrere alla IVG legale – o alle gravidanze forzate, entrambi scenari non percorribili perché fortemente lesivi dei diritti “di chi è già persona”.
Purtroppo le discussioni al riguardo sono caratterizzate spesso da malintesi e da argomenti molto deboli. Uno dei più resistenti è di pensare che essere a favore della legalità della IVG significa essere a favore della morte, di contro ai difensori della vita. Invece significa concordare con quanto affermato dalla sentenza del 1975 e rendersi conto che non ci sono soluzioni migliori.


Il Messico per sempre

di Claudio Albertani

Mi affascinarono subito
i colori violenti, la potente
energia vulcanica …

“Sono venuto in Messico a cercare una nuova idea dell’uomo”, scrisse Antonin Artaud. Mi ci portò la mia compagna, Patricia; venivamo da Berkeley, California, e c’eravamo conosciuti in un ristorante, dove lei faceva la cameriera ed io il lavapiatti. Patricia, messicana, sognava di andare in Italia ed io, italiano, preferivo il Messico, paese che vagheggiavo da sempre, ma del quale non sapevo quasi nulla. Alla fine io ebbi la meglio, perché in Italia quelli erano anni difficili, forse peggiori degli attuali.
Molti dei miei compagni erano in galera e quelli che, come me, avevano scelto di vivere all’estero perché contrari alla lotta armata e non disposti a rovinarsi la vita con l’eroina, se ne mantenevano prudentemente alla larga. Passammo la frontiera di Tijuana il 2 ottobre 1979, a bordo di un vecchio camioncino Volkswagen che fungeva da stanza da letto, cucina e biblioteca. Era l’anniversario del massacro degli studenti in piazza Tlatelolco, una tragedia che nel 68 aveva impressionato molto anche noi studenti italiani. Passammo un mese in Bassa California, a quell’epoca in gran parte intonsa, dove ebbi un primo assaggio dei paesaggi messicani, così strani e insoliti: il mare di Cortes con la sua acqua (allora) cristallina, deserti, montagne e cieli sterminati. Nella Sierra San Pedro Martir, dove accampammo vari giorni, contemplammo una Via Lattea talmente bianca da sembrare una nuvola. Non vi erano giornali, ma seguivamo le peripezie della rivoluzione sandinista in Nicaragua, della guerra nel Salvador e dell’incipiente genocidio in Guatemala con una vecchia radiolina di onda corta che sintonizzavamo di notte. Nei mesi successivi, visitammo gran parte del paese, dal Sonora fino al Chiapas. Doveva essere un viaggio di qualche mese e sono passati più di trent’anni; rimanemmo senza neppure deciderlo, come conseguenza naturale dell’avventura della vita.
Del Messico, mi affascinarono subito i colori violenti, la potente energia vulcanica, la vita intensa ed esaltata, i popoli indigeni. Ma vi è di più. Il Messico non è solo un paese di “bellezza convulsiva” (Benjamin Peret), è anche un punto di incontro di vagabondi, poeti e dissidenti, l’ultimo rifugio di rivoluzionari che, come Victor Serge e tanti altri, arrivarono qui fuggendo dalla peste nera ed anche da quella rossa. Ma è, soprattutto, un grande laboratorio politico e sociale dove si scontrano da millenni le potenze della vita e quelle della morte.
La partita non è chiusa.


Spagna 1936
tra mito e progetto

di Claudio Venza

Resta un vivace dibattito sulla rivoluzione e sull’autogestione in terra iberica.

L’esperienza spagnola ha un rilievo centrale nella storia e nel pensiero dell’anarchismo a livello mondiale. Per dimostrare agli increduli e agli avversari che i principi anarchici non sono solo delle utopie (comunque positive e incoraggianti) si rievoca spesso la rivoluzione del 1936-1939.
La propaganda anarchica ha, logicamente e giustamente, esaltato le conquiste e le realizzazioni di questo periodo che ha rappresentato l’esempio migliore per dimostrare che la società di liberi ed eguali era possibile e gratificante. Dove l’anarchismo è stato attivo – dal Giappone al Canada, dall’Argentina alla Svezia –, la Spagna del 1936 è stata ricordata ad ogni anniversario del 19 luglio 1936, la data della risposta libertaria vincente ai golpisti a Barcellona.
Resta comunque un vivace dibattito, a livello internazionale, sui significati dei vari aspetti della rivoluzione e dell’autogestione in terra iberica. Per chi si è riconosciuto fino in fondo nel “momento magico” della lotta contro la reazione a tutti i livelli, si è trattato di una serie di realizzazioni valide e incontestabili. Così le milizie sono state un esempio di come condurre una guerra su basi non gerarchiche e non militarizzate; le collettività agricole e industriali hanno offerto un esempio tangibile di organizzazione paritaria, federalista e autonoma della produzione e della vita sociale; la rottura con le tradizioni patriarcali e i passi avanti nella liberazione delle donne hanno testimoniato la volontà effettiva di fondare una nuova società. Accanto a questi cambiamenti va considerato anche il riuscito ridimensionamento dell’influenza deleteria della chiesa cattolica, da secoli alleata degli oppressori, paladina di una morale ipocrita che spingeva il popolo alla subordinazione e alla superstizione. Ad ogni modo, nel corso dei decenni si è diffuso uno spirito critico verso le contraddizioni dell’anarchismo e ancor più dell’anarcosindacalismo. Da un punto di vista antiautoritario intransigente è stato rilevato che la condotta della dirigenza della CNT-FAI era progressivamente scivolata verso un tipo di politica in cui l’antifascismo e la guerra erano gli elementi determinati e prevalenti. Di conseguenza le istanze rivoluzionarie venivano in pratica ridimensionate ed emarginate. La collaborazione, in nome dell’urgenza bellica, con i partiti repubblicani e con il governo sarebbero state la logica conseguenza di un’involuzione organizzativa che faceva somigliare l’anarchismo ad un organismo sostanzialmente gerarchico e militarizzato. Anche il maggio 1937, con l’insurrezione proletaria contro le manovre comuniste per eliminare la CNT-FAI, sarebbe terminato con una sconfitta in seguito all’ordine dei leader libertari di abbandonare le barricate e di sospendere le ostilità. Insomma la forza del popolo libertario sarebbe stata soggiogata dalla logica della ricostruzione dello Stato repubblicano che puntava, peraltro invano, sugli aiuti delle democrazie occidentali.
Come si vede, aspetti positivi e negativi vengono evidenziati da un’analisi spassionata degli eventi del 1936-1939. Il dibattito non è certamente finito. Anzi si è riproposto con forza attorno alla ripresa del movimento dopo la morte di Franco del novembre 1975. Per alcuni anni, l’intero mondo libertario ha sperato che si realizzasse una ripresa robusta della CNT e dell’anarchismo iberico in generale. Giornali e manifestazioni, cortei e azioni dirette sembravano annunciare la rinascita in pieno del protagonismo anarchico spagnolo. Nel 1976, il quarantennale assomigliava a tratti all’infuocato 1936 e i grandi mitines del 1977 incoraggiavano un dilagante ottimismo.
Nel frattempo però il franchismo aveva cambiato la società spagnola: prima del 1939 molti proletari, nelle campagne e nelle città, erano disposti ai rischi della rottura rivoluzionaria anche in nome di una cultura e di un immaginario sovversivi centrati su un futuro prossimo di liberazione e giustizia. Quaranta anni dopo, le rivendicazioni si iscrivevano nei limiti di un riformismo (e consumismo) più o meno arrabbiati. Il contesto sociale era perciò mutato profondamente e le istanze di sacrificio e di solidarietà, caratteristiche della CNT e della FAI degli anni Trenta, si rivolgevano a un ambiente collettivo dalle prospettive limitate ad un realistico miglioramento del livello di vita. Secondo molti militanti disincantati, tutto ciò era la dimostrazione della fine di un ciclo storico di rivolte e di scontri frontali.
Alcuni tratti della Spagna del 1936, malgrado tutto, si possono rintracciare ancora. La società spagnola, e quella catalana in particolare, stanno esprimendo un notevole livello di laicità e di apertura culturale. La sensibilità verso l’educazione antiautoritaria è diffusa, mentre l’antimilitarismo è un dato pressoché scontato in molti settori giovanili. Inoltre i movimenti antiglobalizzazione sono radicati in ambienti intellettuali, e non solo, e assumono modelli organizzativi non verticistici simili a quelli tradizionali dell’anarchismo. Ancora: fermenti antiautoritari sono una costante di molti luoghi di vita alternativa come le case occupate e i centri sociali. Quindi lo spirito libertario è vivo.
La riscoperta negli ultimi anni della “memoria dannata”, quella degli sconfitti, massacrati e calunniati dai generali golpisti (e non solo), ha portato ampi segmenti dell’opinione pubblica e di movimenti di base a recuperare quanto si era realizzato durante la rivoluzione e la guerra. E a valorizzare la resistenza generosa e disperata dei guerriglieri antifranchisti dopo il 1939.
In tale contesto sono stati pubblicati, nell’ultimo quinquennio, centinaia di libri e saggi sulla storia degli anarchici prima, durante e dopo il fatidico 1936-1939. È questo un ulteriore sintomo dell’attenzione verso le ipotesi libertarie e autogestionarie. Però non sempre si rileva piena consapevolezza del ruolo di un movimento che, dalla Prima internazionale, si è sforzato di dare concretezza alle aspirazioni utopiche.
Certamente le organizzazioni esplicitamente anarchiche non hanno oggi adesioni paragonabili a quelle del passato. Ad ogni modo le idee e i progetti libertari risultano sensibilmente presenti nei movimenti di opposizione al presente sistema autoritario e di creazione di alternative umanamente sostenibili.


dida p39: Barcellona maggio 1937. Barricata nel centro storico contro l’aggressione comunista alla Centrale Telefonica.

dida p40: Barcellona 1936. I trasporti, nella più grande e moderna
città spagnola, sono autogestiti dai lavoratori della CNT.

Catalogna estate 1936. Un gruppo della Colonna Durruti
in viaggio verso il fronte aragonese.


Gioia, tubi Innocenti
e anarchia

di Colby

Dovremmo riprendere in mano il mutualismo e la cooperazione, pensare ad una pratica includente e gioiosa.

“Le macerie non le temiamo” scriveva Buenaventura Durruti.
Non le temiamo, no, abbiamo sempre pronta la chiave a cricco del 20/21/22 per stringere i morsetti dei tubi innocenti ed autocostruire un tetto sotto il quale poter fare socialità ed autogestione.
Siamo pronti a collegare fili, a filettare tubi, ad autocostruire, in un laboratorio collettivo, pannelli solari che ci daranno acqua calda a costo zero. In centocinquanta nel giro di un mese abbiamo tirato su le maniche e reso fruibile uno spazio sociale che abbiamo chiamato Libera. Era il luglio 2000 e dopo 3 anni meravigliosi e 5 anni di resistenza, altrettanto meravigliosi, contro la costruzione di un autodromo è stato sgomberato e immediatamente demolito, era l’8 agosto 2008.
Libera era includente, uno spazio anarchico che si lasciava attraversare da migliaia di persone. Libera era testimonianza che l’autogestione era possibile e voleva che chiunque venisse ad assaporarla e a toccarla con mano. Lungo un nostro corteo contro lo sgombero, con 3000 partecipanti, 3 donne ad una finestra esponevano un cartello fatto a mano sul quale c’era scritto “siamo con voi” ed è da sottolineare anche che il Comitato Cittadini di Marzaglia è voluto apparire sul manifesto in nostra solidarietà.
Gioia e inclusione.
Nel settembre 2010 a Rio Torto (Piombino) si è svolta la festa dell’USI e a Massa “Anarchia in festa”, due iniziative molto riuscite e partecipate dove ho ribadito alcuni concetti a me cari e sperimentati concretamente nell’azione “politica” della storia di Libera. Basta col piangersi addosso perché siamo continuamente repressi dallo Stato: è chiaro che bisogna sostenere chi è colpito dalla repressione ma dovremmo vivere con gioia e solidarietà i rapporti tra compagni e compagne e riempire di mutualismo, solidarietà, cooperazione e allegria la nostra progettualità.
Non siamo missionari, non siamo per la sofferenza, ma per costruire un mondo libero che dobbiamo assaporare e vivere fin da ora. Alla festa dell’USI sono stati presentati due ottimi progetti come l’Ambulatorio popolare di Genova e la Torrefazione del caffè zapatista a Lecco. Di solito si motivano i progetti spiegando che si parte dai bisogni ed invece io avrei più coraggio e parlerei anche della gioia di costruire progetti e di costruirli assieme a dei compa ed alla gente comune.
A Massa durante il dibatto sui crimini di stato ho ribadito il concetto che se vogliamo che vicende come quella di Stefano Cucchi o quella dell’anarchico Francesco Mastrogiovanni non si ripetano, visto che le leggi tuteleranno sempre lo Stato e i suoi servitori, dovremmo creare una rete di relazioni solidali con la gente, dovremmo riprendere in mano il mutualismo e la cooperazione, pensare ad una pratica includente e gioiosa, esattamente come la “Libera Officina” sta continuando a fare.


Non ho mai dimenticato

di Corrado Stajano

Io e altri giornalisti “borghesi” ci ribellammo davanti alle verità ufficiali

Caro Paolo,
avevi 18 anni quando ci siamo conosciuti e io quasi 40. Adesso sei, quel che si dice, un uomo maturo e io un vegliardo. Quante cose sono accadute da quel 12 dicembre 1969.
Non ero e non sono un anarchico, come sai. Dell’anarchia, però, ho sempre avuto curiosità. Ne conoscevo origini e vicende, sapevo soprattutto di Bakunin, di Malatesta, di Kropotkin, sapevo della guerra civile spagnola, una grande passione: gli anarchici, per la prima volta nella storia, entrati in un governo, in Catalogna, i conflitti sanguinosi con il Partito comunista, il Poum, gli eccidi di Barcellona, le centinaia di vittime.
Le bandiere nere anarchiche, dopo il maggio francese, avevano cominciato a sventolare nei cortei degli studenti e degli operai d’Europa. In coda, a una ventina di passi dagli altri, a significare solidarietà, ma distacco, partecipazione, ma consapevolezza della diversità. Un orgoglioso ghetto volontario.
Piazza Fontana, la strage, fece da cesura nel cuore di molti. Quel pomeriggio entrai tra i primi nella banca, sangue, polvere, corpi dilaniati, vite spezzate. Immagini difficili da dimenticare. Valpreda fu da subito il capro espiatorio, scelto con oculatezza, il “mostro” cui attribuire ogni responsabilità. (Lo stanzone dei fermati in Questura era gremito. Tra gli altri Virgilio Galassi, ineccepibile e stimato funzionario dell’Ufficio studi della Banca commerciale in piazza della Scala dove, davanti a un ascensore, era stata trovata in tempo una borsa con dentro un’altra bomba. Intervenne con durezza Raffaele Mattioli, il presidente, per liberare Galassi).
Io e altri giornalisti “borghesi” ci ribellammo davanti alle verità ufficiali che facevano acqua da tutte le parti. Prefetti e questurini erano stupefatti di trovarsi di fronte non dei complici, come era sempre avvenuto nel passato prossimo e remoto, ma delle persone che facevano il loro mestiere, chiedevano senza timidezza, cercavano, volevano sapere la verità.
Poi Pinelli, una figura immacolata della memoria. Quella notte del 15 dicembre arrivai in Questura subito dopo mezzanotte, poi al Fatebenefratelli, poi sul pianerottolo della porta della casa di Licia, l’anello forte, donna di grande coraggio. E di nuovo in Questura a prender parte alla miserabile conferenza stampa del questore Guida.
Non ho mai dimenticato. Ci siamo visti e rivisti, caro Paolo, in quegli anni. Nel 1973 siamo andati insieme a Carrara – scrivevo per “Il Giorno”, allora un grande quotidiano: l’occasione erano le tradizioni politico-culturali di alcune città italiane. Andammo nella sede della Federazione anarchica, un impolverato salone tutto specchi che sapeva di antichi splendori. Un pianoforte su una pedana evocava balli ottocenteschi. Una stanza vicina era tappezzata di manifesti, i padri dell’anarchia, ma anche Pinelli e Franco Serantini che era stato ucciso dalla polizia l’anno prima sul Lungarno Gambacorti di Pisa.
Quando fu assassinato pensai subito che ne avrei scritto. Ma detesto gli instant-book. “Il sovversivo” uscì nella primavera del 1975 pubblicato da Giulio Einaudi. Di quella dolorosa storia mi avevano colpito le due morti del ragazzo sardo: quella feroce decretata dalla polizia e quella, altrettanto feroce, delle istituzioni che non avevano fatto giustizia, incapaci di processare se stesse come in uno Stato democratico dovrebbe accadere.
Per scrivere quel libro ero stato a lungo a Pisa. La FAI aveva la sua sede sopra il garage della Confraternita della Misericordia, in via San Martino, vicino alla casa dove abitava Luciano Della Mea. Ricordo i vecchi anarchici che passavano le giornate in quella stanza. Muti, seduti sulle seggiole contro il muro. Il più anziano, 88 anni, si chiamava Nilo. Serantini aveva portato là dentro la sua giovinezza, la sua voglia di fare, criticato per la sua esuberanza. Era un antifascista naturale.
Dalla vita ha avuto soltanto il funerale, grandioso, commovente, pianto da un’intera città. Chissà cosa sanno, che cosa pensano i giovani di oggi di quel crudele Novecento?
Caro Paolo, ho conosciuto anche Alfonso Failla, con grande ammirazione per la sua vita di lotte generose.

dida p43: Franco Serantini


Pratiche sindacali
di vario tipo

di Cosimo Scarinzi

In questo ciclo di lotte si è formata una generazione di militanti, organizzatori, agitatori di orientamento libertario.

G li ultimi decenni hanno visto nella nostra area lo svilupparsi di discussioni e, cosa che ritengo più rilevante, di pratiche sindacali di vario tipo.
Per un verso i compagni e le compagne impegnati su questo terreno hanno sentito l’esigenza dii riprendere la riflessione su esperienze passate importanti che vanno dall’USI dei primi decenni del secolo agli IWW, dalla CNT ai diversi movimenti consiliari che si sono sviluppati in Europa dopo la grande guerra,riprendendo le discussioni che videro nel passato i nostri compagni le nostre compagne discutere su natura, effettiva attività limiti e prospettive del sindacalismo. Penso, per fare un solo esempio, all’importante confronto fra Malatesta e Monatte al congresso anarchico di Amsterdam ma anche all’esperienza tragica della rivoluzione spagnola.
Per l’altro, e non sottovaluterei gli elementi di novità e di discontinuità rispetto al pur prezioso patrimonio storico del sindacalismo libertario dei secoli scorsi, abbiamo vissuto, a partire dagli anni ‘70, una serie impressionante di lotte, di movimenti, di esperienze organizzative che ci hanno portato, ognuno secondo la propria formazione e la propria sensibilità, a fare i conti con le lotte autonome di fabbrica, i movimenti che si sviluppano sul territorio come, ancora una volta faccio un solo esempio quello NO TAV, i linguaggi e le pratiche della nuova working class formatasi nella fabbrica fordista e toyotista, nei nuovi settori di lavoro sviluppatasi nelle società occidentali intorno alla riproduzione sociale quali la scuola e la sanità di massa ecc.
In questo ciclo di lotte si è formata una generazione di militanti, organizzatori, agitatori di orientamento libertario che intrecciano, nel definire la propria identità, un riferimento forte all’Internazionale ed al motto “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o non sarà“ vera e salda definizione della categoria “autonomia” con le specifiche modalità del moderno conflitto di classe.
Questa complessa vicenda ha visto, a partire dall’inizio degli anni ‘90, un’interessante evoluzione. La tradizionale bipartizione fra sindacati istituzionali e movimenti di base che vedeva i movimenti stessi svilupparsi su obiettivi puntuali senza porsi il problema di un’organizzazione stabile nel tempo, ha subito una significativa mutazione con la nascita, e in alcuni casi lo sviluppo di esperienze precedenti, del sindacalismo alternativo o di base.
Ovviamente le scelte sono state diverse e, almeno a parere di chi scrive, tutte meritevoli di rispetto. Vi è chi ha puntato su di un’opzione anarcosindacalista, chi ha fatto una scelta sindacalista intesa come adesione a sindacati radicali ma non identitari in senso forte, chi continua a ritenere opportuna la militanza di minoranza nelle organizzazioni tradizionali.
La mia esperienza, per quello che vale, mi induce a ritenere che le singole scelte sono certo legate a convincimenti generali ma che non va sottovalutato dove i compagni e le compagne sono collocati dal punto di vista del territorio e dell’attività lavorativa.
Si tratta, in ogni caso di una situazione interessante e che vede la necessità di porre in rete le esperienze, le riflessioni, le proposte.


“A” e il teatro.
Un doppio compleanno?

di Cristina Valenti

Il racconto di un teatro che ha accompagnato fermenti, sogni, contraddizioni di generazioni.

Q uarant’anni di teatro ripensando ai quarant’anni di “A”. Possiamo considerarlo un doppio compleanno? “A” compie quarant’anni di una vita che ha avuto la sua incubazione nel movimento politico, un’infanzia militante, per arrivare alla maturità attuale, che può essere letta all’insegna delle aperture.
Il teatro al quale penso, quello che ha trovato spazio su “A”, nel 1971 (ma in realtà nel torno di quegli anni) raccoglieva i contenuti di una rivolta non solo teatrale che era scoppiata negli anni ’60, e inaugurava una nuova infanzia del teatro, inserendosi con forza in quella ”tradizione della rinascita” che, scorrendo a volo d’uccello la storia del teatro, è leggibile fra salti e cesure come una vicenda di ricorrenti reinvenzioni a partire da nuovi fondamenti di senso e di necessità. Agli albori degli anni Settanta la morte del teatro dell’inautenticità e della rappresentazione era già stata decretata, e il nesso arte-vita imponeva che la dimensione esistenziale (e quindi politica, etica, relazionale) interagisse in modo sostanziale con la dimensione estetica.
Il Living Theatre aveva già indicato la strada della fuoriuscita dal sistema teatrale e dalle sue convenzioni. Facendosi comunità anarchica, traeva dalla politica i principi cui ispirare processi creativi, modalità di lavoro e strategie organizzative che permisero a un gruppo nomade di una ventina di persone di vivere senza sovvenzioni. Dopo Paradise Now, punto di non ritorno di un teatro che aveva infranto la forma spettacolo per farsi happening, ai confini fra assemblea politica e rituale di liberazione collettiva, il Living Theatre abbandonava gli edifici teatrali e, dal 1970, dava vita a un ciclo di creazioni collettive per spettacoli di strada che partiva dalle favelas brasiliane per entrare nelle fabbriche in sciopero, nei manicomi, nelle università occupate, negli spazi urbani.
E intanto un movimento teatrale sempre più ampio esprimeva la necessità di essere altrove: fuori dai circuiti ufficiali e dalle loro regole, superando i confini della rappresentazione per mescolarsi alla vita, invadere spazi non teatrali, valorizzare linguaggi espressivi non verbali. Peter Brook abbandona la Royal Shakespeare Company e va in Africa, dove inaugura la sua esperienza di teatro interetnico, come mescolanza e integrazione di lingue e linguaggi, Augusto Boal fonda in Brasile il teatro dell’Oppresso, col quale realizza le incursioni del “teatro giornale” e del “teatro invisibile” in spazi aperti, davanti a spettatori impreparati, l’Odin Teatret abbandona la dimensione chiusa del laboratorio danese per viaggiare nell’Italia del Sud e in Sudamerica realizzando “baratti”, ossia incontri con le popolazioni locali attraverso il teatro. E in Italia la straordinaria esperienza dell’animazione teatrale esce dalle scuole per dilatarsi nel sociale, col “teatro nello spazio degli scontri” di Giuliano Scabia.
Per molti giovani attivi nel movimento politico l’esperienza teatrale nel sociale, premessa dei “gruppi di base” e quindi del “teatro di gruppo” degli anni Settanta/Ottanta, rappresenta un importante momento di passaggio dalla pratica militante alla liberazione dell’espressione artistica e dell’azione culturale alternativa. Al teatro accedono giovani privi di preparazione specifica eppure in grado di riprogettare la scena sulla base di un’esperienza essenzialmente politica, che al teatro frutterà la conquista di spazi alternativi, dove svolgere un lavoro a largo raggio, rivolto a un referente anagraficamente e culturalmente affine.
Di quelle esperienze (l’adolescenza di una storia creativa e ribelle) restano i frutti maturi di insediamenti che hanno infranto il monolitismo del sistema teatrale e che, dopo essersi chiamati “centri”, si chiamano oggi “teatri stabili di innovazione”; resta la proliferazione di linguaggi che dopo essere stati di rottura rappresentano oggi (in un clima però di minaccioso ritorno all’ordine) le infinite possibilità di risorse espressive cui attingere liberamente, al di fuori di connessioni di carattere gerarchico; resta il diritto acquisito dell’accesso al teatro per i non-attori, che dopo essere stati protagonisti dell’animazione teatrale sono oggi i nuovi soggetti di un teatro che unisce all’opportunità di inclusione sociale l’elaborazione di nuovi linguaggi e possibilità della scena a partire dalle diverse abilità.
Scorro gli articoli che ho scritto per “A” dall’inizio della mia collaborazione. Ho raccontato il Living Theatre dalla morte di Julian Beck in poi, l’America alternativa del Bread and Puppet e il musical anti-apartheid di Soweto, il Sud America del teatro politico e l’Italia delle giovani generazioni e degli spazi occupati, il teatro gay e il teatro al femminile, il teatro dei gruppi e il teatro nei luoghi reclusi e del disagio...
E mentre rimane il rammarico di non avere raccontato tante importanti esperienze, mi rappacifico un po’ con me stessa perché scopro che la vita del teatro ha dialogato con quella di “A”; e quando, fra altri quarant’anni, gli storici sfoglieranno le annate di una rivista che sarà considerata imprescindibile per la lettura della politica e della società fra Novecento e nuovo millennio, troveranno il racconto di un teatro che ha accompagnato fermenti, sogni, contraddizioni di generazioni alle quali a volte ha fornito uno specchio per rivelarsi, altre volte ha suggerito vie di fuga ed esperienze di trasformazione possibili.

dida p46: Julian Beck e Judith Malina in Antigone (1980). Fotografia di © Marco Caselli Nirmal (dal libro di Cristina Valenti, Storia del Living Theatre. Conversazioni con Judith Malina, Corazzano, Titivillus, 2008).


Educazione libertaria
per strada

di David Guazzoni

Un lavoro di formazione e di preparazione alla realizzazione dei progetti di strada.

D al 2000 la Cooperativa Sociale Alekoslab ha scelto la strada come luogo principale del proprio agire, come dimensione della propria azione educativa, come scenario principale per stare con le persone, per mischiarsi e misurarsi con la ‘realtà’.
Nel lavoro di formazione e di preparazione alla realizzazione dei progetti di strada abbiamo elaborato diversi strumenti che potessero aiutare gli operatori a comprendere la cornice entro cui si andava ad operare.
Qui vi proponiamo sei voci tratte dal 'Dizionario minimo dell'educativa di strada' che abbiamo scritto nel 2000 proprio per iniziare ad orientarci.

S: sorprendersi/stupirsi. La capacità di. È uno dei requisiti che ogni operatore sociale dovrebbe portare nel proprio bagaglio personale; è quell’ingrediente che rende affascinante il proprio lavoro anche dopo anni e che permette di ricaricare le batterie e far scoccare scintille anche quando meno ce lo si aspetta. Quando si lavora in strada è utile recuperare questa capacità dal proprio bagaglio.
T: tempo. Nel lavoro di strada ci si misura costantemente sia con quello atmosferico che incide molto ed è un compagno da non sottovalutare, sia con quello che passa determinando lo scorrere della vita. È assolutamente necessario non avere fretta, sapersi confrontare con tempi lunghi, dilatati, che portano a risultati quando meno li si aspetta. Per questo è necessario, quando possibile, inserire progetti di educativa di strada in percorsi di più anni, perché solo così si può avere pienamente il senso di una prospettiva, di una evoluzione, di un avvenuto cambiamento.
R: rete. Lavoro di. Il lavoro di strada e tutto il lavoro sociale più in generale deve sempre creare sponde, rimandi, legami, scambi tra le realtà che lavorano in uno stesso territorio, così da ampliare i punti di vista, alimentare il confronto e forzare l'isolamento.
A: attesa. Nel senso del saper attendere. La fretta è sempre cattiva consigliera e nel lavoro di strada non può esserci posto per il breve termine, per le soluzioni ‘veloci’.
D: disponibilità. È una dote di cui ogni operatore deve essere provvisto in qualsiasi ambito di intervento ed è un requisito imprescindibile nel lavoro di strada. Spesso si richiede agli operatori completa disponibilità mentale (nel senso di essere pronti a scompaginare le carte e ripartire) e a livello pratico (molto banalmente negli orari, soprattutto nelle prime fasi di lavoro in un nuovo territorio).
E: equipe. Centrale è la dimensione del gruppo di lavoro inteso come nucleo da cui prendere le mosse e cui tornare, per rielaborare le esperienze, confrontandole e dando loro la migliore contestualizzazione possibile.
Alekoslab Cooperativa Sociale ONLUS www.alekoslab.org


Sentimento e metodo:
la lezione di
Errico Malatesta

di Davide Turcato

Malatesta postula continuità fra l’azione anarchica nella società presente e in quella futura.

Gli scritti di Errico Malatesta contengono forse il più ricco patrimonio di esperienze e di idee che il movimento anarchico possegga. Essi riempirebbero oltre cinquemila pagine, e tale è la mole delle opere complete dell’anarchico campano, un progetto editoriale attualmente in corso che, ci si augura, completerà il lavoro iniziato da Luigi Fabbri negli anni 1930.
Ma se fra questi scritti dovessi scegliere una sola frase-simbolo, questa sarebbe una definizione contenuta nell’opuscolo L’Anarchia, del 1891: “L’anarchia, al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà.” La frase simboleggia bene il connubio fra semplicità di esposizione e profondità di pensiero che caratterizza tutta l’opera di Malatesta. Pare una definizione ovvia, nel suo riferimento alla classica triade di valori della Rivoluzione Francese, eppure sintetizza un’intera concezione dell’anarchismo, meditata e originale. In questa concezione l’eguaglianza di condizioni, cioè la messa in comune dei mezzi di produzione, il socialismo, non è un punto di arrivo, ma il punto di partenza di un processo di evoluzione sociale animato dal sentimento di solidarietà fra gli uomini, ed esplicato attraverso la libertà d’iniziativa di ciascuno.
La definizione non propone una statico modello di società perfetta, ma descrive una società aperta socialista, sperimentalista e pluralista. Nel caratterizzare l’anarchia in termini di un sentimento, la solidarietà, e di un metodo, la libertà, che già oggi gli anarchici mettono in pratica, Malatesta postula continuità fra l’azione anarchica nella società presente e in quella futura. E poiché quel sentimento e quel metodo sono scelte volontarie di ciascun individuo, la sua è una visione gradualista dell’anarchia, che sarà tanto più realizzata quanti più individui faranno propri quel sentimento e quel metodo. Nessuna concezione potrebbe essere più lontana dallo stereotipo, duro a morire, dell’anarchismo come anelito ad una perfetta arcadia e come filosofia del “tutto o nulla”. C’è ancora molto da far capire su cosa sia l’anarchismo, e nessuno ha spiegato cosa esso sia meglio di Malatesta.
Nel riconsiderare la propria tradizione in vista delle lotte future, come fa questa bella iniziativa di “A,” gli anarchici attingano a questo inestimabile patrimonio, in buona parte ancora inesplorato o incompreso, delle “pagine di lotta quotidiana” di Malatesta.

dida p48: Errico Malatesta visto da Fabio Santin (particolare).


Colonne sonore
di “cattiva musica”

di Diego Giachetti

Con le discoteche cambiarono i luoghi della socializzazione giovanile.

Q uando all’incirca questa rivista nacque, il ’68 italiano stava facendo i conti con le canzonette della “cattiva coscienza” riscoprendo la canzone impegnata, politica e di protesta vecchia e nuova. La «musica ribelle», come sintetizzò efficacemente Eugenio Finardi nel 1976, quella che ti vibrava nelle ossa e ti entrava nella pelle e t’invitava a «mollare le menate e metterti a lottare». Nella seconda metà degli anni Settanta la musica, i concerti, furono l’occasione, nelle feste del proletariato giovanile, per incontrarsi, stare assieme, amoreggiare, fumare spinelli, mentre il senso e il significato delle parole “impegno politico” subirono un primo cambiamento. La connotazione rimaneva ancora positiva, ma il suo riferimento si estendeva, si dilatava. Alle soglie degli anni Ottanta, la generazione che era stata la protagonista dei movimenti degli anni Settanta, era in rotta di riflusso, travolta dalla crisi delle ideologie abbandonava l’impegno. Con sofferenza scopriva di essere una «generazione di sconvolti», senza «più santi né eroi» (Vasco Rossi, Siamo solo noi, 1981), senza un «centro di gravità permanente», come sentenziò Franco Battiato, «ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, perso dietro i fatti suoi» (Vita spericolata, 1983).
Con le discoteche cambiarono i luoghi della socializzazione giovanile. Migliaia di giovani s’incontravano costituendo delle comunità fondate sul bisogno di evadere, di rompere la monotonia quotidiana. L’età giovanile si prolungò, sinonimo di precarietà della condizione sociale. La musica, di cui erano grandi consumatori, coniugava l’aspetto ludico con quello partecipativo. Le parole dei testi non avevano un immediato ed esplicito messaggio pedagogico-educativo, servivano ad aggregare, a sincronizzare i corpi degli individui sullo stesso ritmo. Quando venne il movimento dei movimenti la sua colonna sonora fu una musica globale che aboliva il concetto di “straniero”. Una koinè musicale nuova che inglobava le tradizioni dei vari popoli del mondo non come una curiosità da scoprire, ma come parte del proprio patrimonio culturale. Nelle manifestazioni del movimento a Genova, a Firenze, a Roma non mancarono le bandiere rosse, i canti della tradizione del movimento operaio. Tanto il rosso ma, se la citazione di Tiziano Ferro non appare blasfema, si trattava di un «rosso relativo» (2001), che veniva dal passato e rispetto al quale il giudizio era sospeso, poiché essere giovani significava anche sentirsi creature nude di fronte alle vetrine delle ideologie.
Quindi, ecco perché va accolto l’invito di Marcel Proust a non disprezzare la cattiva musica, quella che si suona e si canta di più e con più passione di quella buona, quella che si è riempita «del sogno e delle lacrime degli uomini», perché, se il suo posto é «nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società» (I piaceri e i giorni).


Abbattere dominio.
Costruire libertà

di Domenico Liguori

È questa la sfida che ci lancia il municipalismo libertario

P er dirla con Errico Malatesta, gli anarchici ritengono che “la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale”, e proprio perché convinti di ciò, propongono quale alternativa alla società del dominio la costruzione di una società basata sulla libertà. Due sono, dunque, le forze propulsive dell’anarchismo, quella distruttrice e quella costruttrice. La prima non si riconosce nel presente, anzi lo delegittima, lo combatte e mira gradualmente a distruggerlo; la seconda invece è tutta intenta a prospettare di già il futuro: una società della libertà e dell’uguaglianza.
Insomma, gli anarchici, convinti che le iniquità sia dovute all’organizzazione gerarchica della società, propongono che ognuno riprenda nelle proprie mani il destino e che tutti insieme riprendiamo in mano il destino dell’umanità, per renderci artefici di una società in orizzontale, che parta dall’individuo per giungere poi alla libera associazione fra individui, alla comune ed infine ad una federazione dal basso, che unisca le libere comuni dal territorio al mondo intero.
Ecco, è così che a me piace pensare il municipalismo o il comunalismo libertario, come dir si voglia: come una proposta radicale, rivoluzionaria, ma nello stesso tempo gradualista; una proposta che si colloca nelle conflittualità dell’oggi per la difesa degli interessi immediati delle classi subalterne, ma si prefigge, nel contempo, di iniziare a costruire nel "qui ed ora" le basi alternative su cui edificare la società libera del domani.
Questo genere di argomentazioni ad A-rivista anarchica non è certamente nuovo, se solo pensiamo ai contributi che in tema di municipalismo libertario sono ad essa pervenuti, da un trentennio a questa parte, dalla collaborazione col pensatore Murray Bookchin. Insomma, di fronte al fragoroso cianciare su un federalismo istituzionalista, ad A-rivista anarchica bisogna riconoscere il merito di aver svolto un grande ruolo nel riproporre la tematica del federalismo nell’essenza; quell’essenza che per l’appunto si individua nella genesi libertaria dello stesso, una genesi che ci ricorda che laddove c’è gerarchia non ci può essere federalismo vero.
Io scrivo da Spezzano Albanese, cittadina abereshe della Calabria, nota in ambito anarchico e libertario, per la sua concreta esperienza comunalista libertaria che da alcuni decenni si esplica fuori e contro l’istituzione comunale di stato con iniziative di autogoverno dal basso nel mondo del lavoro e nel territorio, attraverso le campagne sociali promosse dalla FMB – Federazione Municipale di Base (per chi voglia saperne di più: www.anarchia.info).
Abbattere dominio costruire libertà: è questa, insomma, la sfida che oggi ci lancia, il municipalismo o comunalismo libertario, come dir si voglia. Sapremmo raccoglierla?


Un bellissimo sogno
da consegnare al futuro

di Dori Ghezzi

Mi è tuttora difficile potermi considerare una vera anarchica.

F ino a un certo punto della mia vita, per me il concetto di anarchia è stato una versione distorta rispetto a ciò che l’anarchia è nella sua vera essenza; e credo che questo possa capitare alla maggior parte delle persone condizionate da un’informazione che troppo spesso usa a sproposito la parola anarchia.
La presa di coscienza di che cosa significasse è maturata conoscendo da vicino chi si dichiarava anarchico con consapevolezza e onestà.
Ho capito che anarchici non si diventa perché qualcuno ti indottrina e ti affilia attraverso dei codici, ma scaturisce da una naturale tensione al saper convivere con gli altri.
È la libertà all’ennesima potenza che sancisce la possibilità per l’uomo di essere completamente autonomo e intendere il rispetto non come un dovere ma come una scelta.
Malgrado sia pienamente in sintonia con questo pensiero, mi è tuttora difficile – non so se per pudore o per un (irragionevole?) dubbio di chiarezza – potermi considerare una vera anarchica.
Non ho incontrato Stirner, Bakunin o Anna Kuliscioff, ma Fabrizio e alcuni amici del circolo anarchico di Carrara, e un allora giovanissimo Paolo Finzi con la compagna Aurora.
Furono proprio Paolo e Aurora a regalarmi alcuni volumi di Emma Goldman, e ancora li ringrazio poiché attraverso quelle letture ho conosciuto il modo giusto per riscattare la condizione dei più deboli e, ancor di più, la dignità della donna.
Alcuni anni dopo ho avuto la fortuna di conoscere Fernanda Pivano, un’altra anarchica convinta, con la quale ho condiviso i medesimi pensieri sulla (per noi) errata impostazione della battaglia femminista.
Se, nostro malgrado, persistono ingiustizie non solo fra etnie e culture diverse, ma anche quasi ovunque fra uomo e donna, purtroppo, almeno ancora per ora, l’anarchia sembra un bellissimo sogno da consegnare al futuro.

dida p51: Fabrizio De André e Dori Ghezzi (foto Reinhold Kohl).


Non una,
ma tante rivoluzioni

di Elena Violato

Da tempo un profondo senso di smarrimento alberga nelle persone e soprattutto nelle nuove generazioni

V orrei iniziare questo contributo con una constatazione molto banale ma spero proprio per questo largamente condivisibile: siamo in un periodo di crisi.
Tante parole son state spese al proposito ed è patrimonio comune il fatto che attraversiamo un periodo di crisi economica, causa e conseguenza di quella ambientale che secoli di sfruttamento da parte dell'essere umano han creato.
Ma ciò su cui in questa sede vorrei focalizzare l'attenzione è il risvolto esistenziale, culturale della faccenda: non sappiamo più come definire, come rapportarci con l'esistente e con la nostra stessa esistenza, l'immaginario con cui siamo nati e cresciuti ha confini vaghi e nebulosi.
Da una parte il processo di secolarizzazione ha messo in crisi la fede indiscussa in un unico dio, sia esso quello della chiesa, lo stato o un grande ideale per il quale vivere e combattere.
Dall'altra ciò che ci è stato offerto in cambio della fede è un oppio ancor più inebriante di cui abusare: continuamente sollecitati a consumare per vivere, a consumare la vita, mai sazi e insaziabili, in continua ricerca di qualcos'altro e/o di qualcun altro, il “benessere” sembra alla portata di tutti e pochi si accorgono che più ci riempiamo di cose, più ci svuotiamo di noi stessi stando male.
Essendo state messe in discussione tutte le grandi fedi, ciò ha permesso una parziale liberazione dalle umane gabbie mentali, le quali di certo nel tempo non hanno incentivato il voler migliorare le proprie condizioni di vita. Però è successo anche che si ponesse l'accento solo sulle condizioni oggettive dell'individuo e della società e ci si dimenticasse di tutto il resto, di tutto quello che contribuisce allo stesso modo all'essenza di una società e dell'individuo.
Solo negli ultimi decenni ci si è accorti che nella teorizzazione di un cambiamento mancava un pezzo e chi ha iniziato a trattarne nei suoi scritti vi ha fatto riferimento parlando d'”immaginario”.
Da tempo un profondo senso di smarrimento alberga nelle persone e soprattutto nelle nuove generazioni, le quali rifiutando più o meno consapevolmente i codici della vecchia “cultura”, annaspano nel non riuscire a creare, a dare vita ad un nuovo sistema condiviso di interscambio e comprensione.
“Vita liquida” l'ha definita Bauman.
Sembrerà assurdo ma è proprio qui che si annida il “germe” del cambiamento, una speranza di mutazione d'immaginario che potrebbe portare ad un'ulteriore liberazione dalle catene del Dominio.
Posto che dare un senso alla propria e all'altrui vita è una conditio sine qua non per poter vivere ed “essere” umani, e posto che la maggior parte dei miti fondanti il senso ultimo della vita è o sta crollando, si può per assurdo pensare di essere al principio di una trasformazione radicale.
Per ora si è messo l'accento solo sull'avanzata dei nazionalismi e dei fondamentalismi. Questo è un rischio reale e spaventosamente incombente.
Ma all'estremo opposto si può intravedere una luce di speranza, un profondo relativismo che sta permeando tutte le scienze umane e sociali e anche sempre più persone (sebbene non in maniera idilliaca e sempre tenendo conto delle difficoltà del caso), complice anche il sempre più frequente incontro-scontro con altre culture.
Questo relativismo, questo non voler fondare il proprio senso su un qualcosa di assoluto e trascendente e la tranquillità con la quale accettare che se una cosa è giusta ed è buona per il singolo, non dev'essere per forza scritto in calce da qualche parte, creano spazi reali e mentali di libertà, danno vita ad una “cultura di libertà”.
L'ascolto dell'altrui opinione, l'ascolto, quello vero può essere agito solo se si parte dal presupposto che l'altro pensa a suo modo di aver ragione ed è solo con questo presupposto che ciascuno di noi potrà confrontare la ragione degli altri con la propria, senza perdere tempo ed energie nel voler a tutti i costi affermare se stesso.
Il rispetto della diversità può muovere i suoi primi timidi passi solo partendo da qui, solo quando sarà patrimonio comune che niente è più assurdo di qualcos'altro, che nulla è più normale e oggettivo del resto.
E questo in fondo è quello a cui da sempre tende l’anarchia...
Ho posto l'accento su uno dei tanti aspetti dell'abbattimento del dominio. Sicuramente non è l'unico ed è ovvio che tutto questo discorso è inutile per le persone che continuano e continueranno a volere imporre il proprio dominio con la forza e la violenza, con l'inganno e la repressione. Ma su fascisti, stato e istituzioni penso che molto sia già stato detto.
Per liberarsi ed essere liberi non bisognerebbe tralasciare nessun aspetto: dal macro al micro, dal pensiero all'azione, dalla creazione distruttiva alla distruzione creativa.
Non una ma tante “rivoluzioni”; non domani aspettando il sol dell'avvenire ma qui, ora.


Fabio Santin per i quarant'anni di Arivista.


Una libreria
chiamata Utopia

di Fausta Bizzozzero

Il progetto era un po’ folle e la nostra ingenuità pure

C orreva l'anno 1976 quando decisi, insieme a Luciano Lanza, a quel tempo mio compagno di vita e militanza, di aprire una libreria (lui dopo alcuni anni decise di cambiare lavoro ma altri compagni/e mi hanno affiancato nel tempo, in particolare Mauro Decortes arrivato giovanissimo e che tuttora lavora in libreria). Nessuna esperienza nel settore, nessuna conoscenza dei meccanismi distributivi e commerciali, nessun “mestiere”.
Solo una grande amore per la lettura e la profonda convinzione che fosse necessario uscire dai nostri circoli, dalle nostre sedi, dal nostro “milieu” e far conoscere i nostri libri, le nostre riviste, le nostre idee nel più vasto e variegato mondo che transita sui marciapiedi della città.
Il nostro piccolo gruppo (Bandiera Nera) infatti si era trovato ad occuparsi di carta stampata: dal 1971 pubblicava “A Rivista Anarchica” (nata come necessità di controinformazione dopo la strage di Piazza Fontana) e aveva ricevuto in “eredità” da meravigliosi vecchi compagni la casa Editrice Antistato (poi diventata Elèuthera), la rivista “Volontà” (ora “Libertaria”) e la rivista quadrimestrale in quattro lingue “Interrogations”.
Il progetto era un po' folle e la nostra ingenuità pure, ma nel febbraio 1977 abbiamo aperto i battenti della Libreria Utopia in Largo La Foppa. Ci sono voluti anni per farci accettare nel quartiere e ci sono voluti anni per imparare il “mestiere” di libraio, per me il più bello del mondo ma anche difficile, faticoso (sempre in piedi e solo il ferro pesa più dei libri) e con margini di guadagno irrisori. Ma la libreria doveva essere ed è stata anche altro: luogo di incontro (di studenti, di insegnanti, di collettivi di lavoratori, di associazioni, di gruppi di studio), centro culturale libertario con l'organizzazione di cicli di conferenze e mostre tematiche (storia/filosofia/ecologia/pedagogia/scienza/arte/musica ecc.) con un taglio libertario; luogo di confronto e di scambio, di circolazione delle idee, punto di riferimento culturale.
Nel corso degli anni (tre decenni) la politica editoriale, che già puntava alla quantità invece che alla qualità, alla creazione di best-seller e alla omologazione verso il basso, ha subito un processo di accelerazione parossistico alimentando un'economia fittizia fondata sulla moltiplicazione dei libri pubblicati col risultato di rendere sempre più breve la vita di ogni singolo libro (cioè la sua presenza e visibilità in libreria) e di rendere sempre più difficile il mostro lavoro quotidiano. Ma questa “evoluzione”, questa accelerazione, come ben sappiamo, faceva parte di un processo ben più ampio dell'economia e della società di cui purtroppo dobbiamo vedere i disastri quotidianamente.
Nel corso degli anni anche il quartiere è cambiato radicalmente: spariti i vecchi artigiani e gli storici abitanti delle case di ringhiera ristrutturate e vendute a caro prezzo sono arrivati i nuovi ricchi, sono proliferati i locali alla moda. In questo scempio generale comunque la libreria Utopia resiste ancora, ultimo baluardo contro il dilagante popolo dei nuovi barbari. Io, per problemi fisici e personali, ho ceduto il testimone, ma l'avventura della libreria continua.
Se dovessi fare un bilancio della mia esperienza direi che mi considero fortunata: fare attività anarchica mi ha aiutato a crescere, a imparare, ad acquisire competenze, ho avuto un piccolo sogno (il grande sogno di una società diversa è sempre nel mio cuore ma ahimè mi sembra sempre più lontano!) che ho potuto realizzare così come lo volevo pur pagandone tutti i prezzi, e infine ho anche avuto la soddisfazione di vedere riconosciuto il mio/nostro lavoro sia dagli addetti ai lavori sia dal pubblico dei lettori e fruitori dell'attività culturale.


Anarchia e religione

di Federico Battistutta

Ma gli anarchici non erano dei senza dio? Mica tutti. E si comincia a parlarne.

N ella storia dell’anarchismo si può osservare una visione sostanzialmente negativa nei confronti della questione religiosa, in cui predominano l’ateismo e l’anticlericalismo, diversamente coniugati. Esemplare a questo proposito è stata la posizione di Bakunin, espressa in Dio e lo Stato: “Poiché Dio è tutto, il mondo reale e l’uomo sono nulla. Poiché Dio è la verità, la giustizia, il bene, il bello, la potenza e la vita, l’uomo è la menzogna, l’iniquità, il male, la bruttezza, l’impotenza e la morte”.
Detto ciò, nel pensiero e nella pratica dell’anarchismo sono esistiti, seppur in forma minoritaria, tendenze differentemente orientate nei confronti della religiosità, pur mantenendo forte la denuncia della componente autoritaria e coercitiva delle religioni organizzate e l’opposizione nei confronti alle gerarchie ecclesiastiche.
Possiamo menzionare anarchici di ispirazione cristiana (Lev Tolstoj, Simone Weil, Dorothy Day, Ammon Ennacy e Jacques Ellul), ebraica (Gustav Landauer, Martin Buber, Gershom Scholem), finanche islamica (Henri-Gustave Jossot, Leda Rafanelli, Hakim Bey). È bene aggiungere che ciascuna delle persone citate ha variamente declinato il rapporto tra anarchia e religione. Tolstoj, per fare un esempio, non dichiarò mai di essere anarchico: “Mi considerano anarchico, ma io non sono anarchico, sono cristiano. Il mio anarchismo è solo l’applicazione del cristianesimo ai rapporti fra gli uomini”, scriverà nei suoi diari. Nel caso di Landauer, invece, l’ebraismo, che pur costituisce lo sfondo su cui si staglia tutta la sua riflessione, non assume i tratti dell’adesione a una religione positiva, pur nel riconoscimento che anche il momento più strettamente politico del suo pensiero ha risentito di un approccio mistico-religioso.
Ma l’esistenza di una dialettica creativa fra religione e anarchismo è riscontrabile anche allargando lo sguardo verso altri filoni religiosi, così come al di fuori di qualsivoglia confessione. Sono stati riscontrati punti di contatto – espliciti o impliciti – in diversi autori hindu, buddhisti e taoisti. Per limitarci ad un personaggio oltremodo conosciuto come M. K. Gandhi, egli fu notevolmente influenzato oltreché dalla millenaria tradizione spirituale induista, anche dal pensiero libertario di autori come Tolstoj e Thoreau. Ottenere l’indipendenza (swaraj), non significava per lui creare uno stato a imitazione di quelli occidentali; il potere doveva appartenere alle popolazioni sparse nei villaggi: un potere diviso e diffuso. Inoltre, per quando riguarda la questione della proprietà privata, egli non aveva difficoltà a definirsi socialista: un socialista con “forti tendenze verso l’anarchia”, lo ha definito qualcuno.
Il riconoscimento di un possibile rapporto fra il pensiero anarchico e alcuni autori ad esso contemporanei, ha permesso di allargare lo sguardo, compiendo indagini e ricognizioni verso periodi storici antecedenti la nascita dello stesso movimento anarchico. Per limitarci all’ambito cristiano, sono stati riscontrati numerosi punti di contatto studiando la vasta area costituita dal fenomeno delle eresie, sia all’interno del cristianesimo primitivo (contro cui tuonava l’apostolo Paolo: “non c’è autorità se non da Dio”), che nel Medioevo (come il multiforme movimento dei fratelli del libero spirito) o nelle epoche successive, più vicine alla nostra.
La discussione attualmente in corso concernente la rivisitazione dei paradigmi storici della tradizione libertaria (cfr. il post-anarchismo), i quali affondano gran parte delle loro radici nella cultura dell’Ottocento, può favorire nuove aperture e nuove possibilità per costruire relazioni dinamiche ed inedite fra anarchia e religione. In ogni caso, è questo un campo ancora tutto da esplorare.
(su questi temi cfr. www.liberospirito.org)


L’inganno delle parole

di Felice Accame

“A”. L’unica rivista che (per ora) non ha deciso di poter fare a meno dei miei scritti

I l fatto che nessuna rivista – o quasi – accetti miei scritti fa sì che io scriva su riviste cui, perlopiù, ho contribuito a fondare o, comunque, collabori fin dal primo numero. Non è il caso di “A” e, pertanto, mi sento come uno salito su un carro già in corsa. Il fatto che – come tutte quelle su cui ho scritto io – “A” non sia morta o, più semplicemente, abbia da tempo deciso di fare a meno dei miei articoli, mi stupisce.
Non mi stupisce, invece, il fatto che, nella mia comunque lunga collaborazione, non sia riuscito a incidere di una virgola sull’andamento della rivista. Mi sento quantomeno ininfluente. Qui vorrei spiegare il perché.
Sia che mi occupi di cinema – che mi si ghettizzi nella rubrica apposita -, sia che mi possa occupare di checchessia – fossi stato titolare della rubrica gastronomica sarebbe stato lo stesso -, il mio tipo di problema è sempre quello: guardo all’aspetto metodologico delle cose, mi dico che qualcosa non va per il verso in cui dovrebbe andare, cerco di risalire all’origine del guasto che, immancabilmente, riconduco alle teorie della conoscenza – a tutte le teorie della conoscenza, nessuna esclusa – prodotte dalla filosofia nel corso della sua storia.
Cos’hanno che non va le teorie della conoscenza? Che non stanno in piedi, che sono frutto di un fraintendimento ben occultato dalle parole e che, nonostante tutte le denunce di questo fraintendimento le cose hanno continuato ad andare come sono sempre andate: filosofo è un appellativo di stima – anche tra gli anarchici, ahimé -, la filosofia si insegna consapevolmente nelle scuole superiori soprattutto sotto forma di “storia della filosofia” e la si insegna inconsapevolmente a dosi massicce ed ineludibili negli asili e nelle scuole elementari.
Qui sarà bene che faccia qualche esempio. Come può stare in piedi una teoria che prevede che il conoscere consista nel farsi al proprio “interno” una copia esatta di qualcosa che starebbe al proprio “esterno” ? Quando e come mai potrà essere garantito di questa esattezza ? È ovvio che qualsiasi cosa percepita – percepita foss’anche da strumenti che, in quanto tali, si può presumere forniscano risultati uguali per chiunque li usi – sarà sempre percepita da qualcuno – come qualsiasi strumento, peraltro, fatto da qualcuno lo sarà pur sempre. È ovvio che qualsiasi cosa detta – ieri, oggi, domani – sarà pur sempre stata detta da qualcuno. È ovvio che se il fondamento della conoscenza è l’esito di un tale processo non è fondamento di alcunché.
Meno ovvio è individuare l’inganno nelle parole usate. “Esterno” e “interno”, per esempio, a che si riferiscono ? Al corpo, al cranio, al cervello, ai neuroni, alle sinapsi, ai neurotrasmettitori ? Alla “coscienza” ? Si trovassero due – dico due – d’accordo nel dirci in che consista questa benedetta coscienza. E “conoscenza” ? Già, la stessa parola “conoscenza” che significa ? Nei primi anni Sessanta, ho imparato da Silvio Ceccato che con questa parola vengono designati due processi ben diversi: il primo è quello in cui confronto due risultati della mia percezione nel tempo – del tipo: ieri mi è stato presentato Carlo, oggi lo incontro per la strada e gli dico “Ciao, Carlo”, lo ri-conosco. Il secondo è quello in cui confronto – o dico di confrontare – due risultati di una mia percezione nello spazio e nello spazio diviso in modo particolarissimo in quel “dentro” e quel “fuori” che, come abbiamo constatato, risultato metaforici. Va da sé che il confronto sia impossibile ad eseguirsi – per mancanza dei termini da confrontare – e va da sé, allora, che anche questo “conoscere” sia metaforico. Ed è il conoscere della filosofia.
Un conoscere somministrato a piene mani fin nella più tenera età – nei principi grammaticali, nelle basi dell’aritmetica e della geometria, negli apparati metodologici della scienza e nella religione – un conoscere misterioso, trascendente, sempre necessitante di mediazione da parte del potente di turno – mago, prete, scienziato, artista o filosofo che si voglia chiamare. Ogni giustificazione del potere si avvale di questa consolidata retorica. Ed il sottoscritto, costernato quanto basta, guarda l’uso di questa consolidata retorica – non parlo di mero “linguaggio”, ma anche del pensiero che c’è sotto – non solo, come è ovvio, da parte di chi di quel potere vuole partecipare e dice di voler partecipare, ma anche – ahinoi – da parte di chi gli si contrappone o, almeno, si dice convinto di contrapporglisi, contribuendo, invece, all’ennesima boccata di ossigeno.


Della libera comunità
nell’amicizia

di Filippo Trasatti

Una comunità di uguali, liberi di essere diversi, non può accettare nessuna forma e nessun ordine prestabilito.

C erto, si sa, non è per niente facile e neppure così comune. Eppure una comunità di amici e amiche è possibile. La si sceglie, ma non del tutto; non basta la volontà per crearla, perché il caso vi gioca un ruolo importante. E poi le affinità, il riconoscimento reciproco, l’esplorazione curiosa dei territori sconosciuti dell’altro, l’intersezione di interessi, passioni, conoscenze, pratiche.
Non sarà per sempre (ma cosa lo è?); ha piuttosto l’aspetto di una zona temporaneamente autonoma, sfrangiata ai bordi, con zone di tessitura più o meno dense al suo interno e ci vuole una sorta di atto di creazione continua per mantenerla in vita.
Questa zona autonoma può ampliarsi nel tempo, ma non resta mai uguale a se stessa e ciascuno dall’esterno (ma anche dall’interno), a seconda della prospettiva da cui la guarda, come in una nuvola, vede qualcosa di completamente diverso. D’altra parte una comunità di liberi, perché uguali, senza gerarchie prefissate, senza che i ruoli diventino asfittici, non può che essere mutevole.
E una comunità di uguali, liberi di essere diversi, non può accettare nessuna forma e nessun ordine prestabilito.
Non ha mura, ma è certamente un luogo protetto dall’asprezza dell’esistenza e dalla crudezza del mondo impazzito. Un luogo in cui si possono sperimentare la debolezza, senza temere in risposta la forza e la gioia, senza temere invidia e malevolenza. Uno spazio fraterno, basato sul mutuo appoggio, che può apparire elitario, come accade quando delle singolarità intrecciano fittamente i propri percorsi.
Una preziosa anomalia pacifica, una comunità differente, ma non indifferente, un micromondo dentro un mondo in cui gli uomini normali, le comunità identitarie, gli stati hanno sterminato in pochi decenni (e continuano a sterminare) milioni di esseri umani e dove continua l’orrore dello sterminio pianificato di miliardi di viventi e senzienti inermi.
Pacifica non significa priva di conflitti, di dinamiche di trasformazione, di tensioni, ma volte per decisione comune e in piena libertà, alla costruzione di uno spazio comune più appropriato. Non indifferente significa che usa il calore e la forza prodotta all’interna per rivolgerla verso l’esterno, in progetti comuni, un creazioni condivise, in lotte contro le innumerevoli forme di ingiustizia e sfruttamento.
Per me tutto questo ha il delicato e fragrante profumo dell’anarchia.


Divertenti, saggi, militanti, istruttivi, moderni mangiapreti.

di Francesca Palazzi Arduini

Un prezioso calendario di cronache, critica e dibattito anticlericale

“A” rivista anarchica è un prezioso calendario di cronache, critica e dibattito anticlericale.
Sin dal 1974, con Paolo Finzi: Il 12 maggio, infatti, tutti i cittadini-elettori (suore di clausura comprese) andranno a votare per decidere se mantenere o abrogare la famosa “legge Fortuna-Baslini”, con cui il divorzio, seppure in dimensioni ben ridotte (“piccolo divorzio”), ha fatto la sua prima timida comparsa in Italia, terra dei preti, di santi e di democristiani.
Impossibile dar conto di tutti. Solo alcuni esempi: il corteo torinese dei “sindonbusters” nel maggio 1998 è magistralmente raccontato da Maria Matteo: Nella Torino del 1998 diventa sovversivo persino lo statuto albertino ... La polizia ulivista di una città ulivista, di un paese ulivista riesce a dare un carisma “progressista” persino a Camillo Benso di Cavour con il suo arcinoto “libera chiesa in libero stato“.
Zelinda Carloni, sulla manifestazione del 19 febbraio 2000 a Roma in piazza Campo de’ Fiori per i 400 anni dal rogo di Giordano Bruno racconta della concessione della piazza da parte delle autorità di polizia con l’obbligo di ...fargli una polizza assicurativa.
Il 13 ottobre 2001 a Treviso si tiene il congresso per fondare la Lega italiana anti concordato, Mario Coglitore ne fa un resoconto critico e classista mettendo in dubbio l’aderenza della figura del “cattolico progressista”.
Luigi Veronelli, nell’ottobre 2003, critica l’anticlericalismo esponendo l’operato “virtuoso” e l’umanità di sacerdoti come don Ciotti (quello della “Libera” siciliana).
Da parte mia invece, ho contribuito con articoli di critica femminista (con un debole per la psicanalisi) alle politiche vaticane, invitando a tralasciare punti di vista anti-religiosi e iper-razionalisti per mettere a fuoco strategie anticlericali nuove di resistenza culturale all’invasività vaticana.
Attraverso gli scritti di Carlo Oliva ripercorriamo tutte le tappe fondamentali dell’ eterna deriva clericale italiana. Queste vengono riassunte in titolazioni magistrali, da “L’inquisitore remissivo” (1996) su alcuni cenni di riabilitazione di Charles Darwin e dell’evoluzionismo presso la Pontifica accademia, a “Un modesto scontro di portata epocale” (2008) sull’anniversario della Breccia di Porta Pia. Oliva spazia da considerazioni su piccoli avvenimenti simbolici (“La stilografica del vecchio pastore”, sulla penna ufficiale del Giubileo) a questioni basilari, come con “Le radici dell’esclusione” e “Torniamo a Melchisedech” (2006) sulle radici “cristiane” d’Europa e sulla funzionalità al potere politico delle tre religioni monoteiste.


L’educazione libertaria oggi

di Francesco Codello

Questa aria nuova, da semplice e isolata testimonianza, va sempre più diffondendosi pur tra le maglie soffocanti della realtà dominante.

T ra la fine del secolo XIX e la prima metà del XX numerose esperienze e significative riflessioni hanno caratterizzato la storia del movimento anarchico e libertario in questo senso, dando vita a vere e proprie alternative all’insegnamento tradizionale e all’educazione autoritaria. Il valore di tutto questo è testimoniato dalla capacità di penetrazione, nel corso degli anni, nella cultura pedagogica più progressista, di tutte queste teorie e di queste pratiche e la sua indiscutibile attualità.
Ma è soprattutto a partire dalla scuola di Summerhill, fondata da Alexander Neill nel 1921 in Inghilterra, che questo filone di educazione ha trovato nuove energie e nuovi impulsi diffondendosi in maniera significativa in tante parti del mondo. Esistono oggi centinaia di scuole, di accademie, di centri di studio e ricerca, di reti, di associazioni, in tutti i continenti, che sperimentano momenti e luoghi ispirati all’educazione libertaria. Queste scuole, con gradualità diverse e nutrendosi delle influenze culturali del loro contesto, sono però accomunate da alcune caratteristiche organizzative qui riassunte: decisioni assunte paritariamente da tutti i membri della comunità educante (dal membro più piccolo al più grande), frequenza facoltativa alle lezioni, superamento della scuola come contesto ristretto di apprendimento e costante immersione nell’ambiente circostante, contributo effettivo e qualificato dei ragazzi alla scelta degli insegnanti, organizzazione centrata sui tempi e modi dell’apprendimento piuttosto che in quelli dell’insegnamento, flessibilità e individualizzazione nella definizione degli obiettivi di istruzione, centralità effettiva del bambino e superamento della cultura adulto-centrica.
Alla crisi ormai irreversibile del sistema scolastico internazionale, gruppi sempre più diffusi di genitori, educatori, insegnanti, cercano di opporre (anche in Italia) non tanto una sterile protesta, quanto piuttosto vere e proprie realtà sperimentali nelle quali poter finalmente superare i disastri che la cultura educativa autoritaria e permissiva (due facce della stessa medaglia) hanno prodotto, particolarmente, in questi ultimi decenni (Cfr.: www.educazionelibertaria.org).
Questa aria nuova (che idealmente si ricollega a una tradizione storica importante e anticipatrice di queste idee) da semplice e isolata testimonianza, va sempre più diffondendosi pur tra le maglie soffocanti della realtà dominante. Il sistema scolastico è imploso e non riesce più a garantire, nonostante la resistenza e la tenacia di molti insegnanti, quegli spazi di creatività e di autonomia indispensabili per poter compiere un’azione educativa antiautoritaria.
Questi “semi sotto la neve” si diffondono e aspettano di germogliare trasformandosi in vere e proprie esperienze concrete, a disposizione di quanti ritengono che l’infanzia e l’adolescenza meritino di essere lasciate libere di mettere in luce quell’infinità di espressioni e quelle ricchezze di cui sono portatrici.
Il primo dovere infatti di una scuola è quello di alimentare una passione per l’apprendimento (non sacrificarla o mutilarla come invece avviene) e non addestrare i bambini e i ragazzi con lo scopo di superare i test e gli esami finali. Si tratta in sostanza di dare spazio a quell’educazione incidentale di cui Paul Goodman ha così ben sintetizzato: “Ai bambini non bisogna insegnare, bensì permettere di scoprire”, più che ascoltarli sulle giuste risposte che ci attendiamo da loro, stimolarli a porre nuove domande. Invece di alimentare sistematicamente la competizione tra di loro, stimoliamoli a competere con loro stessi che è il modo migliore per imparare.
Questa educazione ad essere non significa ovviamente dare per acquisito un dato punto di partenza (genetico) e pensare solo al suo sviluppo, quanto, piuttosto, presupporre in ogni fase dello sviluppo evolutivo individuale, l’emergere libero della sua autentica natura. Quindi è educare ad essere in un processo continuo che produce la propria diversità come specificità.
Il ruolo dell’insegnante non è quello dell’esperto che conosce le risposte, ma quello della guida e mentore che conosce delle domande da porre. L’enfasi non va dunque posta tanto nelle conoscenze da trasmettere, assorbire e rigurgitare, quanto sull’esperienza da condividere e sui significati che potrebbe generare. L’insegnante apprende dal bambino e si trasforma con lui attraverso la relazione dialogica e con la mediazione dell’ambiente, non trasmette un insieme di dati acquisiti ma un rapporto con la vita come divenire e con la natura nella quale esistiamo.
Al posto della pedagogia del risultato l’enfasi è posta sull’educazione libertaria.


Memoria e storia:
alcune riflessioni

di Franco Bertolucci

Il potere ci ha abituato alla manipolazione della memoria e a imponenti processi di annullamento della stessa.

Oblio e memoria sono due termini inscindibili, il cui costante intreccio è parte integrante degli individui e della società. Sia l’oblio, che la memoria, sono fenomeni naturali ma possono essere anche indotti artificialmente. Il potere, nelle sue diverse sfaccettature, ci ha abituato non solo alla manipolazione della memoria ma anche a imponenti processi di annullamento della stessa. Pertanto, coltivare il ricordo è un esercizio necessario per non farci omologare e soprattutto per non perdere parte della propria coscienza di sé. Per gli anarchici, ma potremmo allargare il campo a tutte le persone di buona volontà e di principi rispettosi delle libertà individuali e collettive, ci sono date ed eventi che non si possono dimenticare, sia per un dovere sociale nei confronti delle comunità dei «sofferenti», sia per un riconoscimento di chi ha sacrificato la propria vita alla causa della libertà e della giustizia sociale.
La storia dei movimenti politici e sociali fin dal loro sorgere è stata scandita dal ricordo di date e anniversari che hanno formato intere generazioni di rivoluzionari. Gli internazionalisti di tutto il mondo per decenni conservarono gelosamente la memoria del 18 marzo, anniversario della Comune di Parigi e il 1° maggio venne consacrato dai lavoratori alla memoria dei Martiri di Chicago e alla rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro. Per gli anarchici altre date segnarono il loro lungo cammino nella storia: dal 13 ottobre 1909, data della fucilazione di Francisco Ferrer y Guardia, all’8 gennaio 1911 giorno della scomparsa di Pietro Gori, fino al fatidico 19 luglio 1936, quando in Spagna un gruppo di generali volendo soffocare la libertà e la repubblica scatenò una delle più feroci guerre civili dell’epoca contemporanea, causando migliaia di vittime e distruggendo un intero Paese. Una data questa che per gli anarchici ha significato, invece, uno spartiacque nella loro storia, un evento, quello della guerra civile, dove si infranse contro il muro dei totalitarismi il sogno di una rivoluzione libertaria che si credeva ineludibile.
Nel Secondo dopoguerra il controllo della memoria e della storia ha assunto per il potere politico ed economico, con tutte le sue forme di dominio, un valore strategico di primaria importanza supportato in questo dallo sviluppo tecnologico e dalla diffusione dei mass media.
L’uso pubblico della storia e del suo calendario è diventato oramai un affare di Stato. Per legge vengono decretate le date storiche su cui fondare l’identità della nazione, in Italia come in molti paesi del pianeta. Ad esempio nel nostro Paese, con la legge n. 56 del 4 maggio 2007 si è istituito il «Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo» e la scelta è caduta sul 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani. Questa scelta da un punto di vista storico è piena di contraddizioni e anche di amnesie. Sicuramente ha giocato un ruolo nella scelta la banalizzazione e la semplificazione che è stata fatta negli ultimi due decenni di quella stagione, spesso definita impropriamente, con un’efficace sintesi, come la stagione degli «anni di piombo». L’uso politico e pubblico di questa data «istituzionalizzata» da parte delle attuali classi dirigenti ha evidentemente una funzione di «indottrinamento» nei confronti delle nuove generazioni. Ben altri significati avrebbe avuto la scelta del «12 dicembre 1969», data della strage di Piazza Fontana a Milano e dell’inizio della strategia della tensione, ma così non è stato.
Se la storia e la memoria delle comunità umane «non è altro che il presente che prende coscienza del suo passato» (Sartre) allora dobbiamo convenire sul fatto che da parte delle istituzioni ci sia una naturale propensione a «strumentalizzare» e «stravolgere» la storia al fine di giustificare per «ragion di Stato» le proprie scelte politiche: come non interpretare in tal senso la lunga stagione delle «leggi d’emergenza» per fatti relativi al terrorismo, alla violenza e al dissenso politico degli anni Sessanta e Settanta? Oggi, dunque, la lotta per la memoria contro l’oblio indotto e i calendari istituzionalizzati è importante e apre nuovi scenari.
In questo contesto alcune storie biografiche e alcune date rimangono fondamentali per gli anarchici di oggi, come il 15 dicembre 1969 (morte di Giuseppe Pinelli) e il 7 maggio 1972 (morte di Franco Serantini). Grazie a molti «anonimi cittadini» la memoria di Pinelli come quella di Serantini non si è persa, resiste e risorge, come un fiume carsico, sui muri delle città, nelle canzoni, nei teatri, nei libri e nelle pagine web e dei giornali indipendenti, come quelle di «A»; vive nei cuori delle donne e degli uomini che continuano a credere e a battersi per gli ideali di giustizia sociale e libertà, per un mondo rispettoso dell’ambiente e degli altri esseri viventi.
Ecco perché l’anniversario di «A» – rivista che dedica molte pagine alla storia e alla memoria degli anarchici –, è parte integrante e importante della storia dell’anarchismo degli ultimi decenni del Novecento e oggi ha un significato particolare che si può riassumere con le parole di Luigi Fabbri scritte a Max Nettlau il 9 maggio 1933: «Le memorie di un passato, che ebbe tanta luce, sono pure un rifugio pel nostro spirito turbato dalle visioni del presente; e giovano a rianimare la speranza nell’avvenire».

FIN QUI


Il mio plastico.
Auguri al mondo.

di Fulvio Abbate

Al centro mi piacerebbe
ci fosse il ritratto di Durruti

C ara “A”,
mi chiedi un contributo per te stessa. Riflessioni sparse, dai.
Prendendo atto dell’impossibilità di costruire un discorso compiutamente tale, dopo essere stato visitato da alcune possibilità dialettiche (tutte regolarmente cestinate un istante dopo la loro rivelazione) sono giunto alla conclusione di fare dono ai compagni e ai lettori di un lungo elenco di oggetti che, almeno nei miei intenti, dovrebbe prima o poi rappresentare l’ampio corpus di una riflessione poetica sul secolo delle rivolte – il Novecento, certo, ma anche i giorni che ancora ci attendono, a meno che noi si voglia rinunciare, cosa cui non credo, alla rabbia – sulla possibilità di issarci, come già King-Kong sul pennone della soddisfazione erotica e rivoluzionaria.
Se ho citato il gorilla, la ragione c’è, e riguarda il nostro comune amore per la Spagna libertaria. C’è infatti la foto di un blindato della Cnt-Fai in cima al quale, mani ignote, hanno pitturato in modo assai visibile e marcato le referenze anagrafiche del divo hollywoodiano, il più struggente, il più puro di cuore. King-Kong, appunto.
Dimenticavo: l’altro giorno ha ascoltato l’ultimo discorso di Salvador Allende, pronunciato da Radio Magallanes sotto i colpi dell’aviazione golpista l’11 settembre 1973. Salvador, parlando al futuro, a coloro che sarebbero un giorno venuti ad ascoltare la sua storia, a sapere della sua sconfitta, pronunciava se stesso, il suo fantasma imminente attraverso “il metallo tranquillo della mia voce”, anzi: “…el metal tranquilo de mi voz”. Ma sto rubando tempo all’ideale plastico della soddisfazione storico-poetica che ho appena promesso.
Bene, al centro del plastico mi piacerebbe ci fosse il ritratto di Durruti, in omaggio all’Eroe ma anche alla mia ormai leggendaria emittente che gli rende onore – www.teledurruti.it – così come è venuto fuori dai pennelli di un pittore amico siciliano, Francesco Sarullo. Durruti, liberato dall’abisso d’ogni ombra sullo sfondo giallo della leggenda.
E, subito accanto, allo stesso modo del “primo cent.” che Paperon de’ Paperoni custodisce alle spalle della scrivania, una banconota “anarchica” della comunità di Binefar-Huesca, autentico gioiello di una numismatica stellare, astrale. Perdona l’insistenza con la terra iberica, ma proseguirei con una minuscola foto che mostra i volti di tre faccette del 1936, le stesse cui ho dedicato questo distico: “Tre ragazzine nel vento della Spagna repubblicana del 1936, l’adolescenza della rivoluzione. Un romanzo fotografico in pochi centimetri, un capolavoro, le nostre pupille sul lavoro delle modiste, le nostre pupille sulla trinità del candore. Ovunque voi siate, vi giunga un bacio di riconoscenza”.
Aggiungerei ancora il modellino della statua di Picasso che si trova a Chicago: un cavallo, sia pure stilizzato, è lì che si conclude l’avventura dell’auto dei Blues Brothers nel film di John Landis del 1980, inutile aggiungere che l’uso cui è destinato presso di me, nel mio plastico, è di semplice fermacarte, sotto il quale, almeno in questo momento, viene salvato dalle mani del vento un minuscolo foglietto che porta scritta una frase che di solito attribuiamo a Albert Camus, “Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire.”.
Ovviamente, il mio plastico è un’opera aperta, intanto però penso possano bastare queste righe che sono servite a presentarlo.
Auguri a tutti noi, auguri al mondo.


Gli ebrei anarchici
(e soprattutto le ebree)

di Furio Biagini

Per Emma Goldman, i diritti e la libertà dell’individuo dovevano essere al centro di ogni politica libertaria.

A bbiamo spesso narrato, anche sulle pagine di questa rivista, del movimento anarchico ebraico negli Stati Uniti, ma mai abbastanza del ruolo che le donne vi svolsero. Storiograficamente il contributo delle donne anarchiche ebree è stato associato al nome di Emma Goldman, anche se le sue posizioni ideologiche non coincisero con quelle della maggioranza delle sue compagne. Per la Goldman, i diritti e la libertà dell’individuo dovevano essere al centro di ogni politica libertaria, politica che non doveva invece dare priorità alle lotte per l’emancipazione dei lavoratori, come sostenevano le militanti delle organizzazioni anarchiche ebraiche.
La prima organizzazione anarchica ebraica dal significativo nome Pionire der Frayhayt (Pionieri della libertà) fu fondata nel 1886 dopo i fatti di Haymarket Square e la condanna di August Spies, Gorge Engel, Adolph Fisher, Louis Lingg, Samuel Fielden, Justus Schwab, Albert Parson e Oscar Neebe. Affiliata alla Associazione internazionale dei lavoratori, era formata da una decina di giovani giunti dalle remote regioni dell’impero zarista. Non si deve, infatti, dimenticare, che la nascita del movimento anarchico ebraico è indissolubilmente legata alla corrente migratoria proveniente dall’Europa dell’Est. Gli anarchici reclutarono principalmente nei quartieri popolati dagli ebrei immigrati, dove la povertà e lo sfruttamento erano la realtà quotidiana. Tra i vicoli spaventosamente sporchi e le case spesso ridotte in rovina non mancava una riserva illimitata di manodopera a buon mercato composta in prevalenza da donne e bambini. Nel nuovo mondo la donna ebrea portava con sé, unitamente al suo materasso di piume, ai candelieri e alle pentole, le sue doti orientate alla sopravvivenza, energia, robustezza, pragmatismo, indispensabili in Europa orientale per far sopravvivere se stessa e la propria famiglia. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, a cui del resto erano abituate, le emancipò dal controllo maschile e le mise in contatto con la dura realtà dei sweat-shop che significò supersfruttamento in locali insalubri, dall’alba al tramonto, in condizioni igieniche pessime e per un salario da fame. Emma Goldman, Rose Perotta, Marie Ganz, Mollie Steimer e molte altre avevano lavorato in quei terribili opifici.
All’interno dei popolosi rioni dell’East Side newyorkese, oltre a dare un efficace contributo alla organizzazione sindacale di un proletariato arretrato e indisciplinato, le donne furono particolarmente attive nei progetti educativi rivolti ai bambini e agli adulti, sul modello della Scuola Moderna di Ferrer, per favorire lo sviluppo delle singole potenzialità al fine di preparare i membri della futura società anarchica. Lo stesso «Di Fraye Arbeter Shtimme» (La libera voce del lavoro) ospitava una rubrica femminile, dove le donne potevano liberamente esprimersi, a cui dettero il loro contributo Anna Margolin, Fradel Shtok e Yente Serdatzky. Come ricorda Hadassa Kosak «le donne ebree anarchiche erano in prima fila nelle campagne organizzate dai gruppi di difesa delle libertà civili per limitare gli abusi del potere statale. Pauline Turkel organizzò una manifestazione al Madison Square Garden per conto di Tim Mooney e Billings Warren nel 1917. Perotta fu alla testa della campagna per la liberazione di Mooney dal carcere nel 1934. Molte altre le iniziative che videro la loro partecipazione, inclusa la campagna per l’amnistia per gli anarchici russi promossa dalla Anarchist Red Cross. Hilda Adel aiutò a fondare il Political Prisoners’ Defense and Relief Committee nel 1918 per aiutare i manifestanti che erano stati arrestati per essersi opposti all’intervento degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. Rose Pesotta, Emma Goldman, Rose Mirsky, e molte altre hanno lavorato instancabilmente per la difesa di Sacco e Vanzetti nel 1920».
La propaganda contro la prima guerra mondiale, la difesa della Rivoluzione russa e l’opposizione all’intervento americano contro la repubblica dei soviet, che trovò spazio sulle pagine di «Der shturm» (La tempesta) e di «Frayhayt» (Libertà), vide la partecipazione di Mary Abrams, Mollie Steimer, Hilda Adel, Clara Rotberg Larsen e Sonya Deanin.
Nel decennio compreso tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio del New Deal, il movimento anarchico ebraico andò lentamente indebolendosi, principalmente per la repressione poliziesca del governo, ma soprattutto per l’affermazione del comunismo sovietico che fece impallidire il prestigio rivoluzionario dell’anarchismo. Da quel momento la sua storia è quella dell’invecchiamento dei suoi militanti e della sua lenta perdita di influenza dovuta anche alla progressiva integrazione delle minoranze etniche nella società americana, sempre meno tentate dalle speranze rivoluzionarie e sempre più attirate dalla sicurezza e dal benessere economico. Tuttavia, piccoli gruppi anarchici con le loro pubblicazioni continuarono a sopravvivere fino agli anni settanta del secolo scorso, ma restarono marginali anche quando la lotta per la liberazione sessuale fece di Emma Goldman l’icona del movimento femminista.

dida p67: Emma Goldman


Anarchia
della comunicazione

di Gaia Raimondi

Il linguaggio, uno dei tanti strumenti della vastissima gamma comunicativa, ha un forte potere costruttivo.

N el mondo attuale la comunicazione è forse il più grande e complesso veicolo che l’essere umano possieda per poter interagire e plasmare la realtà. Proprio in virtù del suo potere Creativo – poiché quando pronuncio una parola nella mente dell’altro ne sto effettivamente creando un’immagine, associata ad un suono – facilmente arriva a trasformarsi in strumento di controllo e di dominio.
Grazie al potere poliedrico del linguaggio, grazie ai molteplici piani interpretativi su cui può rimbalzare un messaggio, modificandone il suo contenuto a seconda dell’intenzione dell’interlocutore, dell’interpretazione che l’ascoltatore ne dà e quindi dal piano in cui il messaggio approda, la comunicazione ha al contempo una vivida componente subliminale, per cui non esiste mai, o quasi mai, un solo significato per un messaggio trasmesso.
Preziosa risorsa la polifunzionalità, ma anche temibile arma a doppio taglio, con effetti disastrosi; il più grave fra tutti, più della menzogna, la facoltà appunto di assoggettazione e persuasione dell’altro.
Chi vuol vedere sorgere “il sol del qui e ora” e non dell’avvenir, dovrebbe dunque mettersi a ragionare e studiare anche questo aspetto fondante delle relazioni sociali, cercando di costruire ponti contro le insidie e le barriere comunicative conseguentemente culturali, perché il mondo della comunicazione è un prodotto culturale per eccellenza, che può essere utilizzato al fine di attuare una reale mutazione nella mente degli individui.
Il linguaggio, uno dei tanti strumenti della vastissima gamma comunicativa, ha un forte potere costruttivo; proprio perché funziona grazie ad un’astrazione condivisa di concetti e alla creazione di idee ad essi associate dovrebbe, se ben messo in funzione e se stemperato con i colori delle nostre utopie, far nascere altrettante pennellate, sprazzi di luce e di idee in chi ascolta, che ridiano vita al grigio piatto e impastato della lobotomia massmediatica insita nei cervelli del mondo, per gran parte dominati da mezzi e da linguaggi fuorvianti.
In altre parole, dobbiamo continuare a parlare dell’anarchia, a raccontarla, testimoniarla, renderla concetto pieno e ricco nell’immaginario collettivo perché il dominio, per annientarla subdolamente, tenta sempre di relegarla a mero contenitore di stereotipi, frammenti deviati, immagini distorte e ritagliate ad hoc per denigrare e sminuire un’idea esagerata di libertà.
Non a caso gli anarchici hanno subito storicamente una repressione pesante nella propaganda e nei molteplici progetti di comunicazione. Clandestinità per stampa sovversiva, arresti e conseguenti migrazioni, periodici italiani stampati all’estero, in gran segreto, ne sono stati un esempio. Perché la comunicazione, come l’anarchia, tesse rapporti, stimola e sprigiona emozioni, suscita idee e provoca strani sussulti che talvolta trovano risvolti inaspettati. Per questo bisogna alimentare un’anarchia della comunicazione che sappia farci esistere nel mondo, che ci racconti, che dia alle persone la possibilità di immaginarci, di chiedersi il perché delle nostre affermazioni, dei nostri desideri, reali, che renda il sogno utopia e l’utopia azione e creazione, che possa diffondere i nostri bacilli di mutazione culturale.
Un’anarchia della comunicazione si fa, fra l’altro, continuando a far vivere A-rivista, scrivendoci dentro le proprie idee, raccontando di esperienze vicine e lontane, rendendola scenario dei tanti mondi possibili che ci circondano, leggendola, regalandola o meglio ancora vendendola a squarciagola fuori dalle stazioni delle grandi metropoli, per far sobbalzare incuriosito chi sta correndo a prendere il suo treno dopo la schiavitù salariata e ci inceppa quasi per sbaglio, in questa bomba che non esplode ma che spalanca la mente a chi ignaro, fino al giorno prima, aveva continuato a correre senza A-rrivare.


Diritti sindacali
e strapotere delle Corporate

di Gianni?Alioti

È l’unica strada per frenare il potere crescente del capitale.

D agli anni ‘80 i sindacati in tutto il mondo sviluppato, hanno fatto i conti con il loro declino: riduzione della base associativa e del potere negoziale. Ciò ha indotto a parlare, forse troppo sbrigativamente, di fine del sindacalismo. Sarebbe stato giusto parlare di trasformazioni e “spiazzamento” del ruolo sindacale, per effetto della globalizzazione e dei cambiamenti nei sistemi di produzione e nella catena del valore.
Nel mondo globalizzato i capitali, le tecnologie, i prodotti e i servizi, sono liberi di muoversi attraverso le frontiere, al contrario delle persone. Siamo di fronte a un “capitalismo itinerante” che impone le regole del gioco. Sono le imprese transnazionali, le grandi reti di logistica e distribuzione commerciale a determinare i flussi degli investimenti e i luoghi di produzione e lavoro, mediante la sub-contrattazione dei fornitori, i processi di de-localizzazione e la “produzione parallela” su scala mondiale.
I Governi (compresi quelli comunisti) competono nell’offrire vantaggi agli investimenti delle imprese transnazionali. Quanto accade, ad esempio, in Cina, in Malesia o nelle “zone economiche speciali” disseminate, soprattutto, in Asia e nell’America centrale, ci riporta alle condizioni di sfruttamento del lavoro operaio conosciute nel XIX secolo: salari inferiori ai minimi vitali lavorando fino a 72 ore settimanali; straordinari obbligatori senza alcuna stabilità occupazionale; punizioni degradanti e nessuna tutela sindacale.
Nel mondo sono centinaia di milioni i lavoratori privi del diritto fondamentale alla libertà sindacale. Inoltre, mentre le imprese transnazionali sono attori globali, la forza lavoro – anche quando è organizzata sindacalmente – lo è su base nazionale o aziendale e la contrattazione collettiva di settore o impresa avviene dentro le frontiere nazionali. I sindacati e i rappresentanti dei lavoratori hanno, pertanto, uno scarso o inesistente controllo, e nessuna influenza sulle scelte internazionali delle imprese. Per di più, le costanti minacce di delocalizzazione, disinvestimento e ristrutturazione obbligano i sindacati a giocare in difesa e, spesso, ad accettare salari più bassi e orari di lavoro più lunghi in cambio di garanzie occupazionali.
John Kenneth Galbraith aveva intuito, sin dagli anni ’60, che le imprese transnazionali, in assenza di controlli, esercitano uno strapotere e che, pertanto, era necessario articolare istituzioni sociali che fossero in grado di controbilanciare il peso e il potenziale predominio delle Corporate.
La democrazia per essere effettiva, in una società caratterizzata dal pluralismo di interessi, ha bisogno di un contrappeso tra i poteri e ciò deve valere anche per le Corporate. Per frenare e controbilanciare questo potere, affinché non si arrivi agli eccessi della Foxconn in Cina e allo stritolamento dell’individuo, deve svilupparsi la cooperazione transnazionale dei sindacati. Del resto, sin dalle sue origini il movimento operaio si era appoggiato a un’idea di cooperazione e solidarietà internazionale. A maggior ragione, oggi, è un imperativo sviluppare reti sindacali mondiali nelle imprese transnazionali, promuovendo la solidarietà, coordinando azioni su scala globale, impedendo la concorrenza tra i lavoratori. È l’unica strada per frenare il crescente potere del capitale che, negli ultimi 30 anni, ha ridotto la quota del PIL destinata ai salari e aumentato la disuguaglianza dei redditi.


Piacere e libertà

di Gianni Mura

A differenza di molti personaggi di spicco, Veronelli non ha mai raccontato barzellette.

N on era previsto il microfono, quando a Massenzatico gli anarchici reggiani hanno scoperto una lapide in ricordo di Luigi Veronelli, Gino per gli amici, e cadeva una pioggia leggera. Ma c’era abbastanza gente, le solite belle facce che già avevo visto a Gualtieri. Allora s’intitolava a Veronelli la saletta di una trattoria-osteria specializzata in uva fogarina. Le facce le avevo già viste, non tutte uguali ma simili, ai funerali di Gino, a Bergamo. E mi sono chiesto, a Massenzatico e anche dopo, se il ricordo di Gino fosse una particolarità di un pezzo d’Emilia più tenace oppure meno smemorato. Tanto per dire, perché non gli dedica una strada Milano, dov’è nato, o Bergamo, dove ha vissuto gran parte della sua vita?
Pioggia leggera, niente microfono e le parole dei relatori (meglio: amici) talvolta erano coperte dal rumore di grossi trattori che trainavano carri colmi di cassette d’uva. Bellissimo, ho pensato, questo sovrapporsi della vendemmia a Gino sarebbe piaciuto più di una sinfonia di Dvorak. Era la terra a stabilire le precedenze. Per lui, che aveva definito la vigna il canto della terra verso il cielo, i conti tornavano.
Bella e asciutta, ossia di poche parole, la lapide in marmo bianco di Carrara. Insegnò al mondo il piacere della libertà e la libertà del piacere. Libero, libertario e libertino Veronelli lo è stato davvero, e questa è la risposta alle domande che mi facevo sul pezzo d’Emilia, su Milano e Bergamo. In questo mondo, o meglio in questa palude che è diventata l’Italia, libertà è una parola che fa paura, a maggior ragione se inflazionata da chi ha il potere, che addirittura l’ha inserita nella sigla del partito. Piacere è una parola che dà fastidio. Le due parole collegate sono estremamente pericolose, se non sovversive. Ergo: niente vie da dedicare ai sovversivi, e bei tempi quando si poteva dare il foglio di via.
A differenza di molti personaggi di spicco, Veronelli non ha mai raccontato barzellette. Sono contento che sia morto prima di vedere (anzi, di sentire, perché era quasi cieco) lo sbando, lo smottamento, lo sprofondo. Se n’è andato col cruccio di non aver tradotto Apollinaire. Rimpiango il suo spessore umano, non la sua morte. E penso che un giorno, chissà quando, qualcuno si occuperà di restituire a Veronelli quello che gli spetta: la qualifica di intellettuale a pieno titolo, di artigiano del pensiero, al di là del lavoro (pure importantissimo) svolto nel campo del mangiare e bere, che sono una parte non esigua della nostra vita e strettamente connesse alla storia, all’economia, all’etica, all’ecosistema. “Luisin distingue gli angeli al primo batter di piume” scrisse Gianni Brera. Sì, aggiungo, ma in un paese che non riesce a distinguere i giganti nemmeno guardando le impronte che lasciano.

dida p71: Luigi Veronelli


Indipendentismi
e anarchismi

di Gianni?Sartori

La maggiore capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante di strumentalizzare i movimenti di liberazione

C onsidero l’indipendentismo uno degli sbocchi possibili delle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. Possibile, non inevitabile o necessario. Ritengo inoltre che si possa parlare legittimamente di “movimento di liberazione” quando la lotta va anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione coloniale (capitalismo, imperialismo, neoliberismo, capitalismo di stato...). E questo esclude automaticamente dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, i nostalgici fiamminghi neonazisti o la Lega Nord. Esclude anche il caso del Katanga degli anni Sessanta o di Santa Cruz nell’odierna Bolivia.
Per quanto riguarda la possibilità di un rapporto organico, “fisiologico”, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, personalmente sono sempre stato scettico. E questo nonostante i “casi della vita” mi abbiano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altre “nazioni senza stato”, in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”. Tuttavia la Storia ha registrato lotte comuni contro il franchismo, contro l’imperialismo, contro il nucleare, in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri.
Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra. Vedi in Catalogna i rapporti del MIL di Puig Antich e Oriol Solé con l’OLLA (Organitzaciò de La Lluita Armada) e il caso, tragico ed emblematico, di Monteagudo: dalla FAI a Terra Lliure, all’Eta.
Qualche esempio, alla rinfusa.
Il patriota italiano Carlo Pisacane era un seguace di Pierre-Joseph Proudhon e sua figlia intervenne a favore degli anarchici arrestati per i moti insurrezionali del Matese (1877).
In Ucraina Nestor Makhno è diventato un eroe nazionale per aver combattuto, oltre che contro i reazionari “bianchi”, contro gli invasori austro-tedeschi e i bolscevichi, visti come espressione dell’occupazione russa.
Lo scultore anarchico basco Felix Likiniano fu l’ideatore del “Bietan Jarrai”, il serpente attorcigliato all’ascia, simbolo di Euskadi Ta Askatasuna, come raccontava l’etarra José Manuel Pagoaga (“Felix Likiniano, miliziano de la Utopia”). Alla fine degli anni settanta in Euskal Herria era presente un gruppo indipendentista libertario denominato “Askatasuna” (Libertà). In seguito, secondo José Antonio Egido “alcuni si sarebbero integrati in Herri Batasuna”.
Nei movimenti indipendentisti catalani degli anni ottanta (Moviment d’esquerra nacionalista, Crida a la Solidaritat...) le istanze libertarie erano presenti. Forse perché, come spiegava Carles Riera, parecchi militanti erano figli o nipoti di cenetisti e faisti. La scrittrice di origini catalane Eva Forest, incarcerata e torturata dopo l’attentato a Carrero Blanco, ha collaborato senza problemi, lei libertaria e figlia di un militante della FAI, con i movimenti indipendentisti baschi. Qualche modesto segnale anche in Irlanda. Nel programma politico di un gruppo repubblicano dissidente (v. Ruadhri O’Bradaigh) si parlava esplicitamente dei consigli operai come modello di liberazione citando Kronstadt (quella del 1921). In Bretagna poi c’erano gli anarchici-nazionalisti della CBIL (Coordination pour une Bretagne indépendante et libertaire).
Conclusioni? Negli ultimi anni ho dovuto prendere atto di alcuni cambiamenti. In particolare, la sempre maggiore capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il vecchio “imperialismo fase suprema” etc. etc.) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo è un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’indipendentismo ormai è diventato una variabile che si usa o si getta a seconda del caso. Come in Kossovo, Bosnia, Kurdistan, Timor Est, forse anche Irlanda....


Con “A” gli anarchici
son tornati a Lugano

di Gianpiero Bottinelli ed Edy Zarro

Si tornava entusiasti da Milano con i numeri di A-Rivista, dal taglio giovanile e con stimolanti riflessioni.

U na domenica di dicembre del 1973 una cinquantina di giovani si ritrovarono in un esercizio pubblico di Lugano, nei pressi del fiume Cassarate. Il passaparola e volantini diffusi in Ticino (allora non c’erano né telefonini, né internet né social network) invitavano a un incontro anarchico. Dopo una discussione di un paio d’ore fu fondata l’Organizzazione anarchica ticinese, OAT, di fatto una unione che riuniva individualità e gruppi già attivi sull’onda della contestazione del ‘68. Il movimento anarchico “organizzato” nella Svizzera italiana riprendeva vivacemente, dopo quasi tre decenni di vuoto.
Infatti, rari erano i compagni delle due generazioni precedenti rimasti in Ticino: Carlo Vanza, Antonietta Peretti, Clelia Dotta... e nonostante le buone relazioni, sussistevano reciproche diffidenze tra i “giovani capelloni” e la “vecchia guardia”.
Altri contatti proficui di quegli anni, ma irregolari, erano rivolti fuori cantone, in particolare con il CIRA di Losanna e con alcuni compagni giovani ed anziani di Ginevra.
Ma privilegiate erano l’Italia, per motivi di idioma, e Milano, per motivi di vicinanza: si approfondirono quindi i contatti con “quelli della Rivista” e la libreria Utopia.
Si tornava entusiasti da Milano con i numeri di A-Rivista, dal taglio giovanile e con stimolanti riflessioni, Umanità Nova e Volontà, dall’aspetto un po’ vecchiotto, con volantini, libri e i fascicoletti dei mitici “pacchi propaganda” di Franco Leggio. Si allestivano banchetti nelle piazze ticinesi per diffondere l’idea anarchica, si partecipava alle diverse iniziative locali della sinistra extraparlamentare. Ma lo stimolo e l’aiuto dei contatti con i “milanesi” non si fermò lì: l’OAT iniziò nel 1975 la pubblicazione di Azione Diretta, “mensile di propaganda anarchica”, cessata dopo 12 anni, nel 1987.
Nel 1976, in occasione dei preparativi per i festeggiamenti del centenario della morte di Bakunin, incontro svoltosi a Zurigo, si approfondirono i contatti con i gruppi anarchici e libertari svizzeri. E si conobbero altri compagni italiani della FAI come Umberto Marzocchi (presente come relatore) e Alfonso Nicolazzi.
Due anni dopo, venne fondata la casa editrice La Baronata di Lugano, che da oltre trent‘anni continua a diffondere pubblicistica anarchica e libertaria.
Le attività, terminata l’esperienza dell’OAT, sono proseguite con altre iniziative come il Circolo Carlo Vanza di Locarno, nato nel 1986, che – oltre alla fornita biblioteca – propone annualmente una decina di incontri culturali.
Ma gli stimoli non hanno viaggiato solo in direzione sud-nord, dal Ticino sono giunte le spinte a utilizzare internet per far conoscere le idee libertarie, e da parecchi anni la versione online della rivista è ospitata sul server svizzero di anarca-bolo.ch.
Nel nuovo millennio, una nuova generazione – tra cui attivisti del Molino, il centro sociale autonomo di Lugano – ha iniziato la pubblicazione del trimestrale LiberAzione (2003-2006). Poi, con l’allargamento della redazione a un gruppo di compagni (delle due generazioni), ma in diretta ed esplicita continuità, dal 2007 la testata diventa Voce libertaria, “periodico anarchico”, trimestrale sempre in attività.
Insomma le premesse per il proseguimento delle attività anarchiche e libertarie nella Svizzera italiana sembrano esserci ancora. E una mano sicuramente la diedero quella rivista e quei compagni e compagne con cui eravamo entrati in sintonia all’inizio degli anni Settanta.

Due che c’erano, ci sono e sperano di esserci... ancora per un po’


Attualità di Luce Fabbri

di Gianpiero Landi

Pur non approdando mai a una concezione compiutamente e integralmente nonviolenta, ci arriva molto vicina.

L uce Fabbri rappresenta sicuramente una delle figure più affascinanti del pensiero politico libertario del Novecento. Intellettuale coltissima, ha lasciato un’impronta profonda – e una eredità culturale ed etica di cui forse non è stata recepita ancora del tutto l’importanza – sia nel campo della teoria politica che in quello della educazione e della formazione delle giovani generazioni. Sotto diversi profili Luce Fabbri rappresenta l’anello di congiunzione fra l’anarchismo classico e quello contemporaneo.
Figlia, come è noto, del militante e intellettuale anarchico Luigi Fabbri, a partire dal 1929 si stabilì con i genitori – esuli antifascisti – in Uruguay, dove trascorse poi il resto della sua esistenza. Docente di Storia nelle scuole medie superiori e poi – per oltre quarant’anni – di Letteratura Italiana all’Università di Montevideo, dopo la morte del padre diresse dal 1935 al 1946 la rivista “Studi Sociali”. Pubblicò inoltre numerosi libri e opuscoli sia in italiano che in spagnolo – di storia, filosofia politica, critica letteraria, poesia –, nonché innumerevoli articoli in giornali e riviste di vari paesi.
Fin dall’infanzia ricevette in famiglia un’educazione improntata a ideali solidaristici e antiautoritari, che fece convintamente suoi e che seppe poi trasmettere a sua volta sia nell’ambito degli affetti privati e delle relazioni interpersonali, sia nella sua attività di insegnante. Erede della migliore e più qualificata tradizione libertaria, dimostrò di possedere una personalità di notevolissimo spessore, dotata di grande curiosità intellettuale e fino all’ultimo aperta a tutte le novità.
Non è questa la sede per ricostruire, sia pure in modo fortemente sintetico, la sua vita e la sua produzione intellettuale. Difficile sarebbe anche presentare, in poco spazio, tutti i motivi di interesse e gli spunti di riflessione presenti nei suoi scritti. Mi limiterò ad accennarne due o tre, che hanno avuto particolare importanza per la mia formazione personale, senza peraltro neppure tentare di svilupparli in modo adeguato.
Anzitutto la riflessione sulla democrazia. Per Luce, l’anarchismo si colloca “oltre” la democrazia, “più avanti” ma su uno stesso percorso. Ci sono circostanze in cui, di fronte al pericolo totalitario, l’anarchico deve impegnarsi a difendere la democrazia, salvaguardando quegli spazi di libertà – certo limitati e imperfetti – che essa comunque garantisce. Il totalitarismo è un nemico da combattere con tutti i mezzi e da abbattere. La democrazia la si può solo criticare nelle sue insufficienze, per poterla radicalizzare e superare.
Legata in certo modo a questa riflessione vi è l’analisi del totalitarismo, di cui Luce è stata una delle prime in assoluto ad occuparsi nei suoi studi, fin dagli anni Trenta, anticipando per certi aspetti teorici della politica come Hannah Arendt.
Un altro tema di grande rilevanza è quello della violenza. A Luce essa ripugna, e ne vede con lucidità i rischi autoritari anche quando si tratti di “violenza rivoluzionaria” degli oppressi. Su tale questione riflette a lungo e in modo sofferto. Alla fine, pur non approdando mai a una concezione compiutamente e integralmente nonviolenta, ci arriva molto vicina. La sua testa non ha mai cessato di ragionare, fino agli ultimi giorni, ma nel suo caso alla lucidità di una mente superiore si è sempre unito anche un grande cuore, incapace di restare indifferente davanti all’ingiustizia e alla sofferenza. Anche per questo la sua memoria ci è così cara.

Dida p75: Luce Fabbri


Una sostanziale
coerenza ideale

di Gianpietro “Nico” Berti

“A” è la fonte più completa per la ricostruzione della vita anarchica italiana degli ultimi trent’anni del Novecento.

Tre sono state le fasi della storia dell’anarchismo. La prima va dalla sua nascita alla prima guerra mondiale, la seconda si situa nel periodo dei totalitarismi, la terza coincide con gli ultimi sessant’anni. Nella prima fase l’anarchismo si muove entro il mondo operaio e socialista, nella seconda – soprattutto a seguito della contrapposizione con il movimento comunista – subisce un forte ridimensionamento politico, nella terza, infine, perde via via quasi tutti gli originari caratteri popolari, come dimostra la sua parziale rigenerazione in chiave libertaria ed esistenziale attuatasi alla fine degli anni Sessanta. La storia dell’anarchismo italiano degli ultimi cinquant’anni – come, del resto, quello europeo – coincide con quest’ultimo stadio e tutte le sue manifestazioni politiche, culturali, sociali, ecc., ne costituiscono le interne determinazioni. Tra queste, naturalmente, c’è anche “A. Rivista anarchica”.
La storia di “A. Rivista anarchica” può, a sua volta, essere suddivisa in tre periodi. Il primo copre gli anni Settanta, il secondo gli anni Ottanta, il terzo gli anni Novanta fino ai giorni nostri. Gli anni Settanta sono segnati dallo sforzo di rivitalizzare e riattualizzare il nucleo teorico anarchico più autentico. Gli anni Ottanta si caratterizzano per l’apertura di questo nucleo a tematiche non referenziali dal punto di vista ideologico. Gli anni Novanta vedono un ulteriore aprirsi alle rivisitazioni libertarie emerse nei due decenni precedenti. In ognuno di questi passaggi, la rivista ha mantenuto una linea comunicativa sostanzialmente coerente, nel senso che ha sempre conservato un carattere di medietà, vale a dire che essa non si è presentata come luogo di specifica riflessione teoretica tranne per il primissimo periodo), né come luogo di divulgazione “immediatamente” militante, ma, appunto, come linea di mezzo fra le due polarità. Questo carattere l’ha posta in una posizione centrale, nel senso che essa ha riflesso complessivamente il travaglio e il problemi sia dell’anarchismo inteso come specifico movimento militante, sia dell’anarchismo inteso come generale riflessione teorica e ideologica non univocamente legata alla militanza.
In conclusione, attraverso questo osservatorio privilegiato la lettura di “A” ci permette di seguire l’evolversi del processo generale dell’anarchismo italiano degli ultimi trent’anni in tutte le sue molteplici manifestazioni: lo storico di domani troverà certamente in “A” la fonte più completa per la ricostruzione della vita anarchica italiana degli ultimi trent’anni del Novecento.
Naturalmente non è possibile entrare nel merito delle innumerevoli questioni poste e affrontate dalla rivista nel corso della sua quarantennale esistenza. Possiamo, tuttavia, sottolineare alcuni problemi riguardanti il significato dei passaggi accennati sopra.
Il primo è quello relativo alla mutazione avvenuta tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Si tratta del passaggio più importante perché indica il senso della preservazione dell’identità anarchica. L’anarchismo non è più presentato come un blocco ideologico che critica e giudica la realtà esterna, ma come un discorso articolato che si confronta con altre realtà libertarie non ideologicamente conformi alla tradizione “ortodossa”. La conferma di questa trasformazione è data dal sostanziale abbandono – o, se vogliamo, dalla forte riduzione – delle tematiche presenti nel decennio precedente. La contrapposizione tutta politica e tutta ideologica fra Stato e anarchia – che negli anni Settanta si alimentava anche del clima (orrendo) rappresentato dal terrorismo e dalla lotta armata – si stempera in contrapposizioni più diversificate: l’ecologia, il femminismo, la pedagogia alternativa, le esperienze comunitarie, l’irriducibilità dei vari problemi personali.
Questo frantumarsi dell’ideologia in molteplici rivoli si amplia ancor più negli anni Novanta, cioè nel decennio che vede lo sbandamento generale della sinistra a seguito del crollo del comunismo. L’evento non può non coinvolgere anche “A” perché la sua contrapposizione radicale con l’ideologia del “socialismo reale” non annulla il fatto che essa, come tutto l’anarchismo europeo, si situa pur sempre nell’alveo storico della sinistra. Vi è quindi un contraccolpo indiretto che si rinviene in una maggiore presenza dei temi esistenziali.
Il fatto più notevole ravvisabile nella storia quarantennale della rivista rimane comunque quello della sua sostanziale coerenza ideale.


Perché l’Italia mi fa schifo

di Giorgio Barberis

Non tutto è perduto, comunque vale la pena di lottare.

P artiamo dall’inizio, ossia dal titolo di questa breve riflessione. Eccessivo? Provocatorio? Forse. Ma io mi ci ritrovo molto. E non credo di essere il solo.
Difficile prefigurare uno scenario più cupo. Difficile anche scegliere su quale meschinità focalizzare l’attenzione, essendo il catalogo praticamente infinito. Vogliamo parlare di Cossiga, celebrato apologeta del massacro di piazza, defunto con il suo piccone e i suoi misteri, o ci soffermiamo invece sugli intricati passaggi dell’eterna crisi di governo? Sulle case di Montecarlo dei cosiddetti moralizzatori oppure sui puerili giochi estivi di quei monellacci che costituiscono lo stato maggiore della Lega Nord? Un Paese davvero strano, il nostro.
Per giorni e giorni fiumi di inchiostro stigmatizzano il lancio di un fumogeno verso un leader sindacale, in quella che una volta si concepiva come la festa dei lavoratori. Ma in pochi si interrogano sulle ragioni profonde di questo gesto. E ancora di meno sono coloro che si stupiscono nel vedere quella stessa festa presidiata da centinaia di questurini. Intanto fa proseliti la dottrina Marchionne, il nuovo profeta della devastazione sociale, che distrugge in un lampo diritti guadagnati con decenni di lotte, e per giunta ha la sfacciataggine di invocare “la fine del conflitto tra padroni e operai”. Facile dirlo per chi guadagna almeno cinquecento volte di più di chi sta in basso, e magari si sente pure in dovere di ringraziare per le poche briciole che gli arrivano. Un quaquaraquà che per ventura siede in parlamento, fedele pasdaran del berlusconismo, arriva a dire che è del tutto lecito prostituirsi per la carriera politica. Mentre il sultano satireggia indisturbato, con buona pace di una destra che sa essere ora bigotta, quando si tratta di difendere i sacri valori della famiglia tradizionale, ora libertina, quando invece sono in questione i privilegi di un Potere, più che mai al di sopra di tutto. E noi libertari sotto scacco con che diritto osiamo protestare, visto che la libertà dell’individuo è principio indiscutibile? Siamo forse diventati dei moralisti? E dunque eccoci servita la peggiore delle mignottocrazie, con l’avvallo di un conformismo trasgressivo di massa, e la graduale riduzione all’afasia di chi ancora è capace di una qualche forma di pensiero critico. Del resto, i pochi che cercano di fare qualcosa nella direzione giusta vengono rapidamente tolti di mezzo, come è accaduto al sindaco di Pollica, e come temo accadrà in futuro a molte persone di buona volontà.
Con spazi sempre più ridotti per una politica diversa, presa a schiaffi da turbobipolarismi mediatici, dalla ricerca di salvifici uomini del destino, dal gossip e dalle bassezze di una stampa incline a solleticare i pruriti piccolo-borghesi di un pubblico annoiato. Mentre si riapre la caccia al Rom, le camicie verdi non si curano nemmeno più di velare il loro stomachevole razzismo, e quasi nessuno ha la forza o lo spazio per dire che gli eccessi securitari sono sempre controproducenti, che le abissali ineguaglianze che ci tolgono dignità e respiro non sono affatto un dato naturale, e che, come spesso amo ricordare citando Balzac, la rassegnazione è un suicidio quotidiano.
Si scorge, qua e là, solo qualche piccolo pertugio. Qualche brandello di libero pensiero e di azione autenticamente solidale, segno che non tutto è perduto. Che comunque vale la pena lottare. Teniamoci ben stretto l’urlo, lo sdegno, la ricerca di una condivisione piena, il bisogno di trovare un senso, insieme agli altri; insieme a tutte/i coloro che hanno dentro la stessa inesauribile sete di giustizia e verità. L’espatrio non è mica l’unica via che ci è rimasta!


Fabrizio i leskero ovi rom

ot Giorgio Bezzecchi

P rengjargjum Fabrizio po jek dive silalo i suslo, sar vajk andu Milano, angle ot Camera del Lavoro, po stighe kaj pe gjal andre.
Hine urado kun roba ot sena, jek roba kali i retikani, i civlepe sukar vasu keri slike, vasu “Anime salve”. hari ala i hari tempo,phenu ke lako keru,po romane “khorakhane”. Gjav nasat po ufficio kun gagjo so keri manza buti, Maurizio Pagani, kaj alo manza i pheni manghe ke hilo sukar kaj ov vakeri vasu roma.
Andu ufficio citinu lil so pisini po romane, i vale sunu giso, suno buth ricja, tinanupe. Posle savo dive jku pal Fabrizio andu leskero studjo, sukar vakeri manza, lacjo gagjo, vakeri sukar vasu roma, prengjari romen, vakeri vasu roma sar jek cjacjo rom, sar na sungjum vakeri vasu roma nindar ot kada keru buti sar Esperto di Etnie Nomadi. Gjav avri i sunupe sar ti vakergjum kun jek baro rom, ke na sungjum nindar, ma so phurane manghe da tiknoro vekerne.
Fabrizio hine prjatli ot roma i ot kon hine pase lende ot dugo.kame mislini kaj po svecer po presentazjone ot “Anime salve”, Fabrizio kangja mande i Maurizio Pagani po hal svecer kaj hine buth importanti gene. Meni i Maurizio, sakon po rici so murinle keri vasu “Khorakhane” , besame po jek rik i misliname samo vasu hal i pii, gage po mende jkene buth, Fabrizio i Dori prastene vajk gi mende, ame hame i na jkame po gage. Fabrizio hine gjoke, skivo, mislinave meni, saj su dova leske injeme milo,na pe kerame phare. Hine jek rici ke kerame samo me i Fabrizio, persu Maurizio, kada pe alacjame vasu keri po romane “Khorakhane”, pjame lace.
I onda na ascjovave leske palan........

Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a me

Fabrizio e il suo essere rom
Ho conosciuto Fabrizio in una giornata fredda e umida, come è frequente a Milano,di fronte alla Camera del lavoro,sulla gradinata d’ingresso.
Era vestito con abiti di scena, un vestito scuro e formale, intento ad assumere posture adatte per la produzione di fotografie, probabilmente, per “Anime Salve”. Poco tempo e poche parole, confermo la mia disponibilità per l’incarico proposto, tradurrò in romani chib la sua canzone,”Khorakhane”. Rientro in ufficio con il mio collega, Maurizio Pagani, che mi ha accompagnato e ha partecipato all’incontro con Fabrizio, che mi evidenzia l’importanza dell’attenzione dimostrata per il popolo stigmatizzato, i rom, da parte di Fabrizio.
In ufficio leggo il testo da tradurre e subito “sento”uscire dal testo una forza e una rabbia particolare, un’attenzione nelle parole unica, sofferenza e apartheid aleggiano nell’aria, sensazioni e pulsioni mi fanno rabbrividire. Dopo pochi giorni rivedo Fabrizio nel suo studio, ha nei miei confronti un attenzione particolare, mi “vizia”e parla dei rom con cognizione di causa, conosce in modo approfondito i rom, mi accorgo di avere di fronte un pozzo di cultura e mi sento trascinare in una discussione sui rom ad un livello da me mai percepito nella mia lunga attività professionale di Esperto di etnie nomadi. Esco dall’incontro con la sensazione di aver discusso con un baro rom, un saggio, che non ho mai avuto il piacere di incontrare, di cui gli anziani rom mi parlavano da bambino.
Fabrizio era un amico dei Rom, ma anche di chi stava da molto tempo vicino a loro.Voglio ricordare che la sera della presentazione a Milano di “Anime salve”, Fabrizio invitò me e Maurizio Pagani ad una cena a cui erano presenti molte personalità del mondo della cultura e della musica. Io e Maurizio, che avevamo seguito ognuno per la propria parte l’incarico che Fabrizio mi diede per la traduzione di “Khorakhanè”, sedevamo in disparte dedicandoci in verità più al cibo e alle bevande depositate sulla tavola che agli sguardi furtivi che scivolavano da un tavolo all’altro. Fabrizio e così anche Dori, più di una volta si sedettero a conversare con noi al nostro tavolo e così, ben presto, ci trovammo, nostro malgrado, al centro dell’attenzione generale, senza per questo tralasciare l’impegno verso gli squisiti piatti che seguitavano ad essere depositati davanti a noi.
Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a me e forse per questo si era in un qualche modo avvicinato a noi due che non cercavamo d’imporre la nostra presenza un po’, come allora, capitava a tutti i rom. C’era una cosa che tuttavia accomunava solo me e Fabrizio e non Maurizio, nei lunghi incontri e nelle chiacchierate che precedevano o seguivano le richieste di traduzione di Khorakhanè o di conoscenza del ”mio” mondo ovvero, le dolci bevute.
E a quel tempo nemmeno io rimanevo indietro…

(traduzione dal romanès di Giorgio Bezzecchi)


«Mussolini è un bucaiolo che manda la gente a letto senza cena...»*

di Giorgio Sacchetti

Si pensi all’essenza profonda dell’antifascismo anarchico definita da Errico Malatesta.

D all’antifascismo popolare esistenziale a quello di azione, dall’antagonismo sociale alla rete cospirativa, alle culture ed alle sociabilità libertarie, oltre il carcere, l’esilio, il confino e le persecuzioni: gli anarchici italiani hanno combattuto la trentennale guerra civile europea da postazioni di prima fila. “Insuscettibili di ravvedimento” per dirla con il bel titolo della biografia di Alfonso Failla; protagonisti di imprese disperate e condivise con Gino Lucetti, Michele Schirru e Angelo Sbardellotto; fra i primi ad accorrere in armi nella Spagna del ’36, per partecipare all’ultima Rivoluzione. Arditi del Popolo nel 1921-’22 e partigiani nel 1943-’45: sono due esperienze di lotta armata dagli opposti esiti in parte assimilabili per matrice ideale; un filone comune di ispirazione risorgimentale / insurrezionale / combattentistico funge ogni volta da contenitore per una pluralità di componenti sociali e politiche; di queste gli anarchici sono parte, una fra tante, autonoma originale e, nel primo caso, determinante.
E c’è anche un prezioso contributo teorico da preservare, un originale punto di vista interpretativo sui fascismi delineato in tempo reale. Ben oltre l’incredibile duratura fortuna storiografica della concetto di “Controrivoluzione preventiva” coniato da Luigi Fabbri. Si pensi all’essenza profonda dell’antifascismo anarchico definita da Errico Malatesta («Umanità Nova», 8 settembre 1921, Guerra civile):

“…Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti…”

Si pensi all’apporto di quel filone storiografico libertario che solo di recente si è potuto valorizzare. Ad esempio il “Mussolini in camicia” di Armando Borghi (“Mussolini Red and Black”) era stato uno dei pochi libri attraverso i quali l’altra Italia, quella di minoranza, aveva potuto farsi conoscere negli Stati Uniti. Era stato un modo per aprire gli occhi ad una comunità che ormai aveva rimosso significati e memoria della vicenda Sacco e Vanzetti; un libro sugli stati d’animo del “popolo deportato”, ossia degli italiani che si avviavano a diventare post-fascisti. Anche le analisi di Camillo Berneri e, più tardi, di Pier Carlo Masini, studiosi militanti e testimoni eccellenti della loro epoca, sono ascrivibili al medesimo canone interpretativo. Le loro elaborazioni si accomunano per l’originale approccio multidisciplinare, per un tentativo di comprendere la personalità del dittatore fuori dagli schemi angusti ed esclusivi delle categorie ideologiche (l’intuizione psicologica berneriana ne è una riprova evidente).

* Prefettura di Firenze, gennaio 1942, causale provvedimento ammonizione a carico di Cesare Parenti, bracciante anarchico, nato nel 1887 a Brozzi (Toscana), ivi residente. Fonte ACS, CPC, busta 3731.


Radio libere e logiche di mercato

di Giucas falchetto – Patchinko (Radio Bandita)

La breve stagione delle radio libere terminò con il loro progressivo adeguarsi alle logiche di mercato.

Pochi fenomeni testimoniano la voglia di emancipazione di un’intera generazione come l’esplosione delle radio libere degli anni 70. Attrezzature minime, la propria voce e qualche disco bastavano allora per trasmettere, su una base territoriale limitata spesso al proprio quartiere o condominio, in assoluta libertà. Poter comunicare senza mediazioni, scegliere autonomamente le proprie fonti d’informazione, dopo decenni di monopolio statale, fu una rivoluzione copernicana che nel giro di pochissimo tempo cambiò il volto dei mezzi di comunicazione. I tentativi da parte del Governo di limitare i danni, cercando invano di sequestrare le prime emittenti, si scontrarono con una legislazione imprecisa e carente, nella quale non era difficile trovare scappatoie. Fu all’accusa di istigazione al terrorismo che si dovette ricorrere, nel 1977 per chiudere, manu militari, la bolognese Radio Alice, forse la più libera (e quindi pericolosa) delle radio libere: nessuna redazione, nessuna limitazione a ciò che si poteva dire o fare in onda.
La breve stagione delle radio libere tuttavia terminò con il loro progressivo adeguarsi alle logiche di mercato. Investitori privati intuirono il potenziale del nuovo soggetto e le radio libere divennero “radio private”. Nel giro di pochi anni un solo gruppo industriale (la Fininvest di Berlusconi, ça va sans dire) divenne padrone incontrastato di un vero e proprio oligopolio radiotelevisivo. La legge Mammì del 1990 sancì questa situazione, imponendo regole pensate su misura delle ormai grandi radio private, che si lanciarono all’accaparramento delle frequenze. Oggi non è più possibile dare vita ad un’emittente radiofonica via etere senza disporre di grandi capitali, a meno di non occupare illegalmente una frequenza. Alcune di quelle storiche esperienze hanno resistito e continuano a trasmettere, per esempio Radio Popolare a Milano, Radio Onda d’Urto a Brescia , Radio Onda Rossa a Roma ecc.
Fu la comunità hacker e dei mediattivisti a rendersi conto che l’esperienza delle radio libere poteva proseguire attraverso internet. Per dar vita a una Web Radio bastano un PC e una cuffia con microfono, una normale connessione internet e qualche conoscenza tecnica. Il vantaggio rispetto al passato è la possibilità di essere ascoltati anche dall’altra parte del mondo, anche se il numero di contatti è limitato alla banda disponibile e l’uso del PC non è diffuso come quello della radio tradizionale. In Italia la prima è Radio Cybernet da Catania, nel 1997, seguita da lì a poco da molte altre esperienze spontanee e dalle prime radio commerciali.
Ma è dopo le contestazioni di Seattle e poi di Genova (radio GAP) che il fenomeno si allarga; che si trattasse di collettivi libertari, come nel caso di Radio Bandita, di agitatori culturali (S8 Radio, Radio Owatta) o ancora di esperienze estemporanee, personali e naif erano le radio libere del nuovo millennio.


Ho un sogno

di Lalli

Questi ultimi anni mi sembrano un unico giorno ombra.

28 agosto 1963
Pezzi di carta che volano,
scatolette vuote,
un foglio,
con annotato qualche verso di una canzone,
sollevato, insieme alla polvere,
dal vento tiepido dell’imbrunire,
una cannuccia, un pane,
un fazzoletto ricamato,
nient’altro,
di quel mare di persone,
che si è fermato lì,
per ascoltare l’uomo che li aveva chiamati
per raccontare un sogno,
“… Sedersi alla stessa tavola,
e mangiare, tutti insieme …”,
proprio come su quel mare d’erba, quel giorno
Dove sono andati tutti i fiori,
gli occhiali, i cappelli,
le camicie sudate,
le gonne stazzonate,
le scarpe scolorite,
le suole consumate,
le divise stracciate,
le voci, le canzoni.
Io, bambina,
corro a comprare il libro,
i calzini corti,
il caldo che mi scoppia sulla faccia.
Avevo undici anni e mi sedevo lì in cima, in un punto preciso sulla “riva”, a guardare le luci di Asti che la brezza del tempo di vendemmia e l’avvicinarsi della notte facevano brillare, brillare, e poi più niente, e poi di nuovo. Luci in pena, come me, che mi sembravano un filo di perle al collo dell’orizzonte.
A Torino, tempo diverso, tempo di pressanza industriale.
Un pomeriggio si catapulta nella I A un ragazzo, capelli biondastri e mani da pianista, bello come il sole. Dice di uscire, ché la scuola è occupata, è stato deciso dall’assemblea del mattino, collettivi permanenti.
Finalmente! La città si colora e comincia a scorrere col fiume. Viali e corsi immensi da conoscere, nel freddo e nel sole, dove camminare con tutti i fratelli e le sorelle del mondo. Ecco, una mancanza in meno, una città più rotonda, come una collina, e verderossiccia, come i colori che a casa mi piacciono di più, quelli dell’autunno.
Una marea lenta e forte, un silenzio a salire verso i giorni, una marea sorridente e potente che ti prende il cuore e la commozione degli occhi, con i passi lì in mezzo alla strada e la testa e il corpo già tutti nel futuro vicino. “Ci troviamo ora di fronte al fatto che domani è già oggi...”
Ho impiegato anni ad imparare a camminare di nuovo sui marciapiedi.
Poi, la musica. Cantare, di me e di un paese divenuto invisibile, muto e sperduto. Ecco, un’altra mancanza in meno, suoni, parole e poetiche a soffiare fra i denti, a danzare nelle piazze, strade, bar, teatri, centri sociali, circoli arci, bocciofile, università, per la Palestina e la ex Jugoslavia, contro il razzismo, le torture, la pena di morte, per acquistare carrozzelle, adottare un bambino a distanza, e via e via. Ma è il posto del cantare, quel solo posto dentro, dove mi sento davvero libera e a casa, il paese al quale tornare senza solchi da attraversare.
Questi ultimi anni mi sembrano un unico giorno ombra e, ciò nonostante, un lungo giorno aquila, che ci accompagna ancora a cercare casa, lavoro, amore.
I presidenti, i politici, pensano che la terra, gli animali e le persone siano di loro proprietà, ma le nostre anime sono vigili e aperte, anche se ferite.
Poi, un altro tempo ancora, e la memoria di un giorno aquila potrebbe avere ragione delle violenze, le prepotenze, le ingiustizie, le prigioni, le guerre.

E, come d’incanto,
eccoli di nuovo lì, tutti i fiori,
gli occhiali, i cappellini,
le camicie sudate,
le gonne stazzonate,
le scarpe scolorite,
le suole consumate,
le divise stracciate,
le voci, le canzoni.

dida p83: Martin Luther King


Il guanto di ferro del potere

di Lorenzo Guadagnucci

Oggi sappiamo tutto di quelle violenze di polizia

Tutto era cominciato qualche mese prima, nel gennaio 2001 a Porto Alegre, col primo Forum sociale mondiale. O forse due anni prima, nel novembre 1999, con la contestazione a Seattle dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’origine più autentica potrebbe risalire però al primo gennaio 1994, giorno dell’insurrezione zapatista in Chiapas. Qualcuno va ancora più indietro, al 1992, con le contro manifestazioni per il cinquecentenario della “conquista che non scoprì l’America” (secondo la definizione di Eduardo Galeano).
Comunque sia, nel luglio 2001 a Genova si diedero appuntamento movimenti sociali e singole persone venute da tutto il mondo e mosse da una visione radicalmente alternativa a quella dominante da decenni. Chiedevano la cancellazione del debito imposto ai paesi del Sud, denunciavano un’economia imperniata sulla finanza e l’insostenibile predazione delle risorse naturali, volevano proclamare l’acqua come bene comune, indicavano il diritto delle persone a muoversi da un paese all’altro. Negavano ogni legittimità, sia formale sia morale, al vertice detto G8.
Ma su Genova calò il guanto di ferro del potere. Da decenni non si vedeva in Europa un’azione di polizia così brutale e plateale. Si trattava di criminalizzare un movimento in grande espansione. Era necessario mettere fuori gioco le sue stesse idee, squalificandole come espressione di sterile e teppistico estremismo. Quest’operazione è riuscita. Il movimento è stato denigrato e criminalizzato proprio nella delicata fase del radicamento popolare.
Oggi sappiamo tutto di quelle violenze di polizia. È stato negato un processo per l’omicidio di Carlo Giuliani, ma nel tribunale di Genova è accaduto un fatto storico: la condanna di oltre 70 agenti per le violenze nella scuola Diaz e nella caserma-carcere di Bolzaneto. Fra i condannati figurano altissimi dirigenti di polizia, addirittura il capo dell’Anticrimine e il coordinatore dei servizi segreti. Mai la magistratura era arrivata tanto in alto.
Ma niente è cambiato. Il potere politico del momento – maggioranza e opposizione parlamentare unite – ha confermato piena fiducia ai dirigenti condannati, rinnegando gli stessi canoni etici delle democrazie liberali. Alla fine, sul piatto della bilancia restano le incredibili “condanne esemplari” a un pugno di manifestanti accusati nientemeno che di “devastazione e saccheggio”, un reato che prevede otto anni di pena minima. È il “prezzo” pagato, dicono cinicamente in tribunale, per fare i processi ai poliziotti. È il punto più basso toccato dalla democrazia italiana in questi anni.

dida p84: Genova, luglio 2001.


Una strage
lunga quarant’anni

di Luciano Lanza

Le figure di Pinelli e Valpreda:
se non “A”, chi deve ricordarle?

febbraio 1971
Milano un anno dopo
(servizio fotografico sugli scontri a Milano fra polizia e manifestanti il 12 dicembre 1970)

La zia Rachele
Intervista con la principale testimone dell’alibi di Valpreda

marzo
Sei anarchico dunque terrorista
Il 22 marzo inizierà il processo contro i compagni Braschi, Della Savia, Faccioli, Pulsinelli

La Croce Nera Anarchica
Lo stato contro Valpreda
Intervista con l’avvocato Calvi

aprile
Valpreda è innocente
L’istruttoria contro Valpreda non è solo sostanzialmente assurda, politicamente pazzesca e giuridicamente inconsistente, ma anche formalmente contraddittoria e illogica

maggio
Gli imputati accusano
Mentre il giornale va in macchina, il processo agli anarchici sta diventando, com’è giusto, il processo degli anarchici e il castello d’accuse costruito dal giudice Amati sta crollando: i poliziotti «non ricordano», il metronotte non riconosce Pulsinelli, la «superteste» della polizia viene smascherata come calunniatrice e mitomane recidiva…

giugno
Dopo due anni di carcere preventivo
Fuori tutti i compagni
Alle Assise di Milano una sentenza ambigua che sottintende l’innocenza degli imputati, ne condanna tre, ne assolve tre e li scarcera tutti
Preparati dai fascisti di Treviso gli attentati del 1969?
Arrestati i neo-nazisti Ventura, Freda e Trinco «per attività sovversiva, in realtà perché implicati negli attentati fascisti del 1969 attribuiti ai soliti anarchici

luglio-agosto
«Non l’abbiamo ucciso noi»
La ricusazione del giudice Biotti e la denuncia per omicidio sporta dalla vedova Pinelli hanno riportato sulle prime pagine dei quotidiani il caso del ferroviere anarchico

Aiutare Valpreda

settembre-ottobre
Valpreda è innocente liberiamo Valpreda

Azzeccagarbugli
L’archiviazione «democratica» del caso Pinelli (gestione Bianchi d’Espinosa) viene stupidamente intralciata dalle iniziative inconsulte dell’avvocato Lener (detto dai colleghi «’o picciotto» cioè il mafioso), difensore del commissario Calabresi

novembre
La strage continua
«Suicidato» anche l’avvocato Ambrosini

Avviso di reato per gli assassini di Pinelli

La sinistra parlamentare, dopo aver contrattato per due anni con i padroni la sua acquiescenza, si appresta ora ad utilizzare anche il processo Valpreda per i suoi giochi di potere

dicembre 1971-gennaio 1972
Processiamo lo stato
Nell’ambito della campagna preparatoria del processo per la strage di stato, gli anarchici milanesi hanno realizzato due importanti manifestazioni: un’assemblea al teatro Lirico il quattro dicembre e una presenza articolata in piazza e nei quartieri il dodici dicembre. Una testimonianza di lotta davanti alla questura il 15 dicembre

Valpreda è innocente liberiamo Valpreda
parla l’ultimo latitante
Intervista con Enrico Di Cola: «I carabinieri mi minacciarono di morte: volevano che accusassi Valpreda»

Questi sono i titoli del primo anno di A rivista anarchica sulle bombe che hanno segnato il 1969: 25 aprile, 9 agosto, 12 dicembre. Bombe che hanno cambiato il corso della storia italiana e, nel piccolo, la vita dei giovani (allora) che hanno dato vita a quella rivista. In ogni numero di A c’è almeno un articolo. E A si occupa della strage di stato e dei due attentati precedenti con un taglio fino allora inusuale nel movimento anarchico. Il primo numero parte con un’intervista alla zia di Pietro Valpreda, testimone importante per l’alibi di Valpreda e che i giudici cercheranno in ogni modo di intimorire, confondere… senza riuscirci. Segue, qualche numero dopo, l’intervista all’avvocato difensore di Valpreda, Guido Calvi. Le interviste non sono, ovviamente, una novità giornalistica, ma lo sono per la pubblicistica anarchica di quegli anni.
E se i primi tre anni di A sono «necessariamente» segnati da una presenza continua per la liberazione di Pietro Valpreda e gli altri compagni del circolo 22 marzo di Roma anche dopo la liberazione, il 30 dicembre 1972, di Valpreda, Roberto Gargamelli ed Emilio Borghese l’attenzione non diminuisce. La rivista insiste sull’assassinio di Giuseppe Pinelli, contesta le varie versioni ufficiali, mette in evidenza le contraddizioni della sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio che sforna la famosa e ridicolmente macabra tesi «del malore attivo» di Giuseppe Pinelli. Insomma, nel 1975 un giudice considerato di sinistra (e si devono sempre ricordare i maneggi e i ricatti del Pci sulla vicenda piazza Fontana) salva, da un punto di vista unicamente giudiziario, capra e cavoli: Pinelli non si è suicidato e i poliziotti, Luigi Calabresi in testa, non sono colpevoli.
E scorrendo tutte le annate di A si capisce quanta attenzione viene dedicata alla «strage di stato» soprattutto quando il trascorrere del tempo appanna le figure di Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Un’attenzione necessaria perché quegli attentati voluti da politici, servizi segreti, apparati importanti dello stato hanno messo a nudo «la criminalità del potere». E questo se non lo mette in chiaro una rivista anarchica chi lo deve fare?


Piccoli archivi crescono

di Luigi Balsamini

È cresciuta nel movimento anarchico la sensibilità per la conservazione della propria memoria.

A partire dagli anni settanta è cresciuta nel movimento anarchico la sensibilità verso la conservazione della propria memoria. Ciò non tanto per spirito di antiquariato o di collezionismo, ma per la consapevolezza che la memoria, nell’aiutare a ripercorrere la storia delle lotte antiautoritarie e dei tentativi di liberazione dallo sfruttamento, aiuti anche a riconoscere e costruire la propria identità politica.
Da allora si è assistito alla nascita di istituti che si dedicano alla tutela e valorizzazione delle carte del movimento. Questi centri si sono presto trovati ad affrontare le difficoltà connesse alle alterne vicende dei gruppi promotori: alcuni sono scomparsi nel riflusso degli anni ottanta, altri sono sopravvissuti fino a tempi recenti, altri ancora sono oggi attivi e in crescita. Una distinzione, invero non nettissima, si può tracciare tra istituti protagonisti attivi delle stesse vicende di cui raccolgono testimonianza, che si presentano principalmente come laboratori di attività politica a dimensione militante, e altri che hanno invece maturato negli anni una vocazione scientifica e, lungi dal privilegiare una fruizione interna al gruppo, vanno offrendo un servizio pubblico, liberamente fruibile a tutti, aperto al confronto e gestito con criteri professionalmente validi.
L’attuale panorama italiano presenta caratteristiche di notevole vivacità, grazie ad archivi, biblioteche e centri di documentazione diffusi su gran parte del territorio, anche se purtroppo non ancora interconnessi da solide strategie cooperative (per una descrizione dei principali istituti si veda il dossier su «A», n. 351). Tutti si muovono in una duplice direzione, combinando due aspetti strettamente connessi: sviluppare una coscienza critica del proprio passato e agire da stimolo per il presente. La salvaguardia della memoria storica è infatti solo il primo momento dell’elaborazione culturale, poiché se è vero che la raccolta delle testimonianze aiuta a trascendere la fragilità della memoria umana, i documenti rimarrebbero muti se non fossero rielaborati, attualizzati e inseriti in un orizzonte di senso contemporaneo. Con l’accortezza che questo lavoro non si traduca nell’astrarre l’oggetto dal contesto, cioè nell’isolare l’anarchismo, e le sue tracce documentarie, dalla complessità storica e sociale in cui è immerso.
Recentemente, ma in alcuni casi ormai da diversi anni, questi centri hanno impostato l’offerta di un vero e proprio servizio bibliotecario e archivistico, rendendo disponibile alla loro utenza un complesso integrato di risorse e competenze. Hanno allargato gli orari di apertura al pubblico, stipulato convenzioni con gli enti locali, avviato l’inventariazione dei fondi e la catalogazione del posseduto bibliografico secondo standard internazionali, condividendo i dati all’interno del Servizio bibliotecario nazionale o in altri cataloghi collettivi. La presenza continuativa di queste strutture, il radicamento nel tessuto sociale e l’interesse suscitato dalle loro proposte culturali, testimoniano con ogni probabilità l’esistenza di un diffuso livello di attenzione per le riflessioni di segno libertario, proveniente da un ambito ben più vasto dell’angusta cerchia di “militanti”.


Erano anni di vinile
e di nastro magnetico

di Marco Pandin

A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, …

È stato grazie ad Elis che ho letto la A/Rivista. Stava in bella mostra nella vetrina di Utopia 2, piccola libreria anarchica veneziana dove non serviva la scusa degli acquazzoni improvvisi per trovare rifugio sulla strada tra piazzale Roma e l’università.
Era il novembre 1976, diciannove anni compiuti da un mese, già annidato in testa un sentimento di insofferenza inspiegabile a parole per le cose cosiddette normali, quelle ritenute più adatte ai ragazzi della mia età, fossero la musica o le letture o la rassegnazione per la caserma. Suonavo in un gruppo che faceva della roba proprio strana e indefinibile, e bazzicavo da tempo in una radio libera. A me piacevano Area e Stormy Six, gli Henry Cow e John Fahey, che a buona parte dei miei amici facevano schifo. Ero andato proprio fuori di testa per i poeti beat e l’Antologia di Spoon River, quando le letture più diffuse erano Tex e Zagor e Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori. Alla visita di leva, unico tra tutti i miei amici e compagni di scuola, avevo presentato una dichiarazione di obiezione di coscienza che mi avrebbe causato parecchi fastidi.
Avevo diciannove anni, dicevo. Mestre e Venezia e Marghera mi stavano strette addosso, e avrei voluto per me una vita perennemente in viaggio, non importa dove: il Salento, Londra, Capo Nord, la California, o le porte del cosmo che stanno su in Germania. E invece ho mollato l’università dopo un anno e cinque soli esami perché non avevo un soldo e non avevo il coraggio di chiederne ai miei, così sono andato a lavorare. Ho fatto un po’ di tutto, dal manovale in fabbrica al fattorino in giro senza orario, al cassiere in un supermercato. Un giorno mi offrono di partecipare a un corso: quattro mesi tra Milano e Roma, se passi le selezioni ti prendono in prova e poi se gli vai bene ti danno il posto fisso. A raccontarle oggi sembrano storie d’altri tempi: il posto fisso, l’erba piantata nell’orto dietro casa, le autoriduzioni ai concerti, le manifestazioni con le bandiere dove tutt’attorno a te c’erano altri ragazzi, a migliaia. Insieme a urlare, a ridere, a fare casino. Erano anni lenti, senza telefonini, senza internet, senza soldi. La televisione non la guardavamo praticamente mai: la vita era in strada, in piazza. Erano anni di vinile e nastro magnetico. Anni di ciclostile e scritte veloci sui muri con lo spray, di teatro precario e concerti raccogliticci.
C’è stato poi il punk, e col punk l’accorgersi che certe idee sballate in testa ti potevano venire anche se abitavi tra i palazzoni grigi e l’erba malata alla periferia dell’impero, anche se eri costretto a nascondere per buona parte della giornata la tua creatività dietro una tuta da lavoro. Ho smesso di suonare e ho messo in piedi una fanzine, poi una piccola etichetta discografica indipendente.
La mia benzina è stata la curiosità, la mia difficoltà il mantenermi in equilibrio tra una voglia inesauribile di far parte di qualcosa e il bisogno continuo di rivendicare la mia indipendenza e la mia libertà. Avrei voluto fare così tante cose. Mi sono innamorato, ho messo su famiglia. Ho viaggiato poco, a meno che non ci si metta a contare i chilometri fatti ogni giorno da pendolare. Ho ascoltato tanta musica, purtroppo molto meno di quanto avrei desiderato, e dal 1984 ho l’opportunità di condividerla e discuterne con i lettori di A.
Avrei voluto riempire questa pagina di nomi, raccontare di tutte le strette di mano e di tutti gli abbracci di questi anni, degli incontri che ci sono stati con il pretesto di questo giornale. Ma è un po’ come avere disegnata sul palmo della mano una linea del destino che all’improvviso cambia strada. Succede sempre, anche adesso. Avrei voluto parlarvi dei Franti e dei Crass, degli anarchici cinesi e dei compagni friulani, del Backdoor di Torino e del CSC di Schio, delle serate in cattiva compagnia di Fabio Santin, Roberto Bartoli e Alessio Lega. Avrei voluto raccontarvi una bella storia. E invece riesco a malapena a trattenere una montagna di assenze che mi sta franando addosso.
Ieri sera mi ha telefonato un vecchio compagno inglese, andrò a trovarlo presto con mia figlia. Sto pensando di ricominciare a suonare.


Prima che sia troppo tardi

di Maria Matteo

C’è chi muore in viaggio, chi in un cantiere senza protezioni

Le migrazioni da sud a nord del pianeta sono uno snodo di civiltà ed una sfida aperta alle ragioni di chi si colloca nel centro stanco della modernità, nel crocevia di idee e pratiche dove l’autonomia della politica dalla religione ha tentato di realizzare gli universali “umani” di libertà, solidarietà, uguaglianza.
L’universalismo della ragione si è sgretolato di fronte alle mille ragioni di chi non poteva/voleva stringersi nell’universale, formalmente neutro, ma sostanzialmente maschile, occidentale, bianco, eterosessuale, benestante. Il cittadino sovrano, titolare di diritti, tutele, libertà.
Le mille sfide aperte da chi eccedeva la norma, spaccava il margine, hanno smontato pezzo a pezzo l’artifizio formale che costituiva la base dell’approccio liberale, mettendone a nudo la radice di classe, il nucleo patriarcale, gerarchico. I conflitti che ne sono derivati hanno attraversato gli ultimi duecento anni. Le lotte delle donne, dei lavoratori, degli omosessuali hanno messo in crisi l’impianto, sebbene questo si sia rivelato abbastanza duttile da reggere, modificandosi e ricomponendo le fratture al proprio “interno”. Nulla di duraturo, perché la tutela della proprietà privata, considerata un diritto “umano”, è incompatibile con qualunque ipotesi di eguaglianza sostanziale. Nondimeno la democrazia reale ha saputo mantenere un equilibrio di guerra, nella lotta tra capitale e lavoro. Il punto di equilibrio è stato sancito sul piano legislativo da compromessi che erano lo specchio della forza – come della debolezza – dell’opposizione sociale.
Parimenti l’allargarsi della “cittadinanza”, se da un lato ha concesso diritti, ha tuttavia in parte riassorbito la carica sovversiva del movimento delle donne e degli omosessuali.
L’immigrazione dal sud al nord del pianeta ha aperto un fronte di guerra che scompagina le carte, spezzando il fronte della lotta di classe, mettendo in crisi la stessa tutela delle libertà formali.
L’immigrazione di lavoratori stranieri provenienti da paesi poveri, dove la sopravvivenza è una sorta di roulette russa, è la leva potente con la quale, in Europa – ma non solo – si è sferrato un attacco senza precedenti ai “diritti” acquisiti dai lavoratori in decenni di lotte durissime.
In questi anni l’orizzonte della guerra tra poveri, tra chi ha – ancora – diritti e chi non li ha mai avuti – ha oscurato quello della guerra di classe.
L’universalismo dei diritti, negato agli immigrati, torna in auge quando, dal fondo del barile, si rinverdisce la pianta rinsecchita dello scontro di civiltà, della guerra santa, del feroce saladino e delle sue masnade.
Capita così che il consenso alla disuguaglianza venga proprio da quelli che l’uguaglianza vera non sanno bene cosa sia.
Grumi identitari mai risolti si addensano di fronte agli altri, agli ultimi arrivati. I nemici. Un paese che non ha mai fatto i conti con il proprio tremendo retaggio coloniale, irretito dal mito degli italiani brava gente, ri-trova senza imbarazzi la paccottiglia culturale che sostiene ed alimenta l’odio.
Ma non solo.
La libertà femminile è la leva sulla quale spingere per soffiare sul fuoco dello scontro tra civiltà democratica e oscurantismo islamico. I delitti d’onore contro donne e ragazze indisponibili alle regole patriarcali offrono l’occasione per incrudire le campagne xenofobe. I giornali sbattono in prima pagina la notizia delle donne massacrate da parenti che le vogliono sottomettere a forza. Ma nessuna tutela è data alle donne vittime di violenze ed abusi. Pochi sanno la storia di Faith. Il governo italiano le ha negato l’asilo politico. Faith, una ragazza scappata in Italia dopo aver ucciso l’uomo che cercava di stuprarla, è stata deportata in Nigeria, dove rischia l’impiccagione.
La libertà femminile è una bandiera da sventolare a seconda delle circostanze. Come l’universalità dei diritti. La maschera grottesca della democrazia reale. Tale non perché tradisca alcunché ma perché si tradisce, mettendosi a nudo, dando forma al cuore nero che la costituisce.
Fatto di muri. Sempre più spessi, sempre più alti. Su questi muri si infrangono le vite di chi fugge la guerra, le persecuzioni, la miseria. C’è chi muore in viaggio, chi in un cantiere senza protezioni, chi si impicca per evitare la deportazione. Una lunga strage di stato. C’è chi vive lavorando come nessuno qui era più costretto a lavorare. Sono i nuovi schiavi.
Quello che trop­pi scordano è che i muri e le catene che ser­rano gli immigrati potrebbero un giorno stringersi intorno a ciascuno di noi. Ma allora sarà troppo tardi.


Des anarchismes et des
anarchistes au XXIe siècle

de Marianne Enckell

Le monde « se couvre d’associations volontaires pour l’étude, pour l’instruction, pour l’industrie et le commerce, pour la science, l’art et la littérature, pour l’exploitation et pour la résistance à l’exploitation, pour l’amusement et pour le travail sérieux, pour la jouissance et pour l’abnégation, pour tout ce qui fait la vie de l’être actif et pensant […], et toutes cherchent, en maintenant l’indépendance de chaque groupe, cercle, branche ou section, à se fédérer, à s’unir, par-dessus les frontières aussi bien que dans chaque nation, à couvrir toute la vie du civilisé d’un réseau dont les mailles s’entrecroisent et s’enchevêtrent. Leur nombre se chiffre déjà par dizaines de mille […] Partout ces sociétés empiètent déjà sur les fonctions de l’État et cherchent à substituer l’action libre des volontaires à celle de l’État centralisé. […]
Et lorsqu’on constate les progrès qui s’accomplissent dans cette direction, malgré et contre l’État, qui tient à garder la suprématie qu’il avait conquise pendant ces trois derniers siècles; lorsqu’on voit comment la société volontaire envahit tout et n’est arrêtée dans ses développements que par la force de l’État, on est forcé de reconnaître une puissante tendance, une force latente de la société moderne. Et on a droit de se poser cette question : Si d’ici cinq, dix ou vingt ans — peu importe — les travailleurs révoltés réussissaient à briser ladite société d’assurance mutuelle entre propriétaires, banquiers, prêtres, juges et soldats ; si le peuple devient maître de ses destinées pour quelques mois et met la main sur les richesses qu’il a créées et qui lui appartiennent de droit — cherchera-t-il vraiment à reconstituer à nouveau cette pieuvre, l’État ? ou bien, ne cherchera-t-il pas plutôt à s’organiser du simple au composé, selon l’accord mutuel et les besoins infiniment variés et toujours changeants de chaque localité, pour s’assurer la possession de ces richesses, pour se garantir mutuellement la vie et produire ce qui sera trouvé nécessaire à la vie ? » (Pierre Kropotkine, L’Anarchie, sa philosophie, son idéal, 1896).
Le XXe siècle, dont les historiens disent volontiers qu’il a débuté en 1917, s’est terminé au cours de sa dernière décennie. La chute du Mur de Berlin suivie de la débandade des régimes du « socialisme réel » a vite été suivie d’autres phénomènes, l’internet, la rébellion zapatiste et les mouvements antiglobalisation. Alors le monde « s’est couvert d’associations volontaires » et les groupes anarchistes ont essaimé partout. Les bénédictins des pages jaunes anarchistes (http://ayp.subvert.info/) en ont trouvé dans quelque 80 pays ; Kropotkine, un siècle auparavant, ne parlait que de l’Europe.
Cette présence quasi universelle se caractérise par une grande ressemblance dans les comportements : les jeunes anarchistes sont encapuchonné-e-s, ouvrent des centres sociaux autogérés, font de la musique (souvent punk) et lancent des cailloux, ne mangent pas de viande, vivent en communautés à la ville ou à la campagne, défendent les sans-papiers. Regardez les photos des Philippines ou de Grèce, les programmes des concerts en Equateur ou en Estonie, les sites internet de Suède ou de Slovénie…
Certains courants s’en démarquent toutefois. Il s’agit aujourd’hui du courant dit « plateformiste », représenté dans le portail international anarkismo.net (et fort actif sur a-infos.ca), qui publie des textes sérieux en une quinzaine de langues.
Il s’agit par ailleurs des intellectuel-le-s tenants du « post-anarchisme », surtout anglo-saxons, dont plusieurs textes ont été traduits en italien chez Elèuthera, notamment.
Il y a toujours, bravant la répression, les anarcho-syndicalistes – certain-e-s votent, d’autres ne votent pas – et les syndicalistes révolutionnaires des IWW, et quelques fédérations d’importance très variable selon les pays ; elles n’ont de tradition qu’en France, en Italie, en Espagne et en Argentine, avec des différences de structures et de fonctions qui ne semblent pas insurmontables.
Et toutes les opérations combinatoires sont possibles ; les rencontres se font dans les manifs, parfois dans les campings, mais surtout dans les salons du livre, les colloques et commémorations, les revues toujours nombreuses (et fréquemment, nous le constatons au CIRA, durables et de bonne teneur).
Ce tableau à grands coups de pinceau est peu nuancé. L’important à mon sens est la présence diffuse ou affirmée d’anarchistes jeunes et vieux sur le terrain social et politique délaissé par les forces traditionnelles de la gauche qui n’en finissent pas de ramasser les miettes de leur passé sans réussir à en faire même un petit pain.

L’importante, secondo me, è la presenza
diffusa o affermata di anarchici giovani
e vecchi sul terreno sociale e politico

Anarchismi e anarchici nel XXI secolo
I l mondo “si copre di associazioni volontarie per lo studio, per l’istruzione, per l’industria e il commercio, per la scienza, l’arte e la letteratura, per lo sfruttamento e la resistenza allo sfruttamento, per divertimento e per lavoro serio, per la gioia e per l’abnegazione, per tutto ciò che fa la vita dell’essere attivo e pensante [...], e tutte cercano, mantenendo l’indipendenza di ciascun gruppo, circolo o sezione, di federarsi, di unirsi, al di là delle frontiere cosi come in ciascun nazione, di coprire tutta la vita del uomo civile con una rete, le cui maglie si incrociano e si uniscono sempre più. Il loro numero si valuta già a decine di migliaia […]. Dappertutto queste società usurpano le funzioni dello Stato e cercano a sostituire l’azione libera dei volontari a quella dello Stato centralizzato. […] E quando si constata il progresso che si compie in tale direzione, malgrado e contro lo Stato, che ha interesse a conservare la supremazia che ha conquistata in questi ultimi tre secoli; quando si vede come la società volontaria invada tutto e non sia fermata nel suo sviluppo che dalla forza dello Stato, si è obbligati a riconoscere una potente tendenza, una forza latente della società moderna. E si ha il diritto di porci la questione: Se fra cinque, dieci o venti anni – poco importa – i lavoratori ribellati riuscissero a rompere la società di mutuo soccorso fra proprietari, banchieri, preti, giudici e soldati; se il popolo diventasse padrone della sua sorte per qualche mese e mettesse la mano sulle ricchezze che ha creato e che gli appartengono di diritto, cercherà veramente a ricostituire di nuovo questa piovra, lo Stato? Oppure, non cercherà egli piuttosto di organizzarsi dal semplice al composto, secondo l’accordo mutuo ed i bisogni infinitamente diversi e sempre varianti di ogni località, per assicurarsi il possesso delle ricchezze, per garantirsi a vicenda la vita e per produrre ciò che si troverà necessario alla vita?”. (Pëtr Kropotkin, «L’anarchia la sua filosofia, il suo ideale», Bertoni, Ginevra 1901.)
Il xx secolo, a proposito del quale gli storici sostengono spesso sia iniziato nel 1917, è terminato nel corso dell’ultimo decennio del secolo stesso. La caduta del Muro di Berlino, seguita dal crollo dei regimi del “socialismo reale”, è stata ben presto seguita da altri fenomeni, quali Internet, la rivolta zapatista e i movimenti contro la globalizzazione. Allora il mondo “si è coperto di associazioni volontarie”, e i gruppi anarchici hanno cominciato a sciamare ovunque.
Grazie al lavoro certosino di quelli che fanno le pagine gialle anarchiche (http://ayp.subvert.info), ne sono stati trovati in una ottantina di paesi; Kropotkin, un secolo prima, parlava soltanto dell’Europa. Tale presenza quasi universale si caratterizza per una grande rassomiglianza di comportamenti: i/le giovani anarchici/che indossano cappucci, fondano centri sociali autogestiti, fanno musica (spesso punk) e lanciano pietre, non mangiano carne, vivono in comunità, in città o in campagna, difendono gli immigrati clandestini. Guardate le foto delle Filippine o della Grecia, i programmi dei concerti in Ecuador o in Estonia, i siti Internet di Svezia o di Slovenia…
Tuttavia alcune correnti si distinguono da queste. Oggi, per esempio, troviamo la corrente detta “piattaformista”, rappresentata nel portale internazionale anarkismo.net (e molto attiva su a-infos.ca), che pubblica testi seri in una quindicina di lingue. Si tratta d’altra parte di intellettuali che difendono il “postanarchismo”, sono soprattutto anglosassoni, e alcuni loro testi sono stati tradotti in italiano, principalmente da Elèuthera.
Ci sono sempre, sfidando la repressione, gli anarcosindacalisti – alcuni votano, altri non votano – e i sindacalisti rivoluzionari degli IWW, anzichè alcune federazioni di importanza assai variabile a seconda dei paesi; queste hanno una tradizione soltanto in Francia, in Italia, in Spagna e in Argentina, con differenze riguardanti le strutture e le funzioni, che non sembrano insormontabili.
Tutte le operazioni combinatorie sono possibili; gli incontri avvengono nel corso di manifestazioni, a volte all’interno di camping, ma soprattutto ai saloni del libro, durante colloqui e commemorazioni, e su riviste sempre numerose (e spesso, come constatiamo al CIRA, durature e di buona qualità).
Questo quadro generale è poco sfumato. L’importante, secondo me, è la presenza diffusa o affermata di anarchici giovani e vecchi sul terreno sociale e politico, abbandonato dalle forze tradizionali della sinistra, che non finiscono mai di raccogliere le briciole del loro passato senza riuscire a farne neppure un panino.

(traduzione dal francese di Luisa Cortese)

dida p93: Pietro Kropotkin


Sull’orlo
di una crisi di nervi

di Mariella Bernardini

Creiamo conflitto sempre, senza sottovalutare il linguaggio sessista e l’ingerenza della chiesa

Oggi appare sempre più chiaro che all’interno del conflitto tra i sessi, mai soffocato, si tenta di ripristinare una virilità tradizionale e un ritorno ai ruoli sessuali dati che erano stati messi in discussione da 40 anni di femminismo. Mai come oggi i rapporti tra i sessi rappresentano il cuore della politica. Tentare di prendere la parola come era già stato fatto in passato su sessualità – potere e politica penso che sia un passo fondamentale da cui partire. È da qualche tempo che donne sempre più “belle”, vistose, fintamente o alcune realmente stupide, e donne sempre più maltrattate e oggetto di fatti di violenza fanno parte della nostra quotidianità. La rappresentazione che maggiormente appare – e purtroppo sono le stesse donne che spesso vi si prestano – è quella di corpi che possono essere modificati, offerti e scambiabili come qualsiasi altro oggetto di consumo. Le aspirazioni di libertà delle donne in questi ultimi anni sono state mercificate; ci viene venduto un immaginario plastificato senza distinzione tra ciò che è reale e vissuto da ognuna quotidianamente e ciò che è finzione mass mediatica.
Le forti contraddizioni, sempre presenti, fra i due sessi troppo spesso si esplicitano in violenza, a volte invisibile, come quella che si vive tutti i giorni, quella psicologica, domestica, cioè quella che coinvolge il corpo e la mente. Non proviamo stupore ma rabbia quando non passa giorno che ad una donna non venga usata violenza: questa è un antica pratica maschile e non dipende dal passaporto di chi la agisce, ed è stata sempre usata come arma di guerra di un esercito contro un altro esercito (basta ricordare le centinaia di migliaia di donne stuprate qui vicino a noi nella ex Jugoslavia, senza parlare di ciò che succede oggi nel resto del mondo); lunghi anni di silenzio hanno spesso nascosto sotto la cenere questi crimini che solo dopo la rivoluzione femminista degli anni ‘70 sono stati sottoposti a critica sociale in modo forte e rilevante.
Oggi che la crisi economica e sociale è sempre più devastante per ampie fasce di popolazione vengono alla luce e si rafforzano sempre più visioni autoritarie e maschiliste, la paura verso il diverso, i sentimenti sessuofobici ed il sessismo si intrecciano e si confondono sempre più con il razzismo ed avanza la diffidenza, l’isolamento, la competizione, l’esclusione sociale e una distruttività nelle relazioni umane.
È lo straniero il nemico: rimuovendo il senso di colpa ai maschi nostrani che tentano di rimettere le “loro donne”sotto tutela, volendo riportare la differenza femminile, nata sotto il segno della libertà, alla sottomissione. Lo stupro, che considero reato politico contro le donne, contro il corpo ‘diverso’ della donna, contro l’elemento non cancellabile della sua differenza, viene utilizzato politicamente da diverse forze partitiche che appoggiano e istituiscono ronde di giustizieri e bande militari per togliere sempre più libertà a tutte e tutti. Forse per troppo tempo abbiamo lasciato che parlassero in nostro nome su troppe cose, ma non possiamo più permettercelo e se è vero che non siamo mai state zitte, ora dobbiamo alzare con più forza la nostra voce perché l’affermazione della nostra libertà è il presupposto per l’affermazione della libertà dell’intera umanità.
Creiamo conflitto sempre, senza sottovalutare il linguaggio sessista che riaffiora e la sempre presente ingerenza della chiesa nelle nostre vite (vedi il caso di Eluana Englaro).
La frantumazione del movimento delle donne di questi ultimi decenni, i suoi innumerevoli rivoli, le diverse di/visioni e le derive, hanno lasciato dei grandi vuoti di obiettivi comuni e di azioni; si sente quindi più che mai la necessità di pensiero, di ripresa di un movimento “nuovo”, di relazioni, di valorizzazione di conoscenze e di saperi per un’efficace lettura dei cambiamenti avvenuti e che avverranno nel mondo. Ripartire dalle nuove generazioni, dalle scuole, per ricreare cultura egualitaria e libertaria, senza differenze di ruoli e non sessista, e dai posti di lavoro per non farci emarginare con la crescente disoccupazione perché siamo noi le principali vittime (dato che nel nostro paese lavora meno di una donna su due e questo è uno dei dati più bassi d’Europa). Capovolgere il mondo, approfondire la nostra capacità relazionale e trovare l’intreccio tra noi, la cultura e la natura nella nostra continua pratica quotidiana di resistenza, autonomia e libertà.


Forti emozioni
e incoercibili passioni

di Massimo Ortalli

Una nuova generazione di storici si è venuta formando negli anni, producendo una letteratura scientifica davvero notevole

Il progresso della ricerca storiografica ha fatto sì che negli ultimi anni gli studi si siano concentrati non solo sulla mera indagine e ricostruzione degli avvenimenti, dei grandi fatti storici e delle loro dinamiche, ma anche, e non più secondariamente, sull’analisi di quel tessuto umano e sociale che a tali avvenimenti ha dato concreta sostanza. In conseguenza di tale mutamento di prospettiva tanto il singolo individuo quanto i gruppi sociali hanno acquistato nuova importanza, aprendo le riflessioni degli studiosi a nuove motivazioni, pulsioni e valori.
La storia dell’anarchismo, come e più di quella di altri movimenti sociali, è stata anche, se non soprattutto, una storia di valori, di ideali, di forti emozioni e di incoercibili passioni. Ma per anni la storiografia ufficiale, non solo sul versante quasi egemone di matrice marxista ma anche sul versante di scuola liberale o di impostazione cattolica, ha coerentemente ignorato, in una sorta di delirio materialistico, tutte le cause che non trovassero una spiegazione economicistica, scrivendo così una storia, sostanzialmente, a una dimensione. Inevitabile, in questa ottica, una interpretazione restrittiva dell’importanza del movimento anarchico e del pensiero libertario nella storia del paese.
Per capire basti un esempio, l’avventura della banda di Cafiero e Malatesta sui monti del Matese: una disperata impresa di poveri illusi inconsapevoli delle condizioni materiali del paese e isolati dal proletariato urbano, o l’espressione di un sentimento di rivolta ed uguaglianza di una generazione di rivoluzionari che portavano il verbo dell’emancipazione nelle lande più sperdute? il manifestarsi di un velleitarismo ridicolo e autodistruttivo, o un grido di libertà che, di lì a poco, sarebbe diventato patrimonio del proletariato italiano? Una domanda non difficile ma a lungo inevasa e per la quale tanta storiografa, se si fosse tolta il paraocchi, avrebbe trovato una lampante risposta nello svolgimento del processo di Benevento, risoltosi, come si sa, nella apoteosi popolare di quella accolita di “sognatori”.
Negli ultimi anni, comunque, a fronte dell’inevitabile crisi di certa storiografia militante, lo studio del movimento anarchico ha ricevuto nuovi stimoli, che hanno portato alla piena e feconda rivalutazione della sua importanza. Se antesignano di questa rielaborazione è stato Pier Carlo Masini, che già sulle pagine di «Movimento Operaio» contribuì a riportare alla luce e a ridare il loro giusto rilievo alla Prima Internazionale e alla fase “giovanile” dell’anarchismo italiano, dopo di lui altri storici hanno contribuito a sfatare la vulgata materialista e le interpretazioni strumentali e restrittive che questa promuoveva.
Una nuova generazione di storici si è venuta formando negli anni, producendo una letteratura scientifica davvero notevole. Ne è testimonianza la relativamente breve ma intensa e preziosa esperienza della «Rivista Storica dell’Anarchismo» sfociata, come conclusione di un lungo processo di ricerca, in un’opera che praticamente non ha pari nel mondo scientifico, quel «Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani» che ben testimonia, tra le tante altre cose, sia il rinnovato interesse degli anarchici per la loro storia, sia la ricchezza umana e materiale di un movimento così longevo e ubiquitario come quello anarchico.
E anche «A Rivista», naturalmente, è fra i protagonisti di questo rinnovamento. Sempre puntuale, infatti, nell’informare sulle nuove acquisizioni della ricerca, consente ad un pubblico molto più vasto ed eterogeneo di quello degli specialisti di seguire il procedere degli studi, non solo con recensioni e schede bibliografiche, ma anche con l’interesse per le vicende biografiche dei nostri militanti o con le cronache delle frequenti ricorrenze della nostra storia. Una preziosa simbiosi fra la rivista e i suoi lettori, quindi. Da una parte uno sforzo divulgativo quanto mai utile, dall’altra una risposta costante a stimoli necessari per continuare a portare avanti l’impegno nella società: con la consapevolezza di far parte di una visione che trascende le singole individualità per tras­formarsi in un procedere unitario e collettivo. Insomma, ancora una volta, … veniamo da lontano e andiamo lontano…


Nostra patria
è il mondo intero

di Massimo Varengo

Autogestione, municipalismo, federalismo, libertarismo, non sono più patrimonio esclusivo di un movimento residuale, ma temi di riflessione per un’azione politica possibile

È aperta da tempo la ricerca di risposte efficaci alla drammaticità crescente della questione sociale contraddistinta sia da una imponente crisi economica che da una serie di conflitti regionali, etnici, religiosi, in profonda correlazione con l’affermarsi della politica di attacco al livello di vita, di reddito, di salute, delle classi popolari e di ridefinizione del sistema di dominio mondiale. A sinistra alcuni ricercano nelle ricette di un liberalismo umanitario ormai datato qualche possibilità d’uscita, altri studiano di rilanciare il ruolo dello stato nazionale a garanzia di un rinnovato patto tra capitale e lavoro. Ma la centralizzazione dei processi decisionali, la circolazione di masse imponenti di capitali, lo scardinamento delle economie nazionali, la riduzione dei poteri dei singoli stati, la dimensione stessa della crisi finanziaria in atto, non rende credibili queste opzioni. Non a caso è nei contenuti dell’anarchismo maturo che oggi la parte più viva, più critica della società va ricercando, consapevolmente o inconsapevolmente, materiali per costruire il futuro possibile.
Autogestione, municipalismo, federalismo, libertarismo, non sono più patrimonio esclusivo di un movimento residuale, ma temi di riflessione per un’azione politica possibile. E in questo gli anarchici, pur minoritari, dimostrano di essere, a livello internazionale, parte viva di una battaglia culturale, politica e sociale che si misura con i problemi sul tappeto per elaborare soluzioni praticabili in grado di aprire nuovi spazi di libertà e nuovi condizioni di eguaglianza. Segnali importanti di ripresa di attività e di incisività si danno praticamente in ogni parte del mondo, a partire dalle mobilitazioni antiliberiste ed anticapitaliste in occasione dei vertici dei principali leader mondiali fino ad arrivare alle manifestazioni attuali contro l’imperversare degli effetti disastrosi della crisi sui ceti popolari.
Da Seattle ad Atene il filo rosso nero si snoda ininterrottamente, passando per la Russia ove la criminalizzazione e la repressione non impedisce agli anarchici di continuare ad impegnarsi a fondo contro il razzismo ed il nazismo crescenti; per il Messico ove nel Chiapas ed in Oaxaca si stanno sperimentando importanti iniziative di autogoverno popolare e più in generale nell’intera America Latina dove sono sempre più numerose le iniziative sviluppate praticamente in ogni paese, perfino a Cuba ove si registrano segnali importanti di ripresa. E anche in Europa, pur nella complessità e nel frastagliamento del movimento, anarchico ed anarcosindacalista, si sono avute manifestazioni di significativa presenza, sia teorica che pratica, nei movimenti sociali. Altri importanti segnali di sviluppo provengono dalla Turchia, dal Senegal, dal Sudafrica, dall’Indonesia, dalla lotta congiunta israelo-palestinese contro il Muro. I tempi sono ormai maturi per un impegno specifico che, tenendo conto delle ricchezze e delle particolarità di ogni singola realtà, sia in grado di mettere a confronto, nel riconoscimento reciproco, percorsi ed opzioni che hanno radici ed finalità comuni, per una crescita congiunta e collettiva.


Storiografia:
un bilancio aperto

di Maurizio antonioli

Quei due convegni di studi: a Piombino sul sindacalismo rivoluzionario e a Venezia su Bakunin

P uò apparire strano che, dopo quarant’anni abbondanti di studi e di ricerche su tematiche inerenti la storia dell’anarchismo, io esiti di fronte alla sollecitazione di Paolo Finzi a tracciare una sorta di bilancio storiografico sul tema. Forse perché i bilanci, o meglio i consuntivi, seppur provvisori, si fanno quando si pensa di chiudere una stagione che a me pare, invece, ancora aperta per le mille possibilità di analisi che si offrono. Certo, negli ultimi quindici anni la produzione storiografica sull’anarchismo (mi riferisco ovviamente a quella italiana) ha registrato una significativa accelerazione, legata principalmente a due esperienze collettive di grande portata: la «Rivista storica dell’anarchismo» e il Dizionario biografico degli anarchici italiani. Ma si è probabilmente trattato, e mi auguro che sia così, di una spinta iniziale in grado di assicurare autonomia e tenuta a nuove e più specifiche esplorazioni. Non è un caso che siano già usciti o in procinto di uscire o comunque in cantiere dizionari regionali (Abruzzo, Calabria, Sicilia ed altri ancora) in grado di offrirci una visione sempre più ravvicinata, un quadro sempre più dettagliato del complesso delle vicende umane che hanno dato corpo e direi quasi «anima» al movimento anarchico italiano.
Ma se è vero che le esperienze citate sono state decisive, è altrettanto vero che sono cresciute su di un terreno già reso fertile dai risultati di una produzione storiografica niente affatto trascurabile. Non ho lo spazio per fare una sommaria rassegna e rischierei, come capita spesso, di dimenticare qualcosa o qualcuno. Mi limiterò quindi a ricordare una persona e due eventi. La persona non può che essere il vecchio amico Pier Carlo Masini; gli eventi due convegni che reputo per diverse ragioni decisivi, il convegno di Piombino sul sindacalismo rivoluzionario (1974) ed il convegno di Venezia su Bakunin (1976).
Come tutti ricorderanno, il primo volume della masiniana storia degli anarchici italiani (quello sottotitolato Da Bakunin a Malatesta) uscì agli inizi del 1969, prima di Piazza Fontana, e suscitò, per ragioni contingenti facilmente intuibili, un notevole interesse. Si inserì in un clima culturale in cui gli anarchici, dopo anni di silenzio e di marginalità, erano in qualche modo ritornati in primo piano. Il grande merito di Masini, che da anni studiava, raccoglieva materiale e pubblicava saggi e contributi, fu quello di capire il momento e di sapere coglierlo. Ma non si tratta solo di intuito, che in uno storico non guasta mai. Masini ebbe la capacità di comporre l’affresco di un trentennio decisivo della storia nazionale, dall’indomani della proclamazione del Regno d’Italia alla nascita del Partito socialista, e di proporlo con lo sguardo dello studioso certamente animato da una forte vena di simpatia, ma lontano dalle asprezze ideologiche che avevano caratterizzato, in un senso o nell’altro, la storiografia degli anni Cinquanta e Sessanta. La lezione di Masini, che non tutti percepimmo subito, può essere sintetizzata nella sua capacità di capire l’insieme, di seguire le singole vicende inserendole in un quadro coerente, unitario. E quindi di capire Bakunin e Malon, Cafiero e Bignami, Malatesta e Costa, Gori e Turati. Le accese passioni si stemperavano, pur non perdendo la loro vivacità, la loro specificità. Ma nell’ambito del giovane movimento operaio italiano, che faticosamente cercava una propria identità attraverso il contrasto delle tendenze, per Masini le ragioni e i torti si intrecciavano e non c’era spazio per la categoria del «tradimento» come per quella della «provocazione». I traditori, i provocatori, laddove c’erano, erano altri.
Quanto agli eventi, mi limiterò solo a registrare che il convegno piombinese mise per la priva volta l’accento su di un fenomeno, quello del sindacalismo rivoluzionario, di cui fino ad allora si era fatta giustizia sommaria. Farò un unico esempio. Tutti gli studi in cui il sindacalismo rivoluzionario aveva fatto la sua apparizione non citavano mai «L’Internazionale», il periodico della Camera del lavoro di Parma che poi diventò organo dell’Usi. E l’Usi rimaneva una nebulosa di cui vagamente si conosceva l’esistenza, ma che si preferiva accantonare per seguire l’equazione sindacalismo rivoluzionario = interventismo = fascismo. L’approfondimento del sindacalismo d’azione diretta ha avuto due principali conseguenze: da un lato ha arricchito in modo significativo il quadro del movimento sindacale italiano, dall’altro ha messo in luce la complessa rete di relazioni tra i sindacalisti e gli anarchici. Diversamente, il convegno veneziano su Bakunin, tematicamente più limitato ma aperto all’apporto di approcci disciplinari e metodologici differenziati, ha avviato una stagione di proficue collaborazioni internazionali contribuendo in modo determinante a «sprovincializzare» la cultura libertaria italiana. Per la prima volta noi, più giovani, ci trovammo accanto a Lehning, Maitron, Guérin, Arvon e potemmo confrontarci con loro. Ora, che i più giovani sono altri, ci rimane il ricordo.


Noi, i desaparecidos
della città uguale

di Milena Magnani

La verità è che siamo nei luoghi della tirannide.

Q ua ci ubriacano di padanie, di provvedimenti da adottare per contrastare i nemici selvaggi, ma io temo che in questo fanfarare ci stiano tacendo un’evidenza a cui invece dovremmo prestare attenzione, ed è il fenomeno che sta trasformando le città europee in un’unica città uguale.
La città uguale non è altro che una zona della città, asettica e seriale, un modo di essere dell’edilizia e dell’urbanistica che sta colonizzando a poco a poco tutte le altre zone ed è perfettamente funzionale alle logiche dell’alta finanza e del grande capitale.
Io ci cammino dentro. La attraverso per tangenziali, per raccordi autostradali, ci sosto in parcheggi sotterranei, organizzati per settori. Nel suo espandersi inarrestabile, la città uguale fa sì che il carattere delle vecchie strade sia costretto a soccombere per fare spazio alle grandi catene di Carefour e di Ikea, alle linee di spostamento veloce, ai grandi piazzali di accesso alle multisale.
Un paesaggio così uniformemente comune a tutte le città europee, da diventare la dimostrazione urbanistica di come l’Europa delle multinazionali abbia una ricaduta sulle nostre vite e possieda la capacità di creare geografie.
Uno scenario così elegantemente autoritario da riuscire a poco a poco a colonizzare per ricaduta anche le vie dei centri storici, fino a impedirvi la sopravvivenza di qualsiasi piccolo e onesto esercizio commerciale. Ponti e raccordi, tapis roulant e scale mobili, si potrebbe essere in qualsiasi punto del mondo occidentale tanto, quello di cui facciamo in ogni caso esperienza, è il solito reticolo di inviti all’acquisto senza preclusione.
Non a caso qui, nella città uguale, il sentimento di cittadinanza viene scomparire, perde gli indizi riconoscibili di una qualche storia, e diventa il luogo eletto per la spersonalizzazione.
Succede così che quando mi trovo in questo tipo di scenario non avverto alcun legame di appartenenza territoriale e ogni tanto provo persino a domandarmelo: Ma dove siamo?
La verità è che siamo nei luoghi della tirannide, il cui potere, come suggerisce John Berger, è strutturato eppure diffuso, è dittatoriale e tuttavia anonimo, onnipresente eppure senza connotazione di luogo... E forse è per questo che sempre più spesso, quando procedo con il mio carrello tra le corsie, lì dove mi mancano le coordinate per ritrovare l’idea della vita che volevo abitare, mi invade la nostalgia di un modello di città più rudimentale, quella che esprimeva una differenza tra il centro e le sue periferie, all’interno della quale potevo ancora andare a trovare due amici rom, nel quartiere sul lungo Reno, che ora le ruspe hanno demolito.
Mi ritorna quel senso di spensieratezza che mi dava stare sui gradini di una baracca, a fumare sigarette sui canali di scolo. E mi domando anche se non sia il caso di ritrovare i fili di una disobbedienza, quella disobbedienza che unicamente può restituirci una forza, e di cui avevo fatto esperienza là, accanto a persone che vivevano ai margini, che non avevano niente tranne la loro libertà di scappare, di raggiungere i parenti in mezzo ad altre discariche, di cercare nuovi capannoni di scarto industriale.
Non intendo fare un elogio della marginalità , quanto piuttosto considerare in questa sede, dove sento rispettata la mia totale libertà di pensare, che mi rifiuto di abitare là. Là dove con una strusciata di carta di credito alle casse, non facciamo che spianare il sentiero su cui si avvieranno colonne di profughi con i sacchetti di plastica in mano, persone che espatriano e che perennemente continueranno a espatriare perché non abitano la patria del grande capitale.


La lettera della passione

di Monica Giorgi

Fu così che mi accorsi di un’ingiustizia
enciclopedica: certe lettere erano
più interessanti delle loro vicine.
La più appassionante era la lettera A:
era a causa del suo colore nero,
sottolineato da Rimbaud?
O quel potere sconvolgente
era semplicemente l’energia dell’incipit?

Amélie Nothomb

“A” è (stata) ambito costringente e modalità leggera di esprimere una particella di verità per le cose del mondo

A è sempre (stata) per me un approdo. In due sensi un po’ sbilenchi fra loro: luogo di approdo e di sponda nell’affrontare le derive della più inaffidabile tra le cose del mondo – il mare... Mare della vita, si dice. Ed è un bel dire, come pure un insaputo ben-detto.
Rimane sempre nelle cose del mondo un margine di conflitto e anche i più avvincenti rapporti, come la mia storia con A e quella vivente con le persone che intorno ad essa si affaccendano, non si sottraggono a questa legge.
Quella del conflitto è un’impasse da non risolvere, uno scarto da non colmare. Operazioni entrambe assai ardue per l’intelletto, beffato – si fa per dire – dallo stesso ordine del discorso. E allora, congedati i nessi giustificativi per qualcosa che non ha colpe, viene in soccorso la passione della parola incarnata. Non è per discolparmi ma perché la colpa (mi) immiserisce che il conflitto vado a contemplarlo e lo intravedo, per quelle relazioni particolari della storia con A, come il seme di grano per il pane quotidiano.
Il conflitto d’amore sta prossimo all’amicizia i cui piaceri sono i frutti moltiplicati della solitudine. Sì proprio, la solitudine. Solitudine condivide con solidarietà la stessa radice. Va per valli e monti, l’amore. Si lascia cercare alla deriva: naufrago di tempesta naufragante di accoglienza e di esilio. Se l’amore non si lascia mai trovare del tutto – sembra che manchi perfino l’intimità del corpo a corpo – viene da dire essere in pieno amore nella stagione della vita.
Per me la Rivista ha circoscritto la quadratura pubblica del corpo a corpo con la scrittura. Sto raccontando al passato ma scrivo al presente nell’evocare l’immagine di un poligono inscritto in un cerchio. Tento di esprimere l’approssimazione matematica di un numero irrazionale che ha valore infinito, dato che pensiero e scrittura in stretta vicinanza alle esperienze della vita mantengono sempre un margine rigoroso di incommensurabilità.
Mi sono avvicinata alla Rivista prima di instaurare, con chi la creatura oggi quarantenne i(n)spira anima e corpo, una relazione tra le più intense, se non proprio la più intensa: legame di per sé vincolante eppure assolutamente svincolato da ogni genere di formale assiduità.
Con A non mancano lunghi silenzi pre-monitori restituenti, in una sorta di scambio impremeditato sul filo delle parole, guadagni simbolici che non stanno al do ut des. L’alfabeto della vita è dettato a posteriori e alla memoria occorre un quanto di oblio.
Intendo il corpo a corpo con la scrittura secondo due dimensioni: sia quale intreccio creativo realizzato dalle tracce biografiche, sia come apparato letterale di segni ortografici in cui l’umano è immerso, il maneggio dei quali abilita a considerare intreccio e apparato l’effetto-agente di ogni narrazione.
Allora come non riconoscere A e il suo cerchio dal contorno vivente il luogo di gratuita accoglienza ricevuta nel momento in cui stanziavo in una profonda bisognosità?
Circoscritta e sostenuta a vivere in quella particolare storia che mi portò a conoscere arresto, carcere, condanna e rinnovata libertà, arricchita dall’amicizia-amore che non si è fermata alla “dovuta” solidarietà fra anarchici, mi resi conto che i casi della vita fanno in modo tale per cui i doni più preziosi sopraggiungano dalle situazioni più precarie. Si abbuia una certezza e si accende una scintilla.
A è (stata) ambito costringente e modalità leggera di esprimere una particella di verità per le cose del mondo: Rivista in movimento e di movimento con tradizione documentaria di alto valore morale. Modalità leggera giacché l’occorrenza dell’agire eccede le determinazioni di qualsiasi potere costituito – «l’amicizia [con dio] non dà alcun potere, ma finché è presente nella sua verità ai pensieri degli uomini nessun potere terrestre raggiunge la stabilità», avverte Simone Weil; ambito costringente in quanto la parola incarnata alita il potere del corpo rivelandosi ad un tempo potere liberatorio e potere istituente. È il linguista Émile Benveniste nel Vocabolario delle Istituzioni Indoeuropee a tenere f i l o l o g i c a m e n t e presenti i due piani.
So di aver provato un gusto estatico nell’intrecciare distrattamente Amore e Anarchia incastrandole con le loro lettere in una specie di assurdo piano cartesiano, in modo che le A dell’uno e dell’altra si intersecano nello stesso punto in cui divaricano. So di aver imparato da lì che i legami del conflitto sono più avvincenti di quelli della assuefazione...


La responsabilità
delle parole

di Nadia Agustoni

Ho passato anch’io anni della mia vita legato dentro una caverna oscura convinto che le ombre sulle pareti fossero il presente che cambiava.

Titos Patrikios, La caverna

Oltre alla pietà, hanno dimenticato la vergogna e la responsabilità delle parole

I l nostro presente è infetto. C’è un male che si impone ovunque, ad ogni strato sociale, in ogni geografia localizzabile: è la mancanza di pietà.
Dal commento al fatto del giorno, alle più spicciole vicende, quel che s’afferma è la chiacchiera sovrastante che asserisce e condanna. Condanna anche quando assolve perché trova la colpa nella vittima e giustifica chi fa del male agli altri con o senza motivo. I motivi, del resto, sono l’elenco del tornaconto dei potenti e di chi li imita. I motivi sono la parte più infetta dei loro discorsi. Ma qualcuno ha ripetuto fino alla nausea la litania del “tutto è relativo”.
Così hanno chiamato eroi i talebani, che di umano hanno solo le mani con cui tagliano nasi, amputano, lapidano e gettano gas nelle scuole per bambine. Chiamano vittime di oscure debolezze gli stupratori e i trafficanti di vite umane, perché i corpi dei nostri simili, che loro adoperano, servono sulle strade a maschi che donne italiane compiacenti giustificano, e servono nei campi dove gli/le italiani/e non vogliono più lavorare. Queste vite abusate non sono degne di pietà. Una pietà e attenzione vera ci imporrebbero altri stili di pensiero e comportamento.
Ma ormai in nome del relativismo attendiamo si cancellino dalla storia i fatti che alcuni vorrebbero definire, benché documentati e accertati, solo episodi incresciosi e altri considerano pura propaganda: da chi nega l’olocausto a chi dà dell’ingrato agli operai che denunciano misfatti. Perché alla fin fine il male che ci assedia viene da un pensiero che oltre alla pietà ha dimenticato la vergogna e la responsabilità delle parole.


“Puu-tii-uuit?”,
o il silenzio che urla

di Nicoletta Vallorani

Dopo un massacro, tutto dovrebbe esser tranquillo, e infatti lo è, sempre

Chi fa di mestiere l’insegnante, e lo ha fatto per tutta la sua vita adulta, non ha moltissima consuetudine col silenzio, nel senso che gli capita di rado di goderne. Se è bravo, impara detestarne un tipo, che va sotto il nome di silenzio-indifferenza, e ad amarne un altro: quella specie rara di assenza di voci in un’aula affollata che è il silenzio rapito.
Ho fatto l’insegnante per tutta la mia vita adulta. Nella scuola superiore, ho campionato silenzi-interrogazione, silenzi-predica, silenzi-torpore, silenzi-giornata di pioggia e via dicendo. Di norma, preferivo il fertile caos della discussione, ma lì i numeri erano limitati e di rado mi è capitato di avere in classe studenti che non avrebbero voluto condividere con me neanche lo stesso fuso orario. Sono stata fortunata, immagino. All’università, invece, si lavora con grandi numeri e in aule sconfinate come continenti in guerra. Anni fa, all’inizio della mia carriera universitaria, mi è capitato di avere un corso affollatissimo. Insegnavo lingua inglese, e lavoravo sulla retorica dei reportage giornalistici di guerra.
Erano tempi complicati, e non siamo andati meglio, da allora: nel 2003, gli USA invadevano l’Iraq, intenti a portare la pace a colpi di mortaio. Si faceva un gran parlare di missioni destinate a sostenere i civili, e intanto proprio i civili schiattavano come mosche, intrappolati nella carta moschicida di un conflitto in corso.
In questo bel contesto, io selezionavo pagine di giornale e le proponevo a un paio di centinaia di studenti, tutti insieme, partendo dall’ardita ipotesi che si potesse imparare qualcosa di più sul lessico inglese analizzandone il garbuglio misterioso che attraverso i giornali ce ne proponevano le star della politica internazionale. E una volta portai in aula un articolo sulle cluster-bomb, le “bombe a grappolo”: ordigni multipli al primo posto nella hit parade del massacro bellico casuale. Tecnicamente, la lezione aveva a che fare con la distinzione tra significato denotativo (e.g. sedia = l’oggetto sedia che il termine designa) e significato connotativo (e.g. sedia = attrezzo sul quale posso riposarmi quando sono stanco). Il fatto è che non parlavamo di sedie, ma di bombe a grappolo. Così, mi trovai a mostrare immagini di bombe a grappolo (= significato denotativo dell’espressione “cluster bomb”), per poi passare a descrivere, con la medesima dovizia di immagini, gli sgradevoli effetti collaterali che le cluster bomb producono su un bambino iracheno che, per esempio, raccoglie un grazioso cilindretto giallo inesploso, ci si mette a giocare tutto festante finché quello a un certo punto non decide di esplodere. E il bambino salta per aria: e questo è, appunto, il significato denotativo.
Devo ammettere – a mio merito o a mia discolpa – che non avevo ragionato sulla reazione possibile delle duecento giovani teste pensanti che mi trovavo davanti, e che si sono esibite in uno dei silenzi rapiti più profondi e inquietanti della mia vita professionale. Non volava una mosca. Ho chiesto se avevano capito.
Dal fondo dell’aula, la vocetta di una ragazza dai capelli rossi – magra, seria e piena di piercing, replicò, in un inglese pulito e musicale, il succo dell’intera lezione. E in pratica era una dichiarazione di rifiuto della guerra in tutte le più strampalate articolazioni retoriche imbastite dai politici, che – bontà loro – in guerra non ci vanno. Quella ragazza si è poi laureata, e come molti altri – forse con un po’ di consapevolezza in più – è entrata nel mondo degli adulti.
E quel giorno, da quell’aula siano usciti, credo che siano usciti almeno 20 studenti che hanno capito un concetto fondamentale. Che poi è quello che scrive Vonnegut in Mattatoio n.5, “Non c’è niente di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non debbano più dir niente o voler niente. Dopo un massacro, tutto dovrebbe esser tranquillo, e infatti lo è, sempre, salvo per gli uccelli. Che cosa dicono gli uccelli? Tutto quello che c’è da dire su un massacro; cose come “Puu-tii-uuit?”.

dida p104: foto di G° http://www.flickr.com/phot <http://www.flickr.com/photos/gaia_d/>


Attualità
dell’anticlericalismo

di Persio Tincani

La sudditanza verso la chiesa cattolica non è una prerogativa della sola destra

N egli ultimi anni, quando si solleva il problema dell’ingerenza dei preti nella cosa pubblica, è sempre più frequente sentirsi rispondere che quel problema è “una roba vecchia”, nel senso che si tratta di una questione che ha fatto il suo tempo. È, questa, l’espressione dell’idea che la separazione tra Chiesa e stato sia “roba da Risorgimento” e che i residui di anticlericalismo – che non significa altro che opposizione alle pretese di dominio secolare da parte dei preti e dei loro sodali – siano qualcosa della quale la società contemporanea potrebbe, e forse addirittura dovrebbe, liberarsi.
Eppure, più che mai in passato, l’ingerenza è ora attiva con tanta solare evidenza. Senza neppure più quella maschera di savoir faire alla quale era ben addestrata, la parte clericale rivolge indicazioni, direttive, ordini ai decisori politici, ed esercita, quando le occorre, un vero e proprio potere di veto. E lo fanno tutti, dal parroco del paese che pretende (e ottiene) che il sindaco revochi il permesso per una manifestazione satirica, al capo dei vescovi che, di fatto, comanda di stracciare il progetto parlamentare dei DiCo con un “non possumus”, quello sì, di risorgimentale memoria. E non si dimentichi di quando il Berluscone, fresco di incarico, andò a trovare Joseph Ratzinger per ricevere da lui l’esplicito saluto al capo di un «governo amico», a suggello di un patto di mutua assistenza e, soprattutto, di mutuo governo.
La sudditanza verso la chiesa cattolica, però, non è una prerogativa della sola destra. Il Partito Democratico, quell’opposizione che i governi di tutto il mondo invidiano all’Italia, ha addirittura scritto nella propria Carta dei valori che la religione non è un fatto privato, ma che anzi è cosa che rileva nell‘arena pubblica. Non si facciano le vergini: in Italia, quando si scrive “religione” si intende una religione, quella cattolica romana, gerarchica, strutturata, organizzata. Ai partiti di dichiarata “ispirazione” cattolica si affiancano i politici di ogni schieramento che, prima di ogni altra cosa, dichiarano il proprio essere cattolici. Perfino tra coloro che si dicono “laici”, è raro trovarne uno che ometta di dichiarare il proprio rispetto per la chiesa, della quale viene ribadito un non meglio precisato ruolo di “guida morale” o di “carità assistenziale”, entrambi dati per presupposti e mai dimostrati o argomentati.
Così, mentre si celebra il 140° della Breccia di Porta Pia, il segretario di stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, siede accanto al presidente della repubblica sul palco delle autorità, dal quale eleva una preghiera per l’Italia unita. E ne ha ben donde, il cardinale: i nemici di ieri sono diventati, oggi, i suoi camerieri.


La mia anarchia

di Pino Cacucci

«Ma mi dica, mi tolga questa curiosità: voi anarchici, che diamine volete?»

C orreva l’anno... 1974, se ben ricordo. A Chiavari contribuivo a fondare il Gruppo Durruti del Tigullio, e ogni tanto andavo a Genova dove frequentavo gli anarchici del circolo Pietro Gori, e tra loro il più anziano era Giuseppe Pasticcio, mai visto senza l’eterno fiocco nero al colletto della camicia lisa. In quel periodo partecipai anche a un comizio di Paolo Finzi, distribuendo copie di A con ossessionante impegno, convincendo ad acquistarla passanti che, pochi minuti prima, mai avrebbero immaginato di tornare a casa con quella rivista in tasca. Forse mi misi un po’ troppo in evidenza...
Perché il caso volle che a quel comizio, tra i poliziotti in servizio di ordine pubblico, vi fosse un mio ex compagno di scuola (e in questo caso compagno è parola inopportuna) arruolatosi in polizia per il servizio militare. E spifferò al superiore di turno come mi chiamavo e dove abitavo. Me lo avrebbe rivelato lui stesso qualche tempo dopo, dicendo che mi aveva visto “così convinto in prima fila” da sembrargli un fanatico, insomma, a suo parere, lo aveva fatto “per il mio bene”. Erano anni tesi, i 70, e bastò quella vigliaccata a farmi schedare alla questura di Genova, una traccia indelebile per tanto tempo, al punto che una quindicina di anni più tardi, andando a rinnovare il passaporto alla questura di Bologna, dove ormai risiedevo da tempo, al momento di ritirarlo mi sono sentito dire dall’agente “preposto”: «Stiamo ancora aspettando il nullaosta da Genova, sa, lei è schedato là…». Infine, dovetti andare ai piani superiori, per riavere il passaporto, dove sostenni un dialogo dell’assurdo con una simpatica poliziotta, che esordì: «Vede, io so tante cose degli autonomi, dei lottacontinui, dei potereoperaisti, dei maoisti-linea-dura-filoalbanese… ma mi dica, mi tolga questa curiosità: voi anarchici, che diamine volete?».
Risposi serafico: «La pace nel mondo».
Sbottò allargando le braccia: «Eh, già, come no, pure io la vorrei, ma mi faccia il piacere, mi faccia».
E mi ridiede il passaporto rinnovato.
A Chiavari, prima ancora di diventare anagraficamente maggiorenne, frequentavo un’osteria dal soprannome curioso, “U sucidu”, per via del puzzo di vino rancido, il fumo, i tavoli con un dito di grasso sopra… be’, un po’ sudicio sì, ma era un bel posto. Lì ci andava spesso Roberto Leimer, e intorno a lui ci radunavamo in vari ragazzi, attratti un po’ dal suo eloquio impastato, un po’ dall’aria bohemien, e molto dalla sua generosa capacità di invettive libertarie pacate ma incrollabili. A rivista anarchica era sempre al centro delle nostre discussioni, bevevamo ogni articolo con appassionato interesse, ci apriva finestre su realtà anarchiche e di lotta in tanti posti del mondo e nel resto d’Italia, ci sentivamo meno provinciali ogni volta che arrivava il prezioso pacchetto da Milano da andare a vendere in giro, dopo che ognuno di noi ne acquistava subito una copia per sé; eravamo quattro o cinque in tutto, con punte di sei alle riunioni della domenica mattina, quando l’unico che lavorava poteva permettersi di venirci.
Per la sede del Durruti, affittammo una sorta di ripostiglio di fianco a un fornaio, che non serviva neppure come garage, dove il problema principale era il puntuale rigurgito di liquami fognari ogni volta che pioveva. Forse era per questo che durante le frequenti riunioni avevamo tutti la faccia schifata: non era disprezzo per la società borghese, ma semplice puzza di cacca. Un giorno presi la situazione in pugno: comprai un sacco di cemento e tappai il tombino interno. Il giorno dopo, venne giù una povera signora dicendo che la casa era allagata di merda. Tappi da una parte, sfoga dall’altra.
Insomma, avevamo più problemi con le fognature che con la polizia.
Dopo quei tempi squinternati del gruppo anarchico del Tigullio (che per chi non lo sapesse non è il nome di un rivoluzionario paraguayano ma del golfo su cui si affaccia anche Chiavari), venne il tempo di migrare… L’università a Bologna era un buon pretesto per andare a vivere da solo, con un gruppetto di sciamannati come me. E Giuseppe Pasticcio, figura storica dell’anarchismo genovese, mi scrisse una commovente lettera di “presentazione” per i compagni dei circoli bolognesi: la conservo ancora, inizia con la frase “potete avere fiducia nel nostro compagno Cacucci”… E sulla sua firma tremula, un bel timbro con la A cerchiata dalla scritta “Circolo Studi Sociali Pietro Gori”. Erano tempi così, da candore carbonaro.
Quando la feci vedere al Cassero di Porta Santo Stefano, ricordo lo sguardo tra il divertito e lo stupito degli “anziani”, che sembravano voler dire: “da quando in qua ci vuole la lettera di raccomandazione per dichiararsi anarchici?”. Allora c’erano Libero Fantazzini e la sua compagna Maria, presenze costanti di ogni assemblea, riunione, manifestazione, tutto. Instancabili, anche a ottant’anni suonati. Libero non ci vedeva granché, anzi un occhio non ce l’aveva proprio, eppure guidava la sua Simca impavidamente. Una sera arrivò tardi, e non era da lui: aveva scambiato una luce rossa di un cantiere di lavori in corso per un semaforo, e dopo essere rimasto fermo un quarto d’ora e forse più, Maria lo aveva esortato a ingranare la marcia. Libero non parlava volentieri del figlio Horst, che stava in galera per quasi l’intera vita senza aver mai sparato a nessuno, il rapinatore gentile che mandava fiori alle cassiere spaventate, ora c’è pure un film, Ormai è fatta, tratto dal suo libro di memorie, con Stefano Accorsi a interpretare lui, e l’ottima regia di Enzo Monteleone. Curiosa, la vita: Monteleone lo avrei conosciuto quando scriveva la sceneggiatura di Puerto Escondido. Horst invece lo avrei conosciuto poco prima che tornasse in cella, a morirci.
Libero voleva un gran bene a quel suo figlio ribelle, troppo ribelle persino per lui, che era di quegli anarchici per i quali l’onestà dev’essere di esempio al resto del mondo, compresa l’onestà “borghese”. Ma non ne parlava quasi mai, a noi giovanotti che scrivevamo a Horst in carcere e lo consideravamo un compagno anarchico a tutti gli effetti.
Tornando ai tempi liguri, Fabrizio De André era una presenza fissa nelle orecchie come nel cuore e pure nelle viscere, e come poteva essere altrimenti, poi, quando viveva in Sardegna, nella grande casa colonica nei pressi di Tempio Pausania, a qualche anno di distanza dalla brutta esperienza del sequestro, gli telefonai per chiedergli l’ennesima firma in un appello per chissà quale ennesima ingiustizia. Fabrizio non si faceva pregare neppure per fare concerti in sostegno di A rivista anarchica, e ovviamente mi disse che firmava, anzi, mi invitò ad andarlo a trovare. E me lo avrebbe ripetuto altre volte, ma per i casi della vita, è finita che all’Agnata ci sono andato solo dopo che lui non c’era più. E questo mi rimane come rimpianto.
Poi, il primo viaggio in Messico, il secondo... e a un certo punto vivevo più a sud del Rio Bravo che a sud del Po. Il Messico mi ha dato molto, se non tutto, per cominciare a raccontare storie scritte. E là ho potuto approfondire figure dell’anarchismo messicano di cui avevo soltanto letto su A, anni addietro: i fratelli Flores Magón, con l’utopia della rivoluzione libertaria nella Baja California, e Praxedis Guerrero, che nella Revolución era niente meno che “generale”, ma con Pancho Villa i generali erano comandanti in combattimento, non certo militari con i gradi. E cominciando a tornare da questa parte dell’oceano, con lo scrivere che gradualmente diventava un mestiere, pur restando una passione, su quelle pagine di A che da ragazzo leggevo avidamente, avrei preso a scriverci pure io, certo sporadicamente, di sicuro meno di quanto vorrei, ma sempre trovando interesse in chi leggeva, o magari in alcuni casi suscitando dibattiti e qualche critica per l’eccessiva irruenza di certe mie prese di posizione, l’essenziale è coltivare dubbi, perché gli anarchici hanno convinzioni ma mai certezze assolute: certo, la mania di spaccare i capelli in quattro ci perseguita, a volte ci immobilizza, però, l’immensa varietà di opinioni che in questi quarant’anni hanno trovato puntualmente posto sulle pagine della nostra irrinunciabile rivista, sono un patrimonio che rende più ricca la mente e più forte il cuore.
Lunga vita ad A, che coltiva dubbi, informa, induce a riflettere e approfondire, perché il mondo è troppo complesso per non essere anarchici.


Una rivista
da studiare (e diffondere)

di Pippo?Gurrieri

Nel 1977 è nata la nostra Sicilia Libertaria

Il 2011 è anche il mio compleanno anarchico: 40 anni di militanza. Era il 29 agosto del 1971 quando, con altri ragazzi, decidemmo di abbandonare la FGCI e di aderire al movimento anarchico, allora a Ragusa “rappresentato” da Franco Leggio, un giovane di 50 anni che ci attraeva maledettamente e la cui casa-sede-libreria-covo frequentavamo già da qualche mese.
Fu proprio Franco a consigliarci di contattare A – rivista anarchica, allora neonata pubblicazione dall’impatto molto giovanile, e anche Umanità Nova, la storica testata della FAI, per distribuirle. Così per tutti questi anni queste sono state le mie fedeli compagne di strada, tra le poche che hanno resistito a venti e tempeste, a ce ne sono stati... Per noi giovani dell’estremo Sud questi giornali rappresentavano spesso i nostri soli modi di essere a contatto col movimento; senza di essi forse non ce l’avremmo fatta.
“A” l’ho sempre considerata una rivista da studiare, oltre che da diffondere, e anche se non sempre ho condiviso il contenuto dei suoi articoli, la sua autorevolezza è rimasta intatta negli anni, e anzi, posso dire, ora che faccio parte anch’io dei “vecchi”, che negli ultimi anni si è perfino accresciuta, per quella sua particolare attitudine, coerentemente mantenuta, a portarci il nuovo che nel mondo libertario, antiautoritario e anarchico planetario si è via via presentato; ma soprattutto per una caratteristica che mi è stata sempre molto a cuore: quella di rivolgersi ad un pubblico “esterno”, una rivista, potremmo dire, con un termine che fa arricciare il naso a qualcuno, di propaganda. Anche.
Con questo spirito, infatti, nel 1977 è nata la nostra Sicilia libertaria: avere come riferimento tutto quel mondo libertario, a volte anche inconsapevolmente libertario, che nei luoghi di lavoro, nella scuola, nel sociale rappresenta il nostro referente privilegiato; quindi un giornale prodotto per dire qualcosa a chi anarchico non è, con l’obiettivo di ampliare le simpatie e l’impatto delle nostre idee.
Chi avrebbe poi detto che anche Sicilia libertaria sarebbe riuscita a superare l’età della fanciullezza, ed oggi, con suoi 34 anni, fa oramai parte della schiera dei pochi giornali anarchici italiani abbastanza longevi, assieme alle sorelle maggiori A e UN.
Quelli che scrivevano su A e UN, e che noi dal lontano Sud vedevamo, come i “mostri sacri” dell’anarchismo, poi sono diventati compagni con cui condividere tante cose, con cui ci si capisce pur nella diversità, con cui si ha il piacere di collaborare, di incontrarsi in giro per l’Italia, a conferma di come, giustamente, nel nostro movimento la pubblicazione di un giornale, una rivista, un bollettino, abbia una sua “sacralità”, rappresenti un fattore aggregante, sia spesso l’anima stessa dell’anarchismo.
Quindi, i più sentiti auguri ad A per i prossimi 40 anni.


L’ingombrante zavorra
della tradizione

di Rossella di Leo

Ben presto “A” diventa l’ambito in cui discutere e ragionare delle attività concrete, delle sperimentazioni in atto, della riflessione critica sull’agire

L’avventura politica ed editoriale di “A” segna, in quel 1971, anche l’inizio di un progetto culturale più articolato che si sviluppa nel corso del tempo (ma in particolare in quel decennio) su spinta dello stesso gruppo di anarchici milanesi che ha appena dato vita alla rivista. Nascono così alcune iniziative culturali ed editoriali tra loro collegate, i cui specifici modi di operare e i cui diversi codici di comunicazione si integrano in una visione complessiva ben precisa: dare visibilità e coerenza alla proposta anarchica contemporanea.
(Mi permetto qui un ricordo personale sulla nascita di “A”, che ha coinciso con l’inizio della mia storia in quel gruppo di anarchici milanesi. Li ho conosciuti esattamente quando è uscito il primo numero della rivista, che il collettivo di studenti anarchici della Statale di Milano, di cui facevo parte, era andato a ritirare per la vendita diretta in università. Era febbraio, ma nello scantinato un po’ freddo e buio di piazzale Lugano 31, per qualche mese sede della rivista prima del trasferimento in via Rovetta 27, l’entusiasmo tangibile scaldava anima e corpo. Ho preso un pacco da 90 copie del primo numero – quello molto spartano con la famosa frase di Proudhon – e la mattina dopo mi piazzavo all’ingresso della Statale a vendere la rivista. Mi ero preparata a passare lunghe ore al gelo e invece sono stata assalita da una torma di studenti incuriositi che mi strappavano letteralmente il giornale di mano. Nel giro di mezz’ora avevo esaurito le copie disponibili. Wow! Ma allora gli scantinati funzionano, mi sono detta. E da allora, fino a oggi, ho passato molto del mio tempo due metri sotto il livello della strada).
Come testimonia la storia di “A”, i primi anni sanciscono (in sintonia con i tempi) un progressivo passaggio dall’attenzione prevalente verso la militanza “politica” (peraltro già in bilico tra modalità convenzionali e modalità post-sessantottine) all’attenzione prevalente verso le tante progettualità sociali e culturali libertarie che nascono tumultuosamente in quegli anni di rapida espansione dell’anarchismo. Inizialmente, il giornale è infatti concepito come uno strumento di supporto all’attività militante, ma già svolge una peculiare funzione di aggregazione per una rete di gruppi e situazioni molto diffusa e ancora poco interconnessa proprio per il suo carattere “spontaneo” (un punto di aggregazione peraltro postmoderno, nel senso che esula dalle tradizionali opzioni organizzative del movimento esistente: le federazioni, i gruppi ecc.).
Ben presto “A” diventa l’ambito in cui discutere e ragionare delle attività concrete, delle sperimentazioni in atto, delle aspettative in mutazione, della riflessione critica sull’agire. E proprio da qui si dipartono altre necessità di approfondimento che approdano a ulteriori articolazioni del medesimo progetto culturale. Così, nel 1974 viene fondata, insieme a Louis Mercier Vega, la rivista internazionale di studi “Interrogations”, nel 1975 vengono costituite, sulla scia dell’impegno di Pio Turroni, le Edizioni Antistato, nel 1976 si costituisce il Centro studi libertari/Archivio Giuseppe Pinelli, nel 1977 apre la Libreria Utopia e infine nel 1980 approda a Milano la storica rivista “Volontà”. In poco meno di un decennio si crea dunque un contesto culturale che cerca di mettere insieme, con un respiro volutamente internazionale, ambiti di riflessione sempre più ampi con livelli di approfondimento e sperimentazione sempre più diversificati.
Non si può far qui la storia di tutte queste iniziative (per le quali rimandiamo allo studio fatto da Luigi Balsamini e scaricabile dal sito www.centrostudilibertari.it). Alcune chiuderanno, come “Interrogations” nel 1979 e “Volontà” nel 1996; altre si trasformeranno, come le Edizioni Antistato diventate Elèuthera nel 1986; altre ancora nasceranno in tempi successivi, come “Libertaria” nel 1999, o passeranno di mano, come la Libreria Utopia.
Ma quello che qui ci interessa sottolineare è che tutto questo progetto editorial-culturale messo in moto dal nucleo fondatore di “A” nasce da una esigenza impellente di ripensamento e rifondazione dell’anarchismo. Questi (allora) giovani anarchici sperimentano in maniera forte l’esaurirsi storico di un modo di agire e pensare tradizionale (poi definito “anarchismo classico”) che non risponde più alle esigenze e alle aspettative della contemporaneità. E questo sprona a riconsiderare tattiche e strategie (terminologia ancora intrisa di un linguaggio politico poi tramontato), o meglio a rintracciare nella ricca, feconda e talvolta contraddittoria sperimentazione libertaria in atto gli itinerari possibili di un’azione nel qui e ora.
Forse il loro limite (parlo alla terza persona ma ci sono dentro anch’io) è di non essere stati capaci di togliersi dalle spalle l’ingombrante zavorra della tradizione, in particolare nella versione volgarizzata che hanno ereditato dalla seconda metà del Novecento, e procedere più leggeri (e con meno sensi di colpa) verso una radicale rielaborazione e attualizzazione dell’anarchismo. Cosa che in altri paesi e in altre culture è stata fatta senza tanti patemi. Merito forse anche di altre generazioni che non hanno vissuto gli stessi anni e soprattutto gli stessi miti. Noi tutto sommato eravamo ancora figli della resistenza, dell’antifascismo, della rivoluzione spagnola e del proletariato militante. Figli appunto, non protagonisti, quelle storie ci commuovevano, ma non erano più le nostre. Eppure non abbiamo avuto la capacità emotiva di tagliare con un colpo secco quel cordone ombelicale che ci ha incatenato a un passato glorioso, sì, ma irrimediabilmente passato.


Carcere no grazie

di Sergio Onesti

L’abolizione del carcere è un obiettivo di civile e umana convivenza sociale

Abolire il carcere è una scelta concreta e non utopistica, razionale e non ideologica, ma è soprattutto una scelta etica. Il modello attuale del sistema sanzionatorio occidentale è quello della reclusione tout court dei condannati e cioè di isolamento–stoccaggio-riciclaggio dei soggetti ritenuti rifiuti sociali da confinare in una vera e propria discarica sociale quale è il carcere, ove viene praticata istituzionalmente la privazione di ogni legame sociale, fisico ed intellettuale in danno del condannato.
La nostra critica nei confronti del sistema penitenziario, non solo italiano, è incentrata sul trattamento riservato ai detenuti, che presenta le seguenti caratteristiche: 1) individualizzante, come se il crimine fosse il risultato solo di una scelta personale senza alcuna determinazione sociale e come se fosse possibile nelle attuali condizioni di sovraffollamento carcerario assicurare al condannato un trattamento rieducativo ad personam; 2) premiale, dove ciò che viene richiesto al detenuto è di accettare passivamente la pena senza mettere in discussione né la propria condotta né tantomeno l’istituzione carceraria; 3) differenziato, poiché i detenuti sono “diversi” non solo dagli altri cittadini, ma anche fra di loro in quanto il regime penitenziario al quale sono sottoposti è diversificato tra: “comuni”, “tossicodipendenti”, “alta sicurezza”, “41 bis” ed addirittura al loro interno in sezioni esclusive, e ciò a tacere delle differenziazioni per etnia, per religione, ecc. Tali pratiche di eccezione poste in essere dal sistema penitenziario mirano all’isolamento del condannato, all’annichilimento della coscienza e della volizione dello stesso, oltre che alla brutalizzazione dei corpi tanto sotto il profilo psichico quanto sotto quello fisico.
Il sistema punitivo moderno, pur fondandosi teoricamente sul rifiuto della tortura e della violenza, e quindi a salvaguardia del principio dell’intangibilità dei corpi reclusi, non si preoccupa né di conservare la salute fisica e psichica del detenuto né tantomeno di aprire prospettive di riabilitazione e di reinserimento sociale. Basti ricordare, oltre alle limitazioni/esclusioni della sfera sessuale, alimentare e sanitaria, lo straordinario numero di suicidi che colpisce la popolazione detenuta in Italia, il cui indice è dieci volte più elevato rispetto a quello dei suicidi nella restante popolazione. Il carcere è sempre di più il dispositivo “troppo pieno” della società: non c’è lavoro, non ci sono case, non ci sono pari opportunità, non c’è evoluzione sociale e così, mentre le porte della società si chiudono, si spalancano contemporaneamente quelle del carcere: per i giovani, per gli immigrati e per tutti coloro che vengono espulsi dai processi produttivi e da quelli di integrazione sociale.
Al 31.8.2010 la popolazione detenuta in Italia era pari a 68.345 individui (a fronte di una capienza regolamentare di 44.608 unità) di cui 1.830 internati per lo più in ospedali psichiatrici giudiziari, 24.981 stranieri e 2.995 donne. Tale drammatica situazione è il risultato dell’ossessione securitaria che pervade la nostra società e che vede il proliferare di una legislazione “carcerogena”, costituita ad esempio dalla legge stupefacenti, dai vari decreti sicurezza, ecc. e che prevede il carcere come unica risposta capace di sospendere il crimine senza toccare le cause che lo hanno determinato. È più facile costruire nuove carceri piuttosto che cercare soluzioni sociali; è preferibile confinare i “cattivi” in carcere, piuttosto che prevenire le cause del crimine, reinserire i condannati ed occuparsi delle vittime del reato. Proporre l’abolizione del carcere non è pertanto né una provocazione intellettuale né un progetto utopico, ma l’unica scelta etico-culturale capace di opporsi al giustizialismo come unica soluzione ai problemi sociali; alla criminalizzazione di qualsivoglia comportamento, soprattutto giovanile, deviante e trasgressivo; e di ricercare una modulazione del trattamento sanzionatorio che abbia fini non solo di segregazione, ma anche compensatori, restitutori, riparatori o risarcitori. In altri termini è sempre più una necessità culturale e civile non pensare più al carcere come un “male necessario” né come unica ed esclusiva modalità di espiazione pena.
Solo una società senza carceri, come auspicano gli anarchici, o a carcerizzazione limitata, come vorrebbe qualche criminologo riformatore, può consentire l’elaborazione e la pratica di nuovi strumenti di dialogo, composizione e superamento del conflitto intrapersonale e sociale che ha dato causa al delitto senza abbandonare a se stessi tanto il reo quanto la vittima dal reato. Ecco perché l’abolizione del carcere rimane un obiettivo di civile e umana convivenza sociale il cui raggiungimento è, però, affidato alla capacità di concepire e progettare una società liberata dallo stato o quantomeno una società che riesca a prescindere da un modello punitivo ove il carcere costituisce l’unica ed esclusiva modalità di espiazione della pena.


Sentieri in Urupia

delle comunarde di Urupia

I principi fondanti del progetto sono
essenzialmente due, la proprietà collettiva
e il consenso nelle decisioni

Dal 1995 la comune Urupia si propone come esperimento politico e sociale.
La sua collocazione geografica nell’alto Salento, terra di frontiera ma apprezzata mèta di pellegrinaggio turistico- musicale, ne ha favorito la conoscenza e frequentazione da parte dei più svariati esemplari umani: pur essendosi la comune caratterizzata fin dalle sue origini come progetto di chiara impostazione libertaria e anarchica, le sue interlocutrici e sostenitrici fanno riferimento a un’area ben più vasta nel cosiddetto universo alternativo anche europeo.
Urupia è una comune aperta che offre ospitalità a chi è interessata a vivere e condividerne gli ideali e la fatica di realizzarli.
I principi fondanti del progetto sono essenzialmente due, la proprietà collettiva e il consenso nelle decisioni, intesi come strumenti attraverso i quali poter realizzare l’uguaglianza economica, politica e sociale.
Grazie ai 26 ettari di terreno e alle strutture di proprietà dell’associazione Urupia, la sopravvivenza materiale della comune è basata prevalentemente sul lavoro agricolo- olio, vino, pane, frutta e ortaggi e relativi trasformati- e sulle attività sociali e culturali periodicamente proposte in sede- campeggi per fanciulle, iniziative politiche, feste, presentazione progetti e documenti… Inoltre una delle comunarde svolge il suo lavoro di maestra nella scuola pubblica.
Coerentemente con i presupposti antiautoritari del progetto la comune si è fin da subito, e in crescendo, dotata di tecniche e tecnologie finalizzate a ridurre l’impatto ambientale quotidiano:
riciclo delle acque tramite impianto di fitodepurazione , solare termico e fotovoltaico per la produzione di acqua calda e energia elettrica, riscaldamento degli ambienti attraverso caldaie a biomasse provenienti da produzioni agricole locali. Le coltivazioni e la cura dei terreni vengono da sempre condotte secondo i principi e le tecniche di un’agricoltura rispettosa non solo dell’ambiente e delle sue risorse ma anche delle persone.
Dal 2002 i prodotti della comune sono commercializzati dalla “cooperativa la Petrosa” fondata e gestita dalle comunarde di Urupia. Pur avendo come riferimento anche i più stretti parametri dell’agricoltura biologica, i prodotti non sono certificati per precisa scelta da nessun marchio nella convinzione che mai alcuna delega possa offrire garanzia e sicurezza su qualsivoglia aspetto dell’esistenza.
A Urupia il neutro plurale parla femminile.


Il progetto e i suoi tranelli

di Valentina Volonté

Per chi si trova ad agire nello sfaccettato mondo del “sociale”, la parola progetto ha un sapore magico

Negli ultimi dieci anni la parola “progetto” è stata, credo, la più pronunciata da me e dalle persone che mi circondano.
Il progetto era (ed è) il nostro modo di pensare che le idee di cambiamento e trasformazione della società, con dosi massicce di volontà e passione politica, potessero concretizzarsi e diffondersi a spirale.
Per chi si si trova ad agire nello sfaccettato mondo del “sociale”, la parola progetto ha un sapore magico, performativo quasi. Quando con i soci e socie della cooperativa Alekoslab, ci siamo imbarcati in quest'avventura auto-imprenditoriale tra autogestione e auto-sfruttamento, abbiamo espresso bisogni e desideri, cercando di costruire una realtà lavorativa a misura dei nostri sogni. Abbiamo messo nero su bianco gli obiettivi, le idee, lo stile, la qualità: abbiamo scritto un progetto. Ovviamente, il progetto si è trasformato nel tempo, ma era e resta l'espressione diretta di un piccolo gruppo di persone che si sono scelte e che condividono un orizzonte comune.
Cosa succede invece quando come operatori sociali ci troviamo ad operare in contesti nei quali il bisogno è formulato da un'amministrazione pubblica? “I giovani in questa città non partecipano, non hanno voglia di niente, sono demotivati, non riusciamo a coinvolgerli nelle proposte dell'assessorato alle politiche giovanili”: allora chiamiamo degli esperti che con il loro bagaglio di tecniche e saperi risolveranno il problema. Come? Attraverso un bel progetto!
Si ripetono parole come esperto, partecipazione, democrazia, locale, affinità; il difficile è cercare di trovare dei significati condivisi con delle persone che spesso hanno percorsi e pratiche politiche distanti o addirittura opposte. Il progetto dovrebbe quindi creare una realtà a nostra immagine e somiglianza, di comune accordo tra gli esperti e gli amministratori. Ecco però un cortocircuito: è possibile scatenare e poi gestire la spontaneità dell'immaginazione delle persone, e dei giovani in particolare, attraverso delle tecniche? E mettere queste tecniche al servizio di amministrazioni quasi sempre espressione di un potere che contesto? È giusto cercare di progettare legami sociali migliori? Evocare l'autogestione come orizzonte, quando la realtà è tanto lontana dalle pratiche che sosteniamo? Dubito e oscillo e mi riempio la giornata delle persone che incontro quotidianamente nella loro diversità, delle relazioni anche conflittuali che nessun indicatore di qualità può misurare; solo il senso di umanità che esiste prima di ogni teoria. E comunque i tranelli aiutano a stare svegli...
Alekoslab cooperativa sociale


Primo passo,
le relazioni umane

Sono felice di essermi trovata davanti una generazione che punta a coltivare le relazioni umane come primo passo verso l’anarchismo

di Valeria Giacomoni

Le domande che mi sono state fatte ultimamente sull’anarchismo mi hanno fatto riflettere molto e mi hanno aiutato a delineare il “mio anarchismo”.
Confrontarmi con persone diverse e ascoltare punti di vista, apprezzare o meno comportamenti, tutto contribuisce alla nostra formazione. Perché l’anarchismo è per me qualcosa che ognuno si costruisce, un modo di vivere in cui ognuno trova la sua coerenza. E che il nome non faccia pensare a questo l’ho capito da subito, dalla connotazione negativa con cui si presenta in una piccola città del Nord Italia. Poi ho scoperto un anarchismo per me “costruttivo” attraverso la storia della guerra civile spagnola e ho avuto la fortuna di assaporare questo modello di vita attraverso l’Ateneu Enciclopèdic Popular a Barcellona, che mi ha permesso di incontrare chi un altro mondo l’ha conosciuto e chi continua a lottare per un ideale.
Con curiosità e costanza mi sono avvicinata a un modo di vivere per me sconosciuto e che non è spiegato in nessun libro; il modo di relazionarsi con gli altri è qualcosa che si impara solo vivendolo. Poco a poco, e grazie anche all’educazione ricevuta, sono riuscita ad uscire dagli schemi imposti da una società disumanizzante e ho imparato a “utilizzare” quella disponibilità verso il prossimo che viene trasmessa a noi donne in maniera positiva e non “passiva”. Ho imparato ad intervenire in assemblee, a non avere paura ad esporre i miei dubbi e il mio punto di vista.
Questo processo è passato per la scrittura: mi risultava più semplice scrivere quello che pensavo che non esporlo a voce. Ho iniziato così a collaborare con qualche rivista spagnola e in “A” ho trovato la valorizzazione del mio pensiero ed il posto perfetto per condividere sensazioni e inquietudini.
Sono felice di essermi trovata davanti una generazione che punta a coltivare le relazioni umane come primo passo verso l’anarchismo, piuttosto che pensare a grandi azioni. Sorrido quando qualcuno si sorprende di conoscere persone che si definiscono anarchiche e non corrispondono allo stereotipo che offrono i mass media. Sorrido nel vedere che se è una ragazza dal viso pulito e sorridente a chiedere la rivista “A”, le si offre una rivista per imparare a fare a maglia…e mi piace vedere molte persone intorno a me che si comportano in un modo che per me è anarchico ma si sentono completamente estranei a questa definizione. Non è certo importante l’etichetta quanto la coerenza che ognuno trova nel suo modo di comportarsi.


Quarant’anni
di anarchia a Bologna

di Walter Siri

L’anarchismo bolognese è sempre stato molteplice e variegato

Sempre più spesso rileggo il tempo passato e mi “spavento” per quanto lungo è diventato il racconto. Fra due anni festeggeremo i quarant’anni d’uso del “cassero” di porta Santo Stefano dove ha sede il circolo anarchico “Camillo Berneri” di Bologna.
Ho cominciato a frequentare il movimento ben prima di questa presa in uso dei locali (che il comune di Bologna concesse tardivamente agli anarchici quale risarcimento delle distruzioni operate dal fascismo); ricordo le ripide scale del circolo “Cafiero” di via Paglietta; ma il grosso dell’attività, soprattutto negli anni ‘70, si svolgeva nei luoghi di vita, studio e lavoro, nelle strade e nelle piazze. Abbiamo cominciato, sarebbe bene dire, visto che la mia compagna di vita, Tiziana, ha condiviso fin da allora la comune attività sociale, culturale, progettuale che caratterizza l’anarchismo.
Dopo quarant’anni siamo un po’ la memoria dell’anarchismo bolognese assieme ad altri compagni e compagne che sono ancora attive. Queste righe per “A” cercheranno di fare il punto di quest’esperienza anche se i vari momenti, le fasi, le campagne, dovranno essere viste a “volo d’uccello”.
L’anarchismo bolognese è sempre stato molteplice e variegato non fosse altro per l’importanza che l’Università riveste nella vita politica, sociale, culturale ed economica della città. Migliaia sono le donne e gli uomini che, studenti fuori-sede, hanno attraversati i circoli, i locali, le librerie, i gruppi, i collettivi, le associazioni del movimento anarchico e libertario bolognese; apportando, ognuno/a il suo contributo specifico al movimento. Fortunatamente, il movimento è anche composto da tante e tanti “autoctoni” o “nomadi” che hanno trovato una collocazione stanziale nella città e nella provincia.
Così come la caratteristica dell’anarchismo come componente del movimento operaio si è sempre manifestata nella nostra città con una presenza diffusa e vivace degli anarchici nel mondo del lavoro e nelle lotte che questo mondo esprime.
Parlando di Bologna e del movimento con questa prospettiva memorialistica è d’obbligo soffermarsi sul “movimento del ‘77”. In effetti, in quel movimento c’era molto dell’anarchismo bolognese e, di converso, l‘anarchismo della città è rimasto influenzato da quell’esperienza. A ben vedere, il 1977 è stato l’anno della morte del movimento, della sua sconfitta sul piano sociale prima ancora che su quello militare. Ciò che lo aveva preceduto era un decennio nel quale per molti di noi la rivoluzione era non solo auspicabile ma possibile, quasi a portata di mano.
Il politicismo che spesso sfociava nel politicantismo aveva cercato di normalizzare i movimenti, soprattutto operai e studenteschi che si erano manifestatati in quegli anni. Ma stagione dopo stagione l’anarchismo riprendeva il sopravvento: le istanze politiche rifluivano ed il movimento avanzava. Nella prima metà degli anni ‘70, a Bologna, si contavano 6 locali esplicitamente anarchici e contemporaneamente l’anarchismo permeava innumerevoli altre esperienze. L’essere variegato poneva il movimento nelle condizioni di contaminare partecipando anche istanze che non si caratterizzavano in modo specifico.
Anche oggi, molte delle situazioni “di movimento” (centri sociali, collettivi di lotta, coordinamenti, sindacati di base) vedono una significativa presenza anarchica e libertaria. L’anarchismo, com’è evidente, oltrepassa e sopravvive alle stagioni, continuando la sua azione di sovversione sociale.


Appunti
sull’utopia concreta

di Zelinda Carloni

L’errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società “modello”

Infausto errore è la pretesa che la politica sia una scienza, un due più due quattro. In realtà ciò che ha a che vedere con il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi (che poi è quella, la società) è una tecnica, un artigianato sapiente ma niente più, e non ha e non dovrebbe avere niente a che fare con la “scienza”.

• I “paradisi perduti” possono essere perduti facilmente quando non siano mai stati conquistati.

• L’aspirazione ad una società umana armonica e “felice” non va confusa con la nostalgia della perfezione primigenia: è piuttosto il desiderio di impadronirsi di un bene che deve essere conquistato dalla coscienza prima ancora che dall’esperienza.

• Parole come evoluzione, sviluppo, arretratezza hanno a che vedere con una concezione storica che dà per scontato che comunque il tempo proceda verso la perfezione, ed è una forma paradossale di utopismo.

• Dall’utopia concreta è inutile aspettarsi la “redenzione” degli uomini: è l’organismo sociale che deve essere compiutamente armonico, e non è necessario perché questo accada che ogni individuo si trasformi in una specie di asceta.

• La dinamica delle società storiche si è sempre appropriata di un presunto diritto all’istituzionalizzazione; questa pratica, purché abbia un inizio, diviene aberrante, e si moltiplica in modo mostruoso fino a tentare di definire, secondo regole e norme, qualunque comportamento o scelta degli individui. In effetti, la presunta efficienza della società si riduce ad una forsennata attività di moltiplicazione delle sue forme nelle quali in nessun caso potrà far riquadrare tutti i soggetti sociali.

• Ogni ipotesi che prospetti una utopia concreta deve partire dal presupposto che gli uomini non sono uguali, non sono prevedibili scientificamente e non rispondono necessariamente alla stessa maniera in determinate circostanze.

• L’errore di molti utopisti è stato quello di prefigurare una società “modello”, una agiografia di società che, per il fatto stesso di essere agiografica, commuove ma non convince. L’utopia concreta deve poter partire dal presupposto che l’uomo è ciò che è: una mistura indecifrabile, e niente affatto scientificamente definibile, di possibilità, passioni, generosità, meschinità e di tutti quegli attributi che solo la poesia può esplorare, ma nessuna scienza. Lasciarsi convincere che questo presupposto infici ogni possibilità di “altro da questo” è una forma di vigliaccheria intellettuale. Perché è certo che questo dato rende più complessa l’elaborazione di un progetto sociale, ma è falso che ne impedisca la formulazione. L’anomalia, la perversione, la negazione vanno previste e accettate, anche perché niente e nessuno le potrà mai eliminare.


40 ANNI. 358 COPERTINE.
Dal numero 1 al 26 il formato della rivista era di cm 31,5x43.
Dal numero 27 in poi il formato della rivista diventa di cm 20,5x29.


INTERVISTA A UN REDATTORE DI "A".

La nostra storia

La (mia) vita dalla a alla “A”

Intervista a Paolo Finzi
di
Adriano Paolella

Nata poco più di un anno dopo la strage di piazza Fontana (sull’onda della mobilitazione che ne seguì), “A” ha attraversato quattro decenni di storia italiana cercando di capire quel che accadeva, di dar voce a chi si opponeva, di tenere vivi la riflessione e il dibattito.
Ne parliamo con l’unico componente del gruppo fondatore della rivista ad essere tuttora nella redazione.

La rivista “A” compie 40 anni.
Com’è nata l’idea di questa rivista?
La rivista festeggerà nel febbraio 2011 i suoi 40 anni, il primo numero uscì infatti nel febbraio 1971. Ha avuto una fase di gestazione di alcuni mesi, a poco più di un anno dal 12 dicembre 1969, ed è certamente figlia della strage di Piazza Fontana, dell’assassinio di Giuseppe Pinelli e della campagna di controinformazione all’indomani della strage.
Il gruppo iniziale della redazione era composto per la maggior parte da compagni/e del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, il circolo di Pinelli. Io allora avevo 18 anni ed ero uno degli elementi più giovani del gruppo redazionale, per circa un anno fece parte della redazione anche un “romano”, Guido Montana, che in seguito uscì dalla redazione e dal movimento anarchico.
Prima del ‘69 e delle bombe del 12 dicembre non c’era l’idea di una rivista?
No. Infatti la rivista dal punto di vista finanziario nacque con una raccolta di fondi all’interno del gruppo promotore, l’intento era di coprire i costi dei primi tre numeri. L’orientamento era di fare comunque tre numeri mensili di “A” e poi si sarebbe valutato se continuare a secondo dell’accoglienza e delle reazione degli anarchici. Se il responso fosse stato positivo, si sarebbe andati avanti con i soldi delle vendite e di nuove sottoscrizioni. Il fondo utilizzato per la rivista “A” era costituito dai soldi raccolti da alcuni compagni del Circolo Ponte della Ghisolfa per un progetto d’acquisto di un cascinale disabitato in Toscana, nel paesino di Solata, per costituire una comune tipo città-campagna. Io non facevo parte del progetto della comune promosso dai compagni più vecchi, che avevano un età intorno ai 23-29 anni.
Con la strage di Piazza Fontana e la necessità di fare controinformazione i soldi raccolti vennero usati per creare la nuova rivista.

Il capitale iniziale era quindi abbastanza consistente?
Si erano raccolti più di un milione di lire di allora, che bastavano a pagare l’uscita di due o tre numeri della rivista. Oltre alla volontà dei compagni e alla situazione politica, la rivista guardava anche allo stato della stampa anarchica che allora era rappresentata da Umanità Nova. il settimanale che usciva regolarmente dal 1945, la cui redazione periodicamente cambiava di località. UN era pubblicato a Roma con una redazione un po’ vecchio stile rispetto alla sensibilità di allora, con alcuni vecchi compagni come Umberto Marzocchi e Mario Mantovani anche se nella redazione operativa di Roma in via dei Taurini vi erano Aldo Rossi e Anna Pietroni, della generazione di mezzo.
Siamo negli anni ’70: il ‘68 ha portato avanti anche una rivoluzione grafica ed estetica nelle pubblicazioni. La rivista nasce con un progetto grafico innovativo realizzato principalmente da Giovanni Pieraccini, un simpatizzante radicale e anarchico di Milano. La rivista si caratterizzò per l’uso attento ed esteso della grafica e delle foto, l’uso di immagini fu sicuramente innovativo rispetto ad UN, un giornale tutto piombo con i suoi pregi ed i suoi difetti. La rivista “A” nacque così con una grafica accattivante che colpì nel segno il movimento anarchico, tanto che dopo i primi tre numeri si decise di continuare le pubblicazioni sull’onda dell’entusiasmo riscontrato.

Lo spartiacque
Piazza Fontana (e Pinelli)

La distribuzione era buona?
Si. Il primo nucleo di distributori si basò principalmente, oltre che su Milano, su quattro/cinque gruppi di militanti appartenenti ai GAF (Gruppi Anarchici Federati), una delle tre federazioni allora esistenti a livello nazionale insieme alla FAI (Federazione Anarchica Italiana) ed ai GIA (Gruppi d’Iniziativa Anarchica). Per esempio al gruppo di Torino si spedivano 500/600 copie da distribuire. E poi c’erano tanti gruppi e circoli anarchici, la maggior parte nel Centro-Nord, non pochi della FAI (penso tra gli altri al Germinal di Trieste, che ci diffonde ininterrottamente dal primo numero).
Tra il ‘68 e il ‘69 molte pubblicazioni politiche, artistiche e culturali prendono sviluppo. Attorno al 1971 nascono progetti editoriali come il Manifesto, Fronte Unito del movimento studentesco di Mario Capanna, Re Nudo che inizia con una campagna curiosa e dissacrante con scritte sui muri in varie città “Re Nudo?”, tutti si chiedevano chi fossero e fece seguito la nascita di questa rivista. I giornali come il Manifesto e Re Nudo, nonostante i loro cambiamenti, escono ancora oggi.
La distribuzione militante era un dato comune, ci si alzava a volte alle cinque di mattina, si andava anche davanti alle fabbriche per vendere i giornali. Anche se non si era operai, spesso nei primi numeri si scriveva della situazione sindacale e contrattuale e della condizione di vita dei lavoratori. Mi ricordo che una mattina davanti all’entrata dell’Università Statale di Milano, nonostante la presenza di numerosi giornali di taglio marxista e non, si riuscìrono a vendere più di seicento copie della rivista. Un grande successo che testimoniava l’esigenza di informazione, tenendo conto che ancora non esistevano internet e le radio private. C’era una sensibilità sociale in generale ed è in questo contesto che nasce la rivista, dove quasi tutte le cose fatte bene potevano avere successo essendoci anche una maggiore attenzione culturale.
Nei primi numeri della rivista convivevano in maniera tumultuosa l’esigenza di ricostruire la storia degli anarchici, i medaglioni sulle figure storiche del movimento, le letture di Bakunin, Malatesta … la ricostruzione organica con un lavoro redazionale coordinato che ripresentava numero dopo numero la Comune di Parigi, Kronstadt, le rivoluzioni russa e spagnola … insieme a tanta attualità, dalla lettera di una maestra elementare, alle questioni sindacali … ed alcune tematiche portanti tra cui la prima che caratterizza la rivista è la campagna Valpreda.
Milano con la strage di Piazza Fontana si affaccia in maniera preponderante sulla scena politica, sulla scena extraparlamentare dei movimenti di contestazione.
La strage di Piazza Fontana. dopo il 25 aprile 1945, è forse la data più significativa della storia italiana, lo spartiacque tra un prima e un dopo. Uno spartiacque riconosciuto da molti anche se è vero che a Roma ci furono delle bombe inesplose il 12 dicembre, ma è a Milano che c’è la strage, è a Milano che c’è la conferenza stampa degli anarchici del Ponte della Ghisolfa il 17 dicembre come prima risposta, è a Milano che vola dalla questura Pinelli, è a Milano che il 21 e 31 gennaio 1970 ci sono le prime due manifestazioni nazionali allargate a tutta la sinistra con decine di migliaia di partecipanti, è a Milano che iniziano i processi spostati poi a Roma, Catanzaro, Bari.
Io poi ho vissuto il 12 dicembre, sul piano personale, con grande intensità. Il mio fermo, concretizzatosi quella sera nel trasferimento in Questura su una macchina della polizia, il successivo interrogatorio durante la notte e la mini-detenzione nelle celle nel sotterraneo della Questura fino al tardo pomeriggio del 13 dicembre (sorte condivisa con molte decine di anarchici milanesi) costituì una specie di “battesimo di sangue”. E quando poi uccisero Pinelli e, tempo dopo, chiesi e ottenni l’ammissione nel gruppo “Bandiera Nera” dei GAF – idealmente al posto di Pinelli, visto che fui il primo nuovo militante del gruppo dopo la sua morte – la convinzione di confermare lo slogan “Quando un anarchico cade, un altro prende il suo posto” fu emozionante. Nel ricordarlo oggi sorrido, ma allora… avevo 18 anni.
E poi eravamo a Milano, la città operaia, l’autunno caldo. A Milano in particolare nasceva un grosso movimento di contestazione. E si fa sempre più significativa (anche se sempre fortemente minoritaria) la presenza degli anarchici, che dal ‘68 (tre anni prima della nascita di “A”) conoscevano una ripresa dell’anarchismo a livello internazionale L’anarchismo, nonostante fosse presente storicamente dall’800, dalla prima guerra mondiale al fascismo con le occupazioni delle fabbriche, i comizi di Malatesta che riempivano le piazze, il quotidiano Umanità Nova, veniva con la logica della guerra fredda schiacciato in un angolo (nonostante che le nostre sedi dopo il 45 fossero di nuovo frequentate).
Quindi la ripresa degli anarchici con il 68 è forte anche a Milano, ed essendo Milano sprovvista di un giornale anarchico, è notorio che quando si uniscono degli anarchici e si creano dei gruppi nascono non solo dei contrasti ma anche dei giornali, perché gli anarchici ritengono di avere sempre qualcosa da dire (la tendenza a scrivere è una delle caratteristiche degli anarchici, a volte al limite della grafomania). Era nella logica e nella tradizione che nascesse comunque a Milano questo giornale, infatti già negli anni 50-60 a Milano vi era il periodico il Libertario di Mario Mantovani che aveva una sua dignità e che svolse un ruolo significativo nel tenere aperti i rapporti tra movimento anarchico e mondo del lavoro. La ripresa dell’anarchismo nel 68, la ricomparsa delle bandiere rosso-nere nelle piazze e nelle università pone il problema dell’assenza di un giornale anarchico che pesava sul movimento.

Gli occhi all’indietro
e in avanti

Con queste premesse i primi numeri hanno avuto successo … ma dopo il terzo numero che cosa è accaduto?
Le valutazioni furono sicuramente positive, “A” rispondeva ad un esigenza, anche se non le soddisfaceva completamente ma solo parzialmente, infatti i primi anni ‘70 sono un fiorire di altri giornali in tutta Italia. UN e la rivista “A”, da un punto di vista quantitativo, sono rimasti i giornali principali, UN di fatto più rivolta all’interno del movimento anarchico, la rivista “A” più rivolta all’esterno.
I giornali anarchici hanno avuto sempre una grossa funzione di organizzazione interna e così è stato anche per la rivista, per portare avanti e coordinare certe campagne. La rivista “A” supportata da un vasto movimento militante che garantiva un bacino d’utenza aveva la pretesa di rivolgersi e di parlare soprattutto ai non anarchici. Un giornale di anarchici ma non per soli anarchici, usando un’altra espressione noi dicevamo di non voler essere “né carne, né pesce”: “A” non voleva essere una rivista puramente culturale ma neanche prettamente militante, questo è importante perché ha caratterizzato tutta la vita della rivista e la sua evoluzione.
Io sono l’unico “sopravissuto” all’interno della redazione del gruppo editoriale originario. In questi anni c’è stato un buon turnover all’interno del collettivo redazionale. I promotori e i primi redattori e collaboratori del gruppo originario della rivista sono ancora oggi in pista, anche se qualcuno per vicende personali ha avuto altri percorsi trasferendosi in Canada e Australia o c’è chi purtroppo è deceduto. I compagni del nucleo principale rimangono ancora oggi tutti impegnati, io nella redazione della rivista, gli altri hanno dato vita ad altre iniziative culturali e militanti, ma soprattutto culturali come la rivista Libertaria, le edizioni Eleuthera, il Centro Studi Libertari “G.Pinelli”. Nel corso dei decenni le iniziative hanno avuto altri nomi come le riviste Volontà e Libertaria, il Comitato Spagna Libertaria, Crocenera Anarchica, le edizioni Antistato Eleuthera ed altre esperienze militanti. E con questi compagni, con queste iniziative i rapporti si sono mantenuti operativi e validi per decenni, a volte con alti e bassi sul piano personale (e mi pare normale). Ma abbiamo saputo e voluto evitare ciò che troppo spesso caratterizza i movimenti “piccoli” (e non solo quelli), in cui gelosie, insofferenze, anche legittime differenze di carattere o di impostazione portano prima o poi a fratture, se non a vere e proprie guerre intestine. E anche la storia degli anarchici non è esente da simili tristi accadimenti.
Noi no: il nucleo originario di “A” è ancora tutto compatto, ciascuno con i propri acciacchi è ancora impegnato a portare avanti il discorso e le attività… di allora.
La militanza anarchica nel corso di decenni è spesso discontinua, ma il gruppo della rivista è un pool di persone, che nonostante tutte le differenze si è mantenuto unito intorno ad un progetto, di cui la rivista è il primo progetto editoriale che a sua volta ha germinato, con l’uscita delle persone, altre iniziative di un progetto culturale condiviso. Gli stessi Amedeo Bertolo e Rossella Di Leo, elementi portanti della rivista nei suoi primi 4 anni, così come Luciano Lanza (che uscì dalla redazione più avanti, nel 1981) continuano la loro collaborazione. Era talmente “importante” l’uscita di Amedeo e Rossella a fine 1974, che per quelli che rimanevano diventava una scommessa poter continuare a farla … Ma dopo 36 anni “A” continua ad uscire.

Com’era la vita nella redazione della rivista a quei tempi, come si sviluppava?
Una curiosità è che la rivista, uscita sempre come mensile, in un numero dei primi anni ‘70 avesse un’avvertenza del tipo “Scusate, ma il mese scorso non siamo usciti perché avevamo troppo da fare”, ossia la redazione della rivista che s’incontrava la sera, era fatta di militanti che durante il giorno avevano chi il loro lavoro o chi studiava all’università. Eravamo persone che vivevano in maniera intensa la loro attività militante, oggi non succede quasi più, è calato il volontariato e il contesto è molto diverso. Allora si tornava dal corteo e si andava a correggere le bozze. Le riunioni erano molto animate e piene di fumo. Io non potrei più partecipare a quelle riunioni, non c’era una sensibilità antifumo. Finivamo quasi sempre con il litigare con i vicini di casa perché la redazione era (ed è tutt’ora) collocata in un piccolo appartamento di un piccolo condominio di un quartiere operaio, oggi popolato da moltissimi cinesi ed egiziani, alla periferia nord-est di Milano. Vicini di casa con cui oggi abbiamo ottimi rapporti non essendoci più quel clima militante con riunioni fino a tardi, piene d’urla … non c’è più quella micidiale macchinetta che imprimeva sulla carta delle buste gli indirizzi fatte su schede di zinco… tong tong … ad ogni colpo seguivano le bestemmie di quelli del piano di sopra, anche se noi mettevamo gli asciugamani sotto la “battitrice” di indirizzi per attutire il rumore.
La sede della rivista era anche una delle sedi anarchiche di Milano, capitava spesso di trovare un compagno straniero che dormiva davanti al portone con il sacco a pelo e non sempre emanava profumi piacevoli, naturalmente questo non entusiasmava i vicini di casa ma neanche i redattori.
La rivista ha avuto solo due sedi. La prima, quando è nata e solo per circa un anno, nel Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, nella sede storica di piazzale Lugano 31 vicino ad un ponte. Poi venimmo a sapere di un appartamento di proprietà del movimento anarchico, gestito da vecchi anarchici, non residenti a Milano, che era sfitto. Questo appartamento era appartenuto a una famiglia anarchica pugliese di nome Monterisi che agli inizi degli anni 60 lo donò a Giovanna Berneri la vedova di Camillo Berneri ucciso dagli stalinisti a Barcellona nel 37. Giovanna (che mori dopo qualche anno) curava anche la colonia Maria Luisa Berneri (dedicata ad una sua figlia morta giovane) che era una villetta a Marina di Massa dove durante l’estate i figli di tanti compagne e compagni andavano a trascorrere dei periodi di vacanza in questa struttura sostenuta generosamente da tanti compagni (tra cui molti compagni emigrati negli Stati Uniti … la generazione di Sacco e Vanzetti). Tra i giovani ospiti della Colonia c’erano spesso figli di famiglie anarchiche che altrimenti non si sarebbero potute permettere le vacanze al mare per i loro figli, così come figli di anarchici spagnoli (e di altre nazionalità) esuli. Un’esperienza bella, di segno comunitario e libertario.
Tornando all’appartamento dove c’è ancora oggi la redazione di “A”, c’era anche questo appartamento di proprietà, che però era tenuto sfitto e chiuso. Venendone noi a conoscenza, si chiese il comodato d’uso per poterlo gestire e dal ‘72 (un anno dopo la nascita della rivista, appunto) siamo entrati in questo locale di circa 45 metri quadri con cucinino, fu parzialmente riadattato per poter fare anche una camera oscura per sviluppare le fotografie. Da allora è la sede della rivista ed ora da vari anni è di proprietà della Cooperativa Editrice A. È quindi ufficialmente di proprietà di una struttura di movimento.
Dal 1986 sotto l’appartamento in un seminterrato hanno sede il Centro Studi Libertari e l’Archivio Pinelli, ed attualmente la casa editrice Eleuthera e la rivista Libertaria, un piccolo pool editoriale, la nostra Arcore dell’editoria libertaria a Milano.

Un po’ scavezzacollo
e fuori riga, ma…

La rivista ha sempre avuto un’attenzione al passato ed alla storia del movimento. Com’erano i rapporti con i compagni anziani?
L’attenzione alla storia del movimento faceva parte di un progetto culturale. Nel 1973 uscì per le Edizioni Antistato (allora curate da un muratore cesenate, Pio Turroni, con il quale c’era un legame umano molto forte) un opuscolo firmato da cinque compagni, tra cui il sottoscritto, dal titolo “Un’analisi nuova per la strategia di sempre”. Un opuscolo che era la nostra fotografia dell’anarchismo possibile allora e che riassumeva la nostra concezione. Eravamo orgogliosamente anarchici, ma anche criticamente anarchici.
Da una parte c’era la fierezza di far parte di un movimento che era stato tenuto in un angolo per tanto tempo e che invece aveva una sua storia, una storia nobile, che nasceva dalla prima polemica tra Marx e Bakunin, un movimento che quasi non aveva storici o professori, anche in ragione delle sue origini in gran parte proletarie.
L’attenzione al passato era parte del nostro essere anarchici. Il passato era per noi fondamentale, ma non sufficiente. L’anarchismo deve sempre guardare avanti, non fermarsi al proprio passato. Negli anni ‘70 la presenza dei vecchi era numerosa, era la generazione del pre-fascismo che “gestiva” il movimento e lo rappresentava. Ai congressi della FAI ed alle riunioni c’erano tante vecchie barbe e persone anziane.
Con tutti i suoi pregi e difetti, è stata la generazione a cui ho fatto riferimento e avevano “due palle così”, persone che si erano impegnate personalmente contro il fascismo e non solo in maniera teorica. Infatti tanti di loro, a causa della loro coerenza, finirono in galera, al confino, in esilio in Francia, in Belgio, in Spagna e in Russia dove morirono anche come vittime dello stalinismo. I rapporti tra di loro erano molto intensi e significativi, tanto che ai congressi questa esperienza dura veniva a volte fuori e molti scoppiavano a piangere e si abbracciavano.
Nel 1965 nel movimento anarchico, quasi al completo organizzato nella FAI, avviene una dolorosa scissione di una minoranza che non si riconosce nelle nuove modalità organizzative e si crea una nuova federazione, comunque la repressione e gli avvenimenti del 69 ricompattano in parte questa divisione, riprendono gli incontri, i rapporti e i dialoghi in comune.
A Milano i vecchi compagni che si ritrovavano la domenica mattina al circolo erano scarsi e relativamente poco significativi, rispetto al ruolo giocato dai loro coetanei in tante località. La ripresa anarchica a Milano, dopo il boom dell’immediato secondo dopoguerra e il quasi deserto degli anni ’50, data dal 1962, grazie ad un gesto clamoroso (che non aveva niente a che vedere con il terrorismo) che vedeva come protagonista Amedeo Bertolo (ancor oggi presente sulla piazza) allora giovane anarchico, con il rapimento (fatto in maniera molto artigianale e poco organizzata) del vice-console spagnolo di Milano, un gesto nobile e significativo per evitare l’esecuzione della condanna a morte di un compagno anarchico in Catalogna. Il gesto ebbe un riscontro clamoroso sulla stampa e al processo, a Varese, Amedeo Bertolo si costituì e nonostante l’arresto di altri compagni il processo si trasformò in un processo contro il Franchismo. Gli imputati vennero condannati a pene lievissime (di questi tempi sarebbero martoriati dalle leggi antiterrorismo) ed assolti. Fu una specie di piccolo trionfo. Grazie a questo episodio ed al giornale Materialismo e Libertà, si andarono ad aggregare un gruppo di giovani anarchici e libertari. Poi il 68 …
Nel 1971, a livello nazionale, i vecchi compagni accolsero favorevolmente la neonata “A”, furono pochissimi coloro che furono diffidenti davanti all’eccessiva modernità della cosa. ….
I compagni a Milano con Amedeo, conosciuto con i fatti del 62, avevano una grossa credibilità presso i vecchi compagni, credibilità costruita anche dalla presenza militante di Giuseppe Pinelli che insieme a Cesare Vurchio (collaboratore ancora della rivista e del Centro Studi Libertari) oggi 78 anni, allora 40enni … erano i due “vecchi” militanti del giovane movimento anarchico milanese. Appartenevano ad una fascia d’età quasi assente tra gli anarchici perché erano nati e cresciuti sotto il regime fascista. Pinelli aveva contribuito alla crescita della stima dei vecchi compagni nei confronti dei Milanesi, ed essendo ferroviere (e molto estroverso) era considerato il “ministro degli esteri” degli anarchici milanesi, viaggiava gratis con la famiglia (moglie e due figlie), conosceva Alfonso Failla, Pio Turroni, Umberto Marzocchi e tutti gli esponenti più in vista del movimento anarchico italiano.
I vecchi apprezzarono la nascita della nuova rivista e lo vedemmo anche dal fatto che quando chiedemmo l’appartamento per piazzarvi la redazione ce ne concessero subito l’uso. Una credibilità e apprezzamento dovuti anche al peso che davamo nella rivista alla nostra sacra storia, ricostruita pagina per pagina, numero dopo numero. Veniva così a cadere quella diffidenza verso quella parte della nostra generazione, si capiva che non eravamo un’altra ondata di giovani anarchici poco seri che si presentavano ai bordi del movimento facendo casino e criticando (a volte anche giustamente) ma che poi sparivano.
C’era, sempre da parte dei vecchi compagni, una certa diffidenza nei confronti del ‘68, dovuta anche alle polemiche al congresso di Carrara del ‘68 con Daniel Cohn-Bendit. Era la testimonianza di una oggettiva difficoltà del movimento anarchico specifico di rapportarsi con l’emergere di queste grosse tendenze libertarie.
Noi del gruppo di “A” ci si poneva non dico a metà strada, ma si cercava di radicarsi con il vecchio movimento e di non buttare via tutto … la vasca dell’acqua sporca con il bambino dentro, ma di salvare il buono delle nuove tendenze libertarie, sicuramente confusionarie, come il marxismo libertario che si poneva sia a livello teorico che pratico, sotto forma di stretta collaborazione tra gli anarchici e Lotta Continua, Potere Operaio e il Movimento Studentesco …
Non c’era, a mio avviso, una linea giusta e perfetta ma certamente da parte dei vecchi c’era una (perlopiù comprensibile, almeno da parte mia) diffidenza, a volte eccessiva, verso i giovani, però è vero anche che Cohn-Bendit al Congresso di Carrara e tanti altri proponevano sull’onda dell’esperienza delle barricate di Parigi lo scioglimento del movimento anarchico. E i vecchi che, avevano fatto, per esempio, le barricate nel quartiere San Paolo a Roma nel ‘22, qualche decennio prima, non si facevano impressionare dalle asprezze della lotta.
C’è poi un aspetto che mi riguarda personalmente. Io scrivevo da tempo sui due giornali anarchici “principali”, dal luglio ’69 su Umanità Nova e dal dicembre ’69 su L’Internazionale. E anche dopo la nascita di “A” continuai a collaborare, irregolarmente ma per lungo tempo, con quelle testate. Quando nell’aprile 1971 incontrai Marzocchi e Failla a casa di quest’ultimo, a Carrara, in occasione del IX congresso della FAI (e “A” era appena nata da due mesi), ricordo il “perbacco” di Marzocchi che mi disse “ma allora sei tu il Finzi che scrive su Umanità Nova”. Lui aveva ricevuto e pubblicato vari miei articoli (e che orgoglio, dentro di me, quando per la prima volta ne vidi uno pubblicato come “editoriale”, l’articolo più importante, di spalla sinistra!) ma non si ricordava di me (io sì, avevo visto sia lui sia Failla ad un convegno dei GAF a Milano, l’anno prima, al quale i due avevano partecipato come esponenti della Commisione di Corrispondenza della FAI).
Quello che voglio evidenziare è che il fatto che io da oltre un anno e mezzo collaborassi con il giornale della FAI (e, sull’altro versante, con quello dei GIA) e fossi al contempo un redattore di “A” li predisponeva bene nei confronti della rivista, non solo del sottoscritto.

Assolutamente non solo per anarchici

La rivista si caratterizza quindi per la sua apertura all’esterno senza avere paura di confrontarsi con gli altri, cercando gli stimoli per una riflessione libertaria ed è ciò che l’ha caratterizzata per questi 40anni.
Sì, è andato accentuandosi nel tempo anche in base alla nostra esperienza. Se uno va a vedere i collaboratori e le cose che ci sono nel primo decennio, che sono la parte migliore della rivista … lo stato nascente adolescenziale .. sono molto legato a quel periodo … trovo una rivista molto anarchica. La A della rivista che è la stessa di adesso … una rivista molto variegata ed aperta principalmente all’interno dell’anarchismo … vivace a livello internazionale fummo tra i primi a tradurre Noam Chomsky, le sue riflessioni sui nuovi mandarini, sulla rivoluzione spagnola ma anche sul dibattito Marx Bakunin, ci aprimmo moltissimo. Il movimento anarchico passava molto e noi cercavamo tanti spunti all’interno dell’anarchismo, eravamo ribollenti … partimmo nel 71 con un casino di cose da dire e da raccontare …
Con il senno del poi, vedo i primi anni della rivista come un progressivo distendersi di tutto quello che avevamo da dire … e un po’ alla volta cominciavamo a dirle … parliamo di Gori, di Galleani, di autogestione … è un processo che è andato avanti nel tempo parallelamente ai cambiamenti delle situazioni, per capire bisognerebbe vedere le posizioni sulla lotta armata e su tante altre questioni ... la rivista ha accentuato le sue caratteristiche … infatti oggi scrivono più facilmente che allora persone che non sono anarchiche.

Il rapporto tra la rivista e l’epoca in cui veniva pubblicata era di grande differenza rispetto ai linguaggi praticati da altri movimenti presenti allora; leggere una pagina della rivista del ‘72 e leggere un volantino di altre organizzazioni, si notano un linguaggio differente, sempre meno demagogico, sempre meno chiuso, meno autoreferenziato, più sereno, è questo che caratterizza anche negli anni 70 della rivista … la sua apertura.
Sin dall’inizio ci siamo posti il problema di farci leggere dagli altri, anche dai non-anarchici, rifiutavamo le esagerazioni come quelle di Lotta Continua per esempio sulle partecipazioni ai cortei … 200 per la questura … 5.000 per Lotta Continua … se si divide per cinque forse ci si avvicina alla realtà.
Un altro merito della redazione dovuto alla ricchezza del movimento anarchico non solo italiano ma anche quello anglosassone è fatto di libri di personaggi già allora molto conosciuti come George Woodcook, Colin Ward, Alex Comfort … l’anarchismo è ricchissimo e multitematico e rispetto ad alcuni settori anarchici o movimenti della sinistra, sulla rivista non si riscontra il mito dell’operaio, l’operaiolatria come la chiamava Camillo Berneri... Si trova un po di tutto e una grande attenzione al presente, dall’esperienza di una maestra, alle fabbriche d’armi, alle relazioni sindacali… Per esempio, mandammo un nostro redattore a seguire l’autogestione in Francia in una fabbrica di Besançon, la Lip .. si discuteva dei voli spaziali se avevano senso o no … si trovano tematiche su argomenti che sarebbero stati considerati secondari da altri movimenti anche anarchici. Questo è un grande elemento di apertura.
Io sono ancora oggi convinto che se un lettore trova nella rivista due o tre articoli che lo interessino, già l’obiettivo è stato raggiunto.
Nella complessità militante e culturale di allora, la rivista è sempre stata multitematica, anche nei primi anni in cui l’asse portante era la campagna per Valpreda, copertine con “Valpreda libero subito”, ci si è sempre occupati di tante cose. Il che testimonia un interesse verso l’esterno, il nostro target è chi ci legge ossia chiunque abbia voglia di relazionarsi con noi, non abbiamo mai privilegiato un soggetto sociale, per esempio il proletariato …
Uscivamo con nove numeri all’anno perché comunque legati al mondo studentesco ed alle scuole, ma non per questo era una rivista giovanilistica anche se allora l’età media della redazione era sui 25 anni.
Noi non abbiamo mai voluto “dare la linea”, perché come anarchici siamo contrari ad una concezione avanguardista. Questo non ci ha impedito di prendere posizioni redazionali nette, come nel caso della violenza e della lotta armata e su altri temi. La rivista aveva una posizione precisa, ma in generale la rivista con le sue radici nell’anarchismo era concepita come un’agorà, come uno spazio a disposizione di chi aveva qualcosa da dire con una sensibilità libertaria.
L’anarchismo per noi, oggi, è un riferimento emotivo, un riferimento culturale oltre che un riferimento politico, rappresentiamo è vero una parte del movimento anarchico ma siamo soprattutto una palestra di opinioni. Gli articoli tendenzialmente sono firmati e la responsabilità è di chi li scrive e in un contesto dove la lotta politica militante e il ruolo dell’anarchismo organizzato non sono quotidianamente vivaci, noi siamo convinti di rappresentare, e non ci vergogniamo della parola, un punto di riferimento culturale, nel senso medio del termine … né carne né pesce .. non una rivista di grandi approfondimenti ma neanche intenta a dire o far dire banalità, una rivista che rifiuta lo scontato.
Oggi, in un epoca in cui si legge meno, il lavoro redazionale è quello di offrire un giornale che si affianchi ad altri, il lettore della rivista non legge solo “A”, legge anche altri giornali p.e. il Manifesto, Il Diario, L’internazionale, ascolta le radio, consulta i siti ed i blog di internet, vogliamo essere un riferimento non solo per il militante ma anche per tante altre realtà presenti … nel commercio equo e solidale … nel cattolicesimo di base anche nei valdesi ma sempre come singole persone non organizzate… nei marxisti in crisi … tutte persone che possono avvicinarsi ad “A” senza necessariamente trovare la giusta linea, la nuova verità. Non assicuriamo di mandare Berlusconi a casa … che facciamo l’autogestione e mettiamo tutto a posto… ma in realtà in un oggettiva crisi di valori e non solo del sogno rivoluzionario…
Oggi di fronte al dilagare della disoccupazione c’è un dato statistico inequivocabile, cioè che i giovani per la prima volta dopo decenni pensano che il loro futuro sarà peggiore, non solo dal punto di vista economico, di quello dei loro genitori. Questo vuol dire (confermato da paludati sociologi) che sta morendo la speranza.
L’anarchismo ha delle idee stranissime, che sembrano campate per aria: prevede un mondo completamente diverso, che non ci crede nessuno che possa essere visto dalla nostra generazione ma nemmeno da un buon numero di quelle successive. In questa fase le idee anarchiche esprimono una funzione di pensiero non allineato senza rinchiudersi nell’intellettualismo … “A” si rivolge dunque a persone (anarchiche e non) con idee originali che possono esprimersi … condividendo nelle linee generali il progetto generale dell’anarchismo.

Il ruolo di Bookchin e dell’ecologia sociale

La rivista ha mantenuto una sua identità forte infatti si definisce “A” rivista anarchica, anche se si considera un laboratorio. Il nome è la sua autodichiarazione e il laboratorio e il confronto avvengono all’interno di questa identità dichiarata di rivista anarchica. È così?
Sì, Il nostro progetto è di fare una rivista anarchica, ma che sia atipica … io ho contrastato le tendenze e le proposte anche interne di chiudere e di fare soprattutto negli anni 80 una specie di Espresso libertario, ossia di fare un salto in avanti sul piano redazionale, distributivo, editoriale, fare una rivista più grossa, con la pubblicità .. più aperta agli altri… una rivista libertaria (in spagnolo è sinonimo di anarchico, in Italia a volte è un sinonimo altre volte è più riduttivo, libertario è un quasi anarchico …).
Uno dei tratti più significativi è che A raccoglie la collaborazione di molte persone che anarchiche non sono e questo non è affatto casuale. Vuol dire due cose. La prima che A raccoglie le simpatie diffuse anche all’esterno del movimento e questo già di per sé non è poco. La seconda, altrettanto importante, è che il pensiero libertario (che viene espresso spesso molto bene da questi collaboratori) non è monopolio degli anarchici (fortunatamente) ma ha una valenza molto più ampia.
Io ho sempre difeso il ruolo di “A” con convinzione. Ma dentro di me non nego che in certi momenti in cui gli anarchici venivano sottoposti a “maltrattamento” mediatico (a volte non senza responsabilità proprie), mi veniva da dire “Viva l’anarchia… abbasso gli anarchici”, ossia c’era la non condivisione e accoglimento dell’immagine che si lascia passare del movimento anarchico e la stessa apertura della rivista, mi hanno fatto sentire, in certi momenti e che riconosco come un peccato, la volontà di sganciarsi dalla “A” cerchiata, dal marchio ideologico … ma ha prevalso sempre l’ancoraggio all’anarchismo dovuto al legame inevitabile e inestricabile con i vecchi anarchici che ho conosciuto … nel senso che potrei diventare qualsiasi altra cosa ma la gratitudine verso quella generazione di anarchici, per come era e per come l’ho vissuta, resta un dato centrale della mia vita.
Un esempio di quei momenti negativi può essere il luglio 2001, Genova, le prime pagine con i Black Blok con le banche e le auto bruciate, che mettevano in secondo piano tutto il lavoro e la presenza specifica degli anarchici in quel movimento, ….
Da quarant’anni oltre che con la rivista io sto con una compagna – Aurora – figlia di Alfonso Failla, qualcuno disse che mi ero andato a “prendere” una donna dell’aristocrazia nera dell’anarchismo, entrando in casa Failla. Entrai così in contatto con gran parte della generazione dei confinanti di Ventotene (es. a casa Failla conobbi Arturo Messinese, che spaccò la sedia in testa al direttore del confino – Tremiti, mi pare – che voleva fargli fare il saluto fascista) oltre a tanti compagni stranieri … ho approfondito e conosciuto maggiormente quel mondo che ha creato questo mio legame personale.
È chiaro che il marchio “A” allontana tutta una serie di persone … il tuo articolo, caro Adriano, era bello e poteva andare anche sul Corriere della Sera, molti articoli in effetti possono essere pubblicati su altri giornali. Se invece di “A” il nome era “B” sicuramente qualcuno in più ci avrebbe letto .. penso ad esperienze come la pedagogia libertaria e le scuole di Ferrer in Spagna o al giornale antimilitarista SenzaPatria che non si sono caratterizzate con l’etichetta anarchica … ma il nostro compito è un altro, ognuno deve essere fedele a se stesso pur mantenendo uno spirito critico.
Noi di “A” siamo nati anarchici e il ruolo che possiamo svolgere, anche se limitato, sarà duplice, un giornale degli anarchici per gli anarchici, ma che anche altri trovino le nostre proposte su un giornale anarchico perché lo stesso articolo di “A” pubblicato sul Corriere anche se letto da più persone non ha la stessa valenza. Uno dei compiti redazionali di una rivista come la nostra è di creare un effetto domino, … la copertina dell’ultima rivista ha un dossier su Pietro Gori. c’è una riflessione di Bifo (uno che viene da un percorso esterno al movimento anarchico) e poi la protesta per lo sgombero di un centro sociale. Sicuramente questo dossier goriano non sposterà il mondo, ma siamo convinti nel nostro piccolo della famosa goccia che ognuno mette nell’oceano.
Malatesta diceva che la situazione sociale è il risultato di un tiro alla fune dove ognuno tira dalla propria parte. È chiaro che da una parte i berlusconidi tirano con la fune d’acciaio e noi tiriamo un filo con l’ago. C’è ancora una scritta su di un muro vicino a casa mia che dice che basta una piccola vibrazione per far saltare l’intero sistema … insomma un lavoro fatto con intelligenza può portare a dei risultati nettamente superiori allo sforzo che ci viene messo dentro.

Ci sono delle tematiche all’interno delle rivista che ritornano ed hanno cucito una continuità su cui ci si è espressi più volte, oltre ad esempio naturalmente del tema della strage di piazza Fontana.
In Italia siamo quelli che hanno scoperto Murray Bookchin e l’ecologia sociale … che ha portato Bookchin dal trotzkysmo agli anarchici, e non è prettamente una roba per anarchici, non è un’anarchia più appetibile, è un filone ecologista che ha fatto nascere anche la tua collaborazione con la rivista, è un attenzione ai modi in cui si vive, al rapporto con la natura, con l’urbanistica, è un tema iniziato con la traduzione di Bookchin nei primi numeri della rivista e che ha dato vita anche a numerose iniziative pubbliche, portando anche Bookchin in Italia e la rivista ne è stata un acceleratore.
Un altro tema ricorrente negli anni 70 è stato il femminismo attraverso l’interpretazione della scuola americana dell’anarca-femminismo, non è un tentativo di rivendere sempre lo stesso prodotto.
L’anarchismo pur contenendo tutto nelle sue idee teoriche, è importante nel suo divenire storico, è la sua evoluzione temporale che è tutta da costruire, Per esempio la rivista ha sempre avuto una sensibilità per il fenomeno punk, i giovani, ecc. Abbiamo fatto un dossier sul veganismo … abbiamo ricevuto una telefonata di una vecchia compagna di 85 anni che ci fa i complimenti per la rivista ma ci dice che con tutti i problemi che ci sono al mondo, chi se ne frega se uno mangia o non mangia l’uovo, che era troppo dedicarci 23 pagine, che c’erano problemi più importanti come la disoccupazione. Naturalmente non sono d’accordo con lei, ritengo infatti come in una copertina disegnata alla metà degli anni 80 dove si vedono un anarchico stilizzato, un militante, con un punk che si interrogavano e non si capivano … quella copertina segnalava un dossier sul Virus, uno dei “covi” europei dei punk, dove noi della redazione ci eravamo incontrati con i punk anarchici, molto simpatici umanamente ma con grosse differenze (anche se alcuni erano più vicini a noi… c’erano anche rappresentanti della curva sud del Milan). La loro musica per me era assordante più delle trombette sudafricane di oggi ai mondiali di calcio. Abbiamo tentato di capire quel movimento tanto che negli anni 80 cominciò a collaborare con la rivista Marco Pandin che faceva parte di quel mondo e che da 25 anni è una delle nostre antenne nel mondo della musica.
La critica della vecchia compagna la respingiamo, io sono convinto che la rivista debba occuparsi anche di queste tematiche e lo debba fare anche sistematicamente. Al contempo uno dei vegani, che non conoscevo se non per e-mail e che aveva collaborato al dossier, lui non anarchico, ci ha chiesto una rubrica fissa sulla rivista visto anche l’interesse del mondo vegano anche di anarchici. Noi gli abbiamo risposto di no, perché siamo aperti a tutte le tematiche ma non riteniamo che il veganismo faccia parte dell’anarchismo in quanto tale .. ma è una delle scelte possibili. Diversamente dall’antimilitarismo, tanto che per questo tema possiamo anche pensare ad una rubrica fissa di opposizione alle guerre, per altri temi (come il veganismo) pur mantenendo un’attenzione, non vogliamo stabilire un rapporto privilegiato. Abbiamo sostenuto (e ci faceva piacere) le campagne del WWF, di Emergency, della Legambiente sempre naturalmente sulle iniziative di base, ma non siamo il loro bollettino.

La questione (gigantesca) dell’uso della violenza

La tematica della violenza è un tema su cui “A” ha avuto una particolare attenzione, ha visto la nascita di un dibattito anche con posizioni diverse, su cui la rivista ha preso una posizione molto precisa.
Esatto. La rivista sin dalla sua nascita si è trovata di fronte a due aspetti della questione violenza, una questione interna al movimento (che fa parte della nostra storia). Gaetano Bresci è spesso l’unico anarchico riportato sui testi scolastici, è l’anarchico venuto dall’America che ammazza il re all’inizio del Novecento, e questo ha un senso e un significato nella disinformazione sull’anarchismo. Ancora oggi l’anarchico è associato alle bombe anche dopo piazza Fontana. In realtà gli anarchici che usarono le bombe e il pugnale a fine ‘800 erano pochi ed in buona compagnia di repubblicani ed altri, però solo agli anarchici è rimasta questa etichetta di bombaroli, anche per alcune carenze all’interno dell’anarchismo.
La rivista è sempre stata critica, pur non avendo mai espresso una posizione nonviolenta. Ha pubblicato articoli nonviolenti ma si è riconosciuta in una posizione malatestiana. Anche se personalmente, invecchiando, divento sempre più vicino alle ragioni della nonviolenza. La posizione espressa dalla rivista sosteneva che la violenza è un elemento negativo ed autoritario da usare solo quando è necessario – siamo stati sempre contrari alla violenza usata come strumento portante di una strategia. Di fronte alle BR siamo stati sempre convinti che la violenza faccia poco bene ai movimenti sociali in generale e probabilmente molti danni all’anarchismo, confermando dall’interno un’immagine consolidata dall’esterno, e che spesso faccia male a chi la fa.
Quindi sulla questione della violenza c’è stata una precisa posizione redazionale. La visione dell’anarchico vendicatore, del colpo su colpo, non è mai stata condivisa, anzi l’abbiamo combattuta, perché la “strategia” del portare gli anarchici ad un legame con la violenza è completamente perdente. Siamo convinti che l’anarchismo possa esprimere le sue potenzialità positive tendenzialmente alla luce del sole, che non vuol dire che chi è stato costretto alla clandestinità “sbagli”. Un conto è una scelta forzata in particolari situazioni storiche. Ma la concezione bakuniniana (di un certo Bakunin) della cospirazione e della (di fatto) avanguardia rivoluzionaria che lavora nell’ombra l’abbiamo sempre rifiutata.
Il movimento negli anni 70 era caratterizzato anche dalle provocazioni di persone anche con disagio psichico … c’erano anche menti malate … e la cosa non era né leggera né senza conseguenze. Su questo noi di “A” siamo sempre stati fermi: un imbecille, anche se anarchico, se va in carcere resta un imbecille. Con noi il “ricatto” della repressione non ha mai funzionato granché.
La tendenza di usare la repressione che inevitabilmente segue e a volte precede certi “fatti” dalle nostre parti si arenava. Perché la repressione è un dato sistemico, non sempre arriva per alcune stupidate fatte… ossia usare la cattiveria della Polizia come strumento o alibi per trascinare l’anarchismo sul terreno della violenza non ci ha mai convinto.
Noi già nel 73 polemizzammo con un parte dei gruppi anarchici toscani di allora per quel tipo di campagna contro il fascismo e per l’antifascismo militante.
Noi sostenemmo la campagna per la liberazione di Marini, un anarchico di Salerno che a seguito di provocazioni fasciste accoltellò uno di loro, Falvella, durante uno scontro. Falvella morì e Marini iniziò un’odissea in carcere, fatto anche di letto di contenzione dal quale uscì distrutto sul piano psicologico. Noi non eravamo per la nonviolenza, ma ci rifiutammo di ritenere che uno dei compiti portanti degli anarchici fosse quello di impedire i comizi dei fascisti.
Personalmente tendo ad essere per quanto possibile tollerante infatti durante la contestazione del 68/69 al Liceo classico Carducci, a Milano, essendo uno degli elementi di punta del movimento di contestazione, rivendicai pubblicamente il diritto anche dei fascisti di parlare in assemblea, che non aveva niente a che vedere con il calo del mio antifascismo. Da libertario ero e resto convinto che la libertà da rivendicare sia anche quella. Ritenevo poi che i fascisti fossero innanzitutto degli ignoranti e che farli parlare fosse una manovra antifascista.
Ci possono essere opinioni diverse e anche storicamente gli anarchici di Carrara si misero alla testa della popolazione per impedire al fucilatore Almirante di tenere un comizio… in certi casi può avere un suo significato preciso. Ma andare a contestare tutti i comizi del MSI voleva dire andare allo scontro con la polizia, non abbiamo mai avuto il gusto da palestra dell’attività politica, non abbiamo mai apprezzato o stimolato lo scontro fisico di piazza, non abbiamo mai apprezzato quelli che durante un corteo pacifico escono con azioni violente e poi rientrano.
Siamo stati duri nel 2001, e in assoluta minoranza nel movimento anarchico, nei confronti dei Black Bloc. La rivista anche durante lo scontro sociale ha cercato di non perdere mai il lume della ragione e dell’autocritica. Il fatto che ci sia una repressione non giustifica l’appiattimento anche contingente sulla posizione del compagno. Se un anarchico fa un azione che noi riteniamo sbagliata e poi viene picchiato … gli mandiamo le arance in carcere ma ci dissociamo da lui e anche se può apparire per alcuni militanti un atteggiamento da cagasotto per non pagare la repressione. Noi riteniamo che la libertà di giudizio sia fondamentale, non possiamo pensare che l’appartenenza ad una famiglia come quella anarchica comporti di sottoscrivere necessariamente quel che fa il cugino scemo.
È chiaro che per questo motivo la rivista è stata al centro di polemiche soprattutto con la componente organizzata del movimento nel 75/76 che faceva capo all’uscita della rivista Anarchismo, una rivista anarchica che assume posizioni molto dure di dissenso nei nostri confronti e sul rapporto con le BR e la lotta armata. Non sono state scelte sempre facili per la rivista … In quegli anni pubblicammo anche un documento di Azione Rivoluzionaria, una componente sicuramente di ispirazione libertaria nel mondo dei gruppi della lotta armata, ci furono compagni anarchici conosciuti arrestati per i fatti di Azione Rivoluzionaria, e in alcuni casi prendemmo una posizione di difesa come nel caso della tennista livornese Monica Giorgi che aveva preso una posizione esplicitamente innocentista rispetto alle accuse mossele per il rapimento del figlio di un petroliere.
Noi ci siamo sempre rifiutati di impegnare la rivista in campagne di solidarietà nei confronti dei compagni, anche se anarchici al 100%, che non prendessero prima una netta presa di distanza dalle loro scelte, quando queste scelte erano per noi (sottolineo, per noi) inaccettabili o comunque non condivise.

Maschi e femmine

In questi 40 anni ci sono stati momenti in cui la rivista è andata meglio ed altri che non è andata molto bene. Quali sono i periodi più faticosi per la sua gestione della rivista, non solo economicamente ma soprattutto nei rapporti con l’esterno e nel dibattito interno al movimento? Quali sono stati i periodi in cui hai sentito maggiormente la fatica della gestione?
Partiamo dal dato della distribuzione della rivista. “A” nasce con vendite intorno alle 7000/8000 copie. La rivista ha un periodo crescente e il numero che ha tirato più copie (13.000, ma le ultime due pagine sul caso Marini furono stampate in oltre 50,000 copie a se stanti) è quello dell’aprile del 73, nel trentennale del 43 ossia l’inizio della Resistenza, in cui abbiamo fatto un numero monografico “Gli anarchici contro il Fascismo” che fu la prima pubblicazione che parlava della presenza degli anarchici nell’antifascismo. Nonostante ci fosse una generazione di anarchici impegnati nella Resistenza non era mai stato fatto niente, anche perché erano compagni più abituati a fare che a scrivere da intellettuali.
Poi la tiratura iniziò a calare lentamente e progressivamente. Per consolarci possiamo dire che gran parte delle pubblicazioni nate in quel periodo sono scomparse. Momenti difficili e d’incertezza furono proprio il periodo della lotta armata e della violenza che condizionarono non solo la società italiana, ma anche la nostra rivista.
Una cosa interessante è la struttura redazionale della rivista perché è su questo fronte che abbiamo avuto difficoltà. Come già detto la rivista è nata da un collettivo, rimase con un collettivo di milanesi caratterizzata da una forte rete di collaboratori esterni. Infatti ci sono articoli del torinese (in realtà un milanese emigrato) Roberto Ambrosoli, del veneto Nico Berti, dei milanesi come il sottoscritto, Amedeo Bertolo, Rossella Di Leo, Luciano Lanza e tanti altri. Nel collettivo di “A” sono passate decine di persone, una caratteristica della nostra redazione negli anni 70 era, esclusivamente come il gruppo Germinal di Trieste della FAI, di essere l’unico collettivo ad avere una parità ed a volte una maggioranza di presenza femminile.
Le foto del nostro movimento prima del fascismo erano quasi esclusivamente di maschi, le donne quando ci sono … sono delle nobili eccezioni. Non era un fatto teorico, probabilmente era legato ad un fatto pratico. Ai maschi, anche all’interno della nostra redazione, spettava più il compito di scrivere, mentre l’amministrazione era appannaggio delle donne anche se la pulizia dei locali era condivisa. Chi stava in redazione ci rimaneva in genere per almeno due o tre anni. Questa esperienza dei collettivi redazionali è andata avanti fino all’89 poi un ciclo si è chiuso, niente a che vedere con la caduta del muro di Berlino e del Comunismo. ma in realtà è dovuta anche alla nascita del mio primo figlio. La rivista, infatti, come tante altre iniziative è fatta chiaramente da persone: quel collettivo redazionale di sei persone iniziava a mostrare la corda. Fausta era sempre più impegnata nella libreria Utopia in cui lavorava e svolgeva attività culturale … e gli altri con problemi più o meno personali fecero della redazione un guscio vuoto.
Attualmente io e Aurora, siamo noi due (cioè una coppia) la redazione attuale della rivista, la nascita del primo figlio in età avanzata, a 37 anni, comportò una modifica delle abitudini di vita ad esempio l’indisponibilità ad uscire di sera, accompagnate dal fatto che le riunioni erano quasi prettamente formali perché gli altri redattori non leggevano neanche gli articoli … ha portato di fatto, da allora, ad una gestione più informale della rivista, quindi si appoggiava quasi esclusivamente su me ed Aurora. Attualmente la riunione di redazione non esiste più e grazie anche alle nuove tecnologie internet, si sono stabiliti dei rapporti stretti con una serie di compagni (tra cui ci sei anche tu, caro il mio Adriano.). Vorrei citare almeno il nome di Massimo Ortalli, un compagno (farmacista) di Imola nonché anima dell’archivio storico della FAI, che pur ufficialmente non fa parte della redazione … ma a cui vengono sottoposti tutti gli articoli di A … assume quindi un ruolo fondamentale nel lavoro redazionale.
Personalmente pur apprezzando sempre di più un lavoro in solitaria ritengo che una rivista debba comunque reggersi su un lavoro collettivo. Pur non essendoci riunioni redazionali, grazie ad internet intervengono 4/5 persone in maniera poderosa da anni con la loro professionalità. Il periodo di passaggio a questa nuova gestione fu quindi di spaesamento e di difficoltà, in questi quarant’anni ho dovuto adeguarmi ai tempi della rivista, un lavoro condizionato dalla continuità più di una casa editrice che pubblica libri. Non si può infatti saltare un numero anche quando prevarrebbero i problemi personali. Si è cercato di tenerne conto e di affrontarli, ma mai estremizzati.
La rivista è stata un’eccezionale esperienza di vita … hai rapporti con tantissima gente creativa … ma tutta gente che vuole un mondo migliore … con tante idee strane. Adesso ci siamo molto aperti all’esterno, soprattutto da quando dall’inizio del primo decennio del secolo ci siamo trasformati (anche) in una casa di produzione musicale, legata ai CD di De André, questo ci ha permesso di allargare i nostri rapporti a tantissima gente.
Mi sono reso conto in tutti questi anni che chi gestisce una redazione come la nostra rivista deve essere prima di tutto un buon psicologo più che un grande giornalista. La percezione che abbiamo del mondo e delle persone negli ultimi anni è quella un mondo in grande sofferenza, dove la solitudine ha un ruolo devastante, esiste un grande bisogno di appartenenza e d’identità oltre che di comunicazione.

Da 28 a 180 pagine

C’è un rapporto molto stretto tra il prodotto e le persone che lo fanno, un legame individuale; come tante altre iniziative del movimento che ha bisogno dell’artigiano, nasce un problema di continuità o meglio di successione, è il problema di passare il testimone, come pensi di affrontarlo?
Si, è vero, ma c’è un problema ancora prima di quello dell’eredità …
Questa (pur relativa) personalizzazione delle iniziative ed in particolare di “A” contiene dei rischi molto grossi, pensiamo per esempio ad un incidente stradale con la morte dell’unico componente interno della redazione. Partiamo da un esempio diverso come quello di Umanità Nova, il settimanale della FAI, ha una redazione che passa di mano di congresso in congresso Spesso ha consumato l’energia del gruppo che se ne fa carico, come nel caso del gruppo Machno di Palermo negli anni 70 ma anche di altri. UN, che è certamente un prodotto artigiano, non corre questo rischio: ha girato una decina di gruppi ed oggi addirittura esiste una redazione telematica a cui si collegano persone anche di altre città per le riunioni, ha quindi sempre cambiato redazioni e questo assicura che se scompare un polo per qualsiasi motivo viene sostituito da un altro.
La rivista “A” storicamente non ha avuto questa storia. Non siamo un organo di un’organizzazione, siamo sempre stati indipendenti anche quando c’erano i GAF, di cui “A” non è mai stato l’organo né ufficiale né ufficioso, anche se i redattori nella loro totalità ne facevano parte. È sempre stata un’iniziativa autonoma.
Le vicende della vita hanno fatto si che l’ingresso in redazione di giovani fosse, da un certo punto in poi, di fatto difficile. Infatti pur avvicinandosi persone molto valide, alla fine pur collaborando, non avevano tempo per la redazione, perché impegnate intensamente chi nello studio chi nel lavoro.
Io ho potuto dedicarmi completamente alla rivista in questi ultimi anni grazie ad una favorevole situazione di lavoro (come giornalista free-lance ho potuto gestirmi bene il mio tempo) e finanziaria. La rivista degli inizi, quando poi si è trasformata nel 74 in formato A4 (tabloid) era di 28 pagine con una redazione di 8 persone. Oggi in due riusciamo a far uscire una rivista con 180 pagine, cento normalmente, con relativi prodotti collaterali, ci sono più di 30 dossier.
Negli ultimi dieci anni l’attività di pubblicazione dei CD di De André ci ha permesso entrate per quasi un miliardo delle vecchie lire, 450mila euro, circa 60.000 oggetti venduti. Il lavoro di redazione è diventato molto impegnativo e si tirano più di 4.000 copie, grazie a Fabrizio è stata messa in piedi un’aziendina. Da otto anni abbiamo una persona in amministrazione, che non sono più le compagne dell’inizio, né gli studenti volontari che venivano a darci una mano per poco tempo e pochi soldi. Dalla crescita di lavoro con i prodotti legati a De André, nell’ultimo decennio abbiamo avuto un maggiore impegno amministrativo e abbiamo assunto, in regola una persona (e ne siamo fieri: troppo spesso il lavoro nero trionfa nelle strutture che a parole dicono di combatterlo!).
Una volta per le spedizioni venivano molte persone, oggi non trovi più nessuno disponibile a questo tipo di lavoro. O forse lo trovi, ma con fatica e senza regolarità. I collaboratori vivono ancora la dimensione volontaristica, i nostri collaboratori non sono pagati e non è una cosa così scontata.

L’identificazione personale non è un elemento negativo, ma è una caratteristica di una rivista che dopo quarant’anni ha ancora la sua continuità e che viene pubblicata senza pubblicità. Il Corriere della Sera ne ha 150, ma è un attività imprenditoriale, economica con forti interessi politici, è proprio il rapporto personale con il prodotto che rende la rivista “A” unica. Dietro non c’è una rivista in sé, ma una persona con tutti i suoi rapporti interpersonali: è come un canestro che si riempie di contenuti.

Io sono pienamente d’accordo con te, infatti subii come un’imposizione e contrastai sin dall’inizio quella visione dei miei compagni co-fondatori (come si dice oggi) che avevano una concezione “anonimistica” della rivista, ritenevano che non si dovesse personalizzare. Così inventarono la sigla F. Bizzoni per l’amministrazione e GP. Vittore (il riferimento era al carcere) per la firma redazionale. Quando si scriveva … ci si divideva la posta e chi rispondeva usava la medesima firma. La cosa fu superata in breve tempo ed io ancor’oggi invito sempre a firmare tutto con nome e cognome. Non sopporto l’anonimato o il celarsi, a meno che ce ne siano ragioni gravi (che non sussistono quasi mai).
Le mie relazioni sono la rete della rivista, una rete fatta di amicizia e umanità. È, questa mia, una visione comunitaria della rivista e la personalizzazione è quasi obbligatoria, fa parte della storia del movimento anarchico.
Il mio punto ideale di riferimento è stata la rivista il Risveglio che quasi nessuno conosce ma che uscì in Svizzera per quasi 50 anni di seguito, fatta da Luigi Bertoni, un anarchico milanese che abitava in Svizzera, un giornale bilingue e a volte anche trilingue: italiano, francese e tedesco. Pier Carlo Masini dedicò una conferenza bellissima a Luigi Bertoni, pubblicata su Volontà nel 72, di cui io imparai a memoria vari brani. Con il calore e la proprietà di linguaggio che gli erano proprii (e che hanno fatto di me un suo grande ammiratore, aldilà di differenze politiche anche significative) il toscanissimo Masini parlava di questo tipografo che a Ginevra componeva e stampava il giornale e che con una carriola andava fino alle poste centrali per spedirlo. Era un punto di riferimento in Svizzera importantissimo per tanti antifascisti conosciuto, anche da Sandro Pertini. Faceva tutto lui, altro che Paolo Finzi.
Anche l’Adunata dei Refrattari per 50 anni negli Stati Uniti è stato legata alla figura di Raffaele Schiavina.
La rivista con i suoi 40 anni inizia ad essere qualcosa, Umanità Nova ne ha festeggiati 90, interrotti dal periodo fascista: uscì prima come quotidiano e poi dopo il ‘45 come settimanale, non ha mai smesso di essere pubblicato. E ricordo con una punta di orgoglio, ma soprattutto con la soddisfazione di aver dato un segno di fratellanza in quegli anni un po’ troppo settari, quando a Mariella e Massimo – allora della redazione di UN appunto affidata , nel ’76, alla FAI milanese – consegnai il primo testo sulla nascita nel 1920 del quotidiano Umanità Nova. Ero di “A”, dei GAF, vivevo in un altro “settore” del movimento, ma collaboravo con la FAI e il suo giornale. Allora non era scontato. Almeno non per tutti.
Lo stesso Malatesta fondò e diresse vari giornali ma aveva alle spalle, come amministratore e braccio destro, un anarchico di Ancona, Cesare Agostinelli, che si occupava di tutto.
Il problema dell’“eredità” è legato alla possibilità di integrazione con altre persone più giovani all’interno di questa iniziativa. Rimane per ora un incognita. Infatti molte iniziative anarchiche sono morte o rimaste interrotte con la morte o la malattia della persona che le faceva.
Un esempio ne è l’Internazionale, a cui ho avuto il piacere di collaborare. Espressione dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica (GIA), nati nel 65 in seguito a una scissione nel movimento anarchico, l’Internazionale rappresentava una mentalità ed un età “vecchia”, c’era Luciano Farinelli, anarchico di Ancona, che ha portato avanti questo giornale: alla sua morte, dopo 15 anni di pubblicazione, chiuse. Quel giornale era espressione di un certo tipo di movimento, di cui Farinelli era il rappresentante. Tirava 1500 copie, in grande maggioranza distribuite gratis, ma aveva un suo senso in quel contesto.
Il fatto di non avere “eredi” non è così negativo, l’anarchismo ha tante risorse, è come quelle strane fontane fatti di improvvisi getti d’acqua, dove esce l’acqua in piazza, prima è qui poi è lì. Sono sicuro che anche dispiacendomi per un’eventuale chiusura della rivista ci sia sempre qualcuno che, con iniziative analoghe o diverse, possa portare comunque avanti il discorso, ovvero la fiaccola, come si diceva nel vecchio movimento anarchico. Potrà sembrare a molti retorica, ma questa fiaccola sintetizza il senso del mio impegno.
Non sono mai stato un drago in educazione fisica e le Olimpiadi non sono mai state nel mio orizzonte. Anzi, se è per quello, nemmeno le gare scolastiche. Ma pensare di esser stato finora un tedoforo mi gratifica e penso rispecchi la (mia) realtà.

Parliamo ora dei dossier e di tutto quello che è fuori dalla rivista, tutti quei prodotti che escono oltre alle pagine di “A”.
Mio caro Adriano, tu sei qui in pieno conflitto di interessi, altro che Silvio! Perché il qui presente Paolella e la sua compagna Carloni sono gli autori di una decina di dossier realizzati per la rivista, gli unici concepiti come un delitto seriale, concepiti in maniera sistematica e fatti dalle stesse persone con tematiche di grosso interesse non esclusivamente anarchico. Ci sono dossier che attingono alla nostra tradizione dell’anarchismo tipo quelli di Kropotkin, Proudhon, Bakunin e Malatesta fatti con i primi numeri della rivista, altri di storia come quello sull’antifascismo anarchico e quello su Emilio Canzi, un partigiano anarchico piacentino di particolare rilevanza per la Resistenza.
La rivista si è posta anche come strumento ad uso politico, ogni dossier ha un costo preciso e un numero di pagine predefinite oltre che lavoro in più, è quindi un omaggio che la rivista fa alla propaganda anarchica ma non solo. Come “Leggere l’anarchismo”, una guida alla lettura realizzata da Massimo Ortalli, tanto più pregevole perché non conosce precedenti nella pur lunga storia degli anarchici. Dà la possibilità di sapere cosa si può leggere di anarchico, un elenco ragionato e aggiornato di tutte le cose anarchiche e non che escono sull’anarchismo e dintorni, sulla psichiatria libertaria, sull’ecologia ecc. È uno strumento tematico per i simpatizzanti di quello che puoi trovare ed ordinare in libreria.
Abbiamo fatto un dossier su Serantini e anche per esigente locali, come nel caso del Germinal di Trieste con un dossier sulla loro storia, quando dopo quasi 40 anni dovettero lasciare la loro ormai storica sede di via Mazzini 11, in pieno centro.. Recentemente Francesca Palazzi Arduini ha realizzato un dossier sui meeting anticlericali, di storia ed attualità, che ricostruisce l’esperienza laica ed anticlericale degli anni 80/90. Ormai ne facciamo 3 o 4 l’anno di questi dossier, sono uno strumento che ci piace e va bene.

Il nostro Fabrizio De André

Un discorso a parte merita Fabrizio De André.
Certo. La morte di Fabrizio ci ha molto segnato. Già nel 74 avevamo un rapporto con lui, L’uomo Fabrizio, naturalmente, aveva le sue caratteristiche e le sue grandezze, ma sono convinto che le sue canzoni rappresenino un grande momento di pensiero libertario. Era una persona molto colta, leggeva un libro per notte dormendo di giorno, un rapporto molto coinvolgente (essendo io da sempre un suo fan), a volte intenso ed a volte non ci si vedeva per un paio d’anni, fece dei concerti per la stampa anarchica, donò dei soldi in particolare alla nostra rivista … tutto alla luce del sole nell’elenco dei nostri fondi neri.
Il 12 gennaio del 1999, il giorno dopo la sua morte, su tutti i giornali si parlò anche di De Andrè anarchico, sottovalutandone i contenuti ed io ho sentito quasi come un “dovere” difendere la sua componente anarchica, da lui dichiarata già negli anni 60. Anche se non si può racchiudere Fabrizio in un’unica definizione per la sua multiculturalità e vivacità artistica, lui stesso dichiarò di aver conosciuto gli anarchici da giovane e di non aver mai trovato di meglio che potesse esprimere il suo pensiero. Quando lo conobbi nel 74 per fargli un’intervista per la rivista (avevo un registratore che non accesi) era più timido di me e mi disse subito di essere anarchico. Non aveva certamente una visione militante e dichiarò di essere dalla parte delle puttane e dei suicidi, a noi che eravamo militanti e che allora ci occupavamo di altri temi sentir parlare di puttane, zingari e suicidi non ci sembravano certamente argomenti centrali … pur avendo simpatia per loro.
A distanza di tempo mi sono accorto (senza nessuna piaggeria) che Fabrizio ci aveva anticipato, era un uomo con grandi antenne. Il suo anarchismo non politico, non militante, non movimentista, era un anarchismo profondo ed intelligente. Il numero di marzo del 99 uscì con Fabrizio in copertina ed una serie di articoli (il numero andò esaurito), però creò una grossa polemica nel giro di “A”, perché alcuni stretti collaboratori non erano d’accordo a dedicargli la copertina. Culto della personalità, era la critica che aleggiava: e poi per un personaggio che comunque apparteneva allo show-business. Litigammo animatamente. Io ero convinto che l’onda emotiva seguita alla sua morte aprisse nuovi e maggiori spazi per l’anarchismo. Difendendo l’identità libertaria di De André, ci era offerta un’opportunità di “cavalcare l’onda” di interesse su Fabrizio. Mi sono poi reso conto per le reazioni e l’interesse poi sui suoi Cd da noi prodotti, che Fabrizio aveva inciso nella pratica libertaria di tantissime persone non solo in campo musicale, ma anche nella loro vita personale (c’era gente che aveva rifiutato il militare). Su Fabrizio c’era un cordoglio libertario e in molti avevano pianto alla notizia della sua morte.
In seguito alla pubblicazione d quel primo dossier dentro “A”, nel marzo 1999, e poi la sua ristampa, i CD, i DVD, le decine e decine di conferenze e presentazioni da me fatte un po’ in tutt’Italia, ricevemmo centinaia, migliaia di e-mail, fax, telefonate, letterine scritte a mano, tutte di persone persone che avevano con lui un rapporto intensissimo, anche se non l’avevano mai incontrato di persona.
Una delle cose più belle che ho fatto nella mia vita, un’idea di cui vado fiero, forse dopo i miei figli, è stata l’ideazione, la creazione e la distribuzione di quel primo nostro CD “ed avevamo gli occhi troppo belli”, che è subito entrato a far parte della discografia “ufficiale” di Fabrizio, anche grazie a quel boot-leg inedito, autorizzato da Dori. Ciò mi ha permesso di considerarmi… un produttore di Fabrizio, una cazzata se vuoi, ma ognuno ha le sue. E poi la presentazione di quel CD alla stampa in un campo Rom...
Aiutati da una ragazza, purtroppo morta di cancro recentemente, Iride Baldo, dell’ufficio stampa di Fabrizio, era una di Radio Popolare con mille conoscenze, aveva lavorato per mesi (gratis, mi piace sottolinearlo) per convocare i giornalisti, ci siamo cosi trovati decine di giornalisti in un campo Rom alla periferia nord-est di Milano, con Dori Ghezzi, don Andrea Gallo, Mario Luzzatto Fegiz e con i senatori del giornalismo musicale … con i Rom intorno, a presentare questo CD, che aveva in copertina un bambino rom. Fu un successo strepitoso, il giorno dopo le Feltrinelli ci chiamarono per il CD, la cosa divenne complessa tanto che abbiamo dovuto “assumere” cinque persone in redazione pro tempore, di cui una era Michela che poi è rimasta “a libro”. Per mesi e mesi andammo tutti i giorni all’ufficio postale per le spedizioni.
I giornalisti ed il tam tam nei siti di De André ci fecero una pubblicità gratuita e con il giro di conferenze il CD è diventato il nostro leit motiv… e per due o tre anni le nostre entrate erano per tre quarti i ricavati dalla vendita di De André, il che ha poi anche sostenuto l’aumento delle pagine della rivista. Con questo prodotto abbiamo sfondato verso l’esterno tra migliaia dei suoi fan, che sono di tutti i tipi. Io sono convinto, riascoltando le sue canzoni, che Fabrizio sia stato anche un grande propagandista anarchico.
Quando stava realizzando l’LP le Nuvole lui mi telefonò dicendomi che stava facendo un LP anarchico, ho pensato ad una nuova “Addio Lugano bella” ma poi non c’è la parola anarchia e non c’entrava niente con noi anarchici, nel senso specifico del termine. Però se uno prende le sue canzoni si rende conto, come nel Testamento di Tito, che è il programma anarchico di Errico Malatesta, è la stessa roba messa alla De André, al 100% anarchico.
Fabrizio fa da anello di congiunzione tra l’anarchismo e un certo mondo, hanno imparato a rispettarci per come abbiamo fatto le cose, anche se c’è chi ci ha accusato di aver marciato sull’amico cantante, di aver fatto i soldi (e ne abbiamo fatti tanti!), tutti – fino all’ultimo centesimo – reinvestiti sempre dentro la rivista e in “prodotti” come l’ultimo DVD sullo sterminio nazista dei Rom. Anche questo ha avuto un successo eccezionale, più di 4.000 copie distribuite a un prezzo di 30 euro, nelle scuole, agli insegnanti, è un acquisto meditato, venduto uno per uno, dedicato a Fabrizio perché portava avanti queste tematiche che sono anche nostre.

Il lettore di “A”

Questa attività sui Rom è una grande acquisizione culturale, ha aperto un ambito di riflessione e di documentazione che era assolutamente marginale. In questo hai avuto una grandissima intuizione, il DVD “A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari” è uno strumento in più di riflessione.
Oltre a tutta la documentazione e all’interesse personale, si coglie tutta l’attualità della questione Rom, colta anche da Fabrizio con la canzone “Khorakhanè a forza di essere vento” dentro “Anime salve”, una canzone eccezionale dove dentro ogni verso c’è tutta la lettura di tanti libri. Lo so perché Fabrizio andava ad ordinarli alla libreria Utopia, una libreria anarchica di Milano, so cosa leggeva, conosco il lavoro che c’è dietro a quelle sue canzoni, un lavoro di profonda cultura, lo studio della storia, il contatto con i Rom, i suoi colloqui con il rom harvato Giorgio Bezzecchi, mio carissimo amico.

Chi sono i lettori della rivista, sono cambiati rispetto al passato, quali sono le caratteristiche attuali?
Non abbiamo mai fatto un’indagine statistica in questo senso, viaggiamo su dati che derivano dalle nostre antenne, dalla nostra percezione. Ci basiamo su chi ci contatta, ci scrive, ci da un parere: il lettore di “A”, a mio avviso, è di tutto e di più, non colpisce un settore in particolare, potremmo dire che in prevalenza sono giovani ma non è una rivista vissuta come giovanilistica, anzi per molti di loro è un po’ paludata.
La rivista da anni è presente anche on-line, ieri abbiamo ricevuto la lettera della compagna che in Sardegna fa il lavoro di messa in rete, ci segnalava che il numero appena uscito è già disponibile on-line, quando molti non l’hanno ancora ricevuto a casa. Grazie al “contatore” conosciamo i contatti on-line e sono circa 6/7.000 contatti al mese, non sappiamo che cosa e per quanto tempo leggano. Noi riteniamo, tra lettori cartacei e lettori on-line, di avere circa 12.000 lettori al mese. Il lettore di “A” va dallo studente all’operaio, da un piccolo paese alla città, è un lettore sveglio ed impegnato fruitore dei media, usa la nostra rivista per documentarsi così come usa altre fonti. “A” non è vissuta come organo interno al movimento, cadute le ideologie ed il settarismo siamo letti da anarchici e libertari di tutte le tendenze, anche perché diamo spazio a molte tendenze, siamo vissuti in maniera molto aperta. La nostra rivista in genere è apprezzata anche all’estero.

Ci sono dei rapporti internazionali della rivista e quali sono?
Qui siamo carenti, anche se contatti ce ne sono. Le sinergie avvengono solo occasionalmente come recentemente per un dossier sul Messico e uno sul movimento anarchico russo. Un esempio: un centro culturale anarchico con sedi a Londra e a San Francisco ha tradotto in inglese di sua iniziativa il nostro dossier sul partigiano anarchico Emilio Canzi.
Ci sono essere temi d’attualità che potrebbero essere coordinati internazionalmente, invecepur essendo gli anarchici a carattere internazionale e presenti in decine di paesi, a livello di stampa non si è riusciti neppure con i dossier ad avere obiettivi d’interesse comune. In passato nel periodo “militante” degli anni 70 si creò una rete di giornali anarchici sud-europei che comprendeva IRL, una rivista fatta a Lione in Francia; dopo alcuni incontri transalpini, il risultato fu solo la possibilità della rivista di entrare in qualche biblioteca o libreria che aveva testi anche stranieri.
La nostra rivista, in italiano, potrebbe essere leggibile nei paesi di lingua spagnola, ma la distribuzione e la collaborazione rimane un nervo scoperto per la nostra rivista e per la comunicazione libertaria. Oggi internet sposta un po’ il problema, perché chiunque può andarsi a leggere la rivista anche dal Madagascar, e il nostro sito ha sempre un breve riassunto in inglese di ogni numero.

Ho visto un’intervista ad Ascanio Celestini fatta da Alessio Lega; in un momento in cui la cultura ha sicuramente dei grandi vincoli dal punto di vista economico e anche di una censura non dichiarata, appoggiare queste persone può essere significativo.
Sono pienamente d’accordo. Ascanio è stato intervistato da Alessio Lega, un cantautore con molte conoscenze. Ascanio è anche un grande amico di Cristina Valenti che segue principalmente il teatro sulla rivista, e anche di Massimo Ortalli. Ha prestato la sua voce alla trasmissione televisiva “Quando l’Anarchia verrà” proposta qualche mese fa dalla RAI con interviste a vari anarchici. Ascanio era stato filmato, però è una parte che poi è stata tolta nel montaggio.
Un altro personaggio famoso che ho conosciuto e che mi ha fatto una grande impressione è Giorgio Gaber, venne a trovarci in redazione, alla sua morte abbiamo dedicato un dossier dal titolo significativo “La sua generazione non ha perso”, Ne inviammo anche copia alla vedova Ombretta Colli (Forza Italia) ma non si è fatta viva. In questo caso non c’era da affermare un anarchismo di Gaber, che non c’era e non c’è mai stato sul piano dell’autodefinizione, però abbiamo sempre sostenuto che Gaber, con la sua opera dissacratoria, fosse, anche lui, un interprete libertario dei nostri tempi. Abbiamo però seguito non solo i Gaber e i De André, ma anche i gruppi che si trovano nelle cantine …

La possibilità della rivista in questo ambito è di porsi come sponda culturale …
Certo, pensa che l’operazione fatta da Marco Pandin e il merito è tutto suo, di aver fatto prima i “Mille papaveri rossi” in autoproduzione e poi da noi riproposto per le librerie, è stato molto apprezzato anche da Dori in quanto era un’operazione culturale con interpreti del popolo delle cantine anche di lingue diverse. Per esempio ci sono canzoni di Fabrizio interpretate in serbo, in romanì, in friulano, in sardo, in occitano, ecc. È stato un lavoro di interpretazione intelligente, che ha portato avanti le tematiche “dialettali” così intelligentemente care a De Andrè.
Certo ci sono tante cose importanti per la rivista che noi non facciamo per mancanza di tempo, di gente che si impegni a fondo a seguirle, ecc. potrei star qui ad elencartele, almeno una decina: c’è la scusa sempre valida che siamo pochi. Ma io sono convinto che la capacità di un redattore sia anche quella di stimolare l’energia altrui, in parte viene fatto ma non a sufficienza, riusciamo a sfruttare una potenzialità solo del 10% di quello che si potrebbe fare. In un assemblea recentemente a Palermo, con rappresentanti di Trapani e Catania. presenti 25 persone, ci è stato detto da uno in maniera provocatoria ma interessante che la rivista per come usa internet è da defunti, che bisognerebbe creare un blog, mettere notizie più attuali e confrontarci su quello: tutto ottimo ma o si trasferisce lui a Milano e ce lo viene a fare o lo fa dal suo paese dopo aver creato un rapporto di fiducia con noi. Le potenzialità legate ai nuovi media sono tantissime.

Questo è un buon segnale perché se ci sono dei riscontri dall’esterno vuol dire che la rivista è in sintonia se non addirittura anticipatrice.
Il merito della rivista è come ad esempio nel caso di Elena che ha scritto dei Pink che al contrario dei Black Bloc fanno proteste nonviolente, molto creative ed antistatali. È una ragazza che fa capo al Centro Sociale Torchiera di Milano con cui stiamo cercando di costruire una relazione con la rivista. È chiaro che il problema è quello delle antenne … io non arriverò mai ai Pink, non sapevo neanche che esistessero dal mio scranno redazionale … però questo è il lavoro redazionale, di innervarsi con le persone che presidiano i vari aspetti sociali. Altro esempio la Comune di Campanara nel Fiorentino che ci hanno scritto per ricostruire un collegamento con le realtà agricole, con il biologico … ci sono varie realtà in Toscana e altrove che da vent’anni portano avanti questi progetti. Già vent’anni fa abbiamo seguito queste esperienze con Fausta Bizzozzero e Massimo Panizza (allora entrambi redattori di “A”) che per circa una settimana girarono la Toscana a prendere contatti e fecero un bel resoconto su “A”.
Così si fa la rivista, non solo recependo delle cose ma anche facendo del giornalismo attivo. Un fenomeno recente interessante è la mobilitazione delle famiglie sui casi delle persone uccise dalla polizia in carcere o per strada, Cucchi, Aldovrandi, ed altri. Questo è interessante perché negli anni 70 le reazioni delle famiglie erano quasi sempre individuali, isolate, non coordinate. Mentre oggi s’è creata una sorta di solidarietà tra di loro, è un fenomeno che parte dal basso a cui la nostra rivista si deve interessare magari con un inviato. Come il caso di Francesco Mastrogiovanni che è uno di questi casi e di cui la rivista si sta occupando perché legato al nostro ambiente anarchico: anche in questo caso grazie ai rapporti fraterni che ci uniscono all’ottimo Angelo Pagliaro, che “copre” il caso con passione e capacità giornalistica (e non è comune trovarle congiunte). È evidente che in questi casi non è importante che la vittima sia anarchica o non lo sia, è il dramma (e spesso la tragedia) dell’individuo solo di fronte al potere. C’è gente che se ne occupa seriamente da anni, per esempio c’è l’associazione di Manconi che fa un buon lavoro, contattiamola … vediamo se possiamo pubblicare il loro materiale. Anche se troppo poco, spesso abbiamo contattato e abbiamo dato spazio a chi già opera, concretamente, nelle realtà difficili. Meno slogan, più pratica. E allora ecco sulle nostre pagine Emergency, Amnesty, Telefono Viola, ecc.

Sicuramente la situazione della rivista negli anni 70 è differente dagli anni 80 …
Certo, gli anni 80 sono notoriamente gli anni del riflusso, della Milano da bere, c’è Berlino con la simbologia del muro, la caduta del comunismo. Sostenemmo la sottoscrizione per finanziare i nuovi gruppi di compagni nell’ex-cortina di ferro … la rivista è si sensibile ai cambiamenti dell’epoca … abbiamo però sempre un nostro ruolo che prescinde dai tempi …
Nico Berti ha spesso ripetuto un’affermazione molto valida “nella storia, ma contro la storia”, il nostro compito è di essere dentro i tempi ma non è condizionato dalla situazione storica.

Questo è interessante. Stai dicendo che la rivista ha un autonomia dalle condizioni esterne, che interagisce con le cose esterne ma ha un percorso proprio …
Sì, però come redattore vorrei dire che la rivista è innanzi tutto un discorso militante, ed è il modo con cui io ho contribuito a farla e la faccio, il nocciolo della questione è propria questa convinzione del militante, sono convinto che la rivista sia una fiaccola dell’anarchia, e questo è il motivo per cui nei momenti di difficoltà non mi ponessi neppure il problema di chiudere … ci ho messo l’anima, in questi 40 anni, perché quando mi sono avvicinato al movimento ho avuto l’impressione che mi abbiano dato tanto i vecchi di allora, non l’anarchia “astratta” ma gli anarchici, le persone in carne ed ossa, cuore e cervello, che ho incontrato e ai quali – in tanti casi – mi sono affezionato anche personalmente. È una lunga lista, che a chi non li ha conosciuti uno per uno dice poco o niente: Alfonso Failla, mio suocero, e poi Umberto Marzocchi, Umberto Tommasini, Maria Zazzi, Tommaso Serra, Vincenzo Toccafondo, Cesare Fuochi, Libero Fantazzini, Pio Turroni, Giuseppe Raffaelli di Montignoso, e poi gli “americani” (emigrati dall’Italia in Nord America, come Sacco e Vanzetti – per intenderci) Attilio Bortolotti, John Vattuone, Alex Saetta, Marco Giaconi, John the cook, Bastiano Magliocca, Max Sartin, Ettore Bonomini, ecc. ecc..
Non è l’idea che mi ha dato la “forza” o la prospettiva di realizzarla (ho sempre avuto un sano e profondo scetticismo sulla realizzabilità dell’utopia anarchica, e più invecchio meno ci “credo”), questo nuovo mondo che portiamo nei nostri cuori (secondo la poetica espressione di Buenaventura Durruti) mi è sempre parso una bellissima idea, bellissima e al contempo “strampalata”. Mi dispiace (forse) ma credo nelle cose concrete (devo aver preso questa attitudine da mio padre, il cui scetticismo trovava espressione nelle poesie amare e disincantate di Trilussa), credo che questa idea bellissima e/ma “strampalata” possa essere motore di tante energie positive, che il tendere verso questa idea sia di per se positivo, ma non è finalizzato alla sua realizzazione. Qualsiasi persona di buon senso a partire da Malatesta non credo avesse pensato di arrivare ad un mondo pacificato.
Da un punto di vista affettivo, occuparmi della rivista è stato un po’ il mio modo di ringraziare quei compagni.
Ricordo un giorno di aver buttato un giornale un po’ strappato nel cestino e di essere stato redarguito da un vecchio compagno, che mi faceva notare che avrei potuto lasciarlo sul metro per farlo leggere a qualcun altro. È nata anche da qui la concezione militante, da questi compagni spesso autodidatti che avevano un grande amore per la carta stampata. La militanza tradotta in lavoro diuturno, regolare, serio, nel lavoro che crea comunità, che crea relazioni, che crea solidarietà, la piccola goccia del mondo che sarà. E allora si diventa più credibili, usando un’espressione dell’odiato linguaggio militare si può affermare che l’anzianità fa grado.
Non sempre il durare e perdurare è di per se positivo. Non mi sono mai illuso di cambiare il mondo, quello che mi interessa è il come fai le cose … mi interessa non la pianta ma il seme … o meglio il seme che un po’ alla volta diventa pianta … quello che mi interessa è il mezzo e non il fine … tutto questo è legato alla convinzione che il fine sta nei mezzi … il mezzo che usi è il fine che tu vuoi realizzare, la rivista è quindi un piccolo esempio di anarchia … ho unito la mia professione di giornalista free-lance con l’anarchia e con la mia passione per la carta stampata … Con tante contraddizioni, certo. Ma anche con una soddisfazione di fondo.

Quello che consolida una rivista è la coerenza nel tempo, ed è una delle cose più difficili da realizzare in un mondo profondamente incoerente. 40 anni di coerenza come la non-pubblicità sulla rivista fa paura, richiama l’attenzione. La rivista rappresenta una rarità, la realizzazione di un’idea praticata, ha mantenuto una sua identità.
È vero che dall’esterno si coglie di più. La coerenza, se approfondita, è un discorso complesso perché se diventa rigidità, spocchia verso gli altri, se porta ad una eccessiva autoconsiderazione può essere pericolosa … la distinzione è tra orgoglioso di essere anarchico e spocchioso di essere anarchico … Orgoglioso vuol dire che noi sappiamo che, ripulito di varie cose (non poche, a volte), l’anarchismo è un filone significativo della storia e del pensiero e che può avere anche un ruolo positivo. Spocchioso è invece pensare che gli anarchici abbiano già la verità in tasca, cosa che non pochi sono serenamente convinti di avere. Sono convinto che l’anarchismo sia uno strumento fondamentale anche culturale per la trasformazione in senso libertario. L’anarchismo è irrinunciabile, fondamentale, ma non sufficiente, l’anarchismo è indispensabile ma insufficiente.
In altre parole, non si può fare a meno dell’anarchismo nel pensare ad una trasformazione sociale. ma non basta solo l’anarchismo.
Gli esempi storici della Spagna, Kronstadt, la Maknovcina, e quelli esistenti come la comunità di Urupia, il municipalismo libertario dei compagni di Spezzano Albanese (lo dico senza nessuna sottovalutazione perché sono convinto che siano esperienze concrete importanti) non bastano a prospettare un cambiamento del mondo. La nostra storia ed il nostro pensiero non sono sufficienti. Noi dobbiamo abbeverarci anche ad altri pensieri … Bisogna stare a sentire gli altri, soprattuttto chi concretamente opera, ma anche chi riflette sull’esistente a partire da altri filoni di pensiero, anche religioso. C’è gente che in tante parti del mondo sta realizzando cose interessantissime senza far alcun riferimento all’anarchismo. Tanta gente. È possibile fare cose buone, anche ottime, al di fuori dell’anarchismo (non contro, però).
Come anarchici dobbiamo riguadagnarci tutti i giorni spazi e credibilità. Nei suoi quarant’anni, credo che la rivista “A” abbia dato un suo contributo specifico nel conquistare questi spazi e questa credibilità.


2.616 COLLABORATORI.
MICA MALE.
Si ringrazia per la collaborazione Roberto Gimmi

Se 2.616 nomi
vi sembrano pochi

Pubblichiamo in ordine alfabetico l’elenco di coloro che hanno collaborato con “A” nel corso dei suoi primi 40 anni.
In particolare ci sono coloro che hanno scritto (dal n. 1 al n. 358 compreso di “A”, e poi nei dossier, nei libretti che accompagnano CD e DVD, ecc.), quelli che hanno collaborato alla parte iconografica (fotografi, disegnatori, grafici, vignettisti, ecc.), chi ha fatto le traduzioni e chi ci ha dato una mano per spedire all’ufficio postale, i singoli e i gruppi musicali che hanno offerto le loro esecuzioni per i vinili e CD in sostegno di “A”, e poi chi ha curato la regia dei filmati, l’ufficio-stampa, e poi ancora chi si è fatto carico della responsabilità legale della rivista. E tanti altri ancora.
Restano fuori da questo elenco i diffusori della rivista, gli abbonati sostenitori e quanti hanno sottoscritto (li si trovano elencati negli appositi elenchi pubblicati su ogni numero della rivista) e tante persone, compagni, amici che ci hanno dato una mano in mille modi durante questi 40 anni. In tutto, si tratta di altre migliaia di persone, che hanno condiviso con noi almeno un tratto di strada.
A tutti va il nostro grazie, con la nostra convinzione che l’aver in varia misura contribuito a mandare avanti questo progetto editoriale sia stato e sia per loro – per ciascuno di loro – fonte di piacere, orgoglio e identità. Esattamente come per noi.

70 M/S • A 67 • A Ideia Portogallo • A. Laura • A. Marco • A.D.A. Associazione Danubio Adriatico Reggio Emilia • A.E.D femminismo Bergamo • A.N.P.I. Piacenza • AAM Terra Nuova Scarperia • Abbate Fulvio • Abbate Irene • Abbotto Antonio • Abdel A. • Acanfora Fabrizio • Accame Felice • Accame Vincenzo • Accardi Carla • Accurso Ricardo • Achburge G. • Ackelsberg Martha • Acquati Giovanni • Acquistapace Pietro • Activestills • Adamo Pietro • Adly Farid • Adorni Filippo • Agenzia Fotogramma Milano • Agnesani Ketty • Agnese Angelo Gino (Gino Ganese) • Agustoni Nadia • Aiachini Manuel • Aiello Giuseppe • Ainsa Fernando • Akai-Ngurundere Laure • Albe Gruppo Teatrale Multietnico Ravenna • Albeggiani Edoardo • Alberini Mattia • Alberola Octavio • Albertani Claudio • Albini Andrea • Albouy Vincent • Alcorn Hamish • Alemanno Giuse • Alemany Josep • Aleotti Attilio Angelo • Alesini Nicola • Alessandro • Alexian Group • Alians Czarny • Alice • Alimonti Giovanna • Alioti Giovanni • Aliverti Giuseppe • Allia Simona • Almasio Graziella • Almeyra Guillermo • Alpi Stefano • Alter Uruguay • Alternative Libertaire Bruxelles • Altieri Daniele • Amber Architettura della Comunicazione Milano • Ambrogetti Rosanna • Ambrosino Pasquale • Ambrosoli Roberto (R. Brosio) • Amendola Alfonso • Amendolara Fabio • Amici di Alfredo Tassi • Amici e compagni di Marco Camenisch • Amnesty International Italia • Amodio Emanuele • Amorin Carlos • Amparore Paola • Anarchia Milano • Anarchici Siciliani Associati • Anarchici Brianzoli • Anarchici e Libertari Vignola • Anarchismo Catania • Anarchy Regno Unito • Ancona Gino • Andena Luigi • Anderson Andy • Anderson Margaret • Andrea • Andreani Monia • Andreetto Beppe • Anelli Michele • Angeli Nanni • Anteo • Antiarco • Antistato Edizioni Cesena – Milano • Antoci Fabio • Antolini Marco • Antonelli Alba • Antonelli Lina • Antonelli Tiziano • Antonioli Maurizio • Antonucci Giorgio • ApARTe Firenze – Venezia • Apuzzo Stefania • Aragia Franco • Aragno Giuseppe • Arbegardbe • Arbib Gloria • Arcari Carlo • Archivio Armando Borghi Castelbolognese • Archivio CDEC • Archivio Emergency • Archivio Famiglia Berneri – A. Chessa • Archivio Famiglia De André • Archivio Famiglia Failla-Finzi • Archivio Famiglia Mannerini • Archivio Famiglia Masini Cerbaia Val di Pesa • Archivio Fondo Gori Rosignano Marittimo • Archivio Gianni Tassio • Archivio I.I.S.G. – Istituto Internazionale di Storia Sociale Amsterdam • Archivio Mariano Brustio • Archivio fotografico Biblioteca F. Serantini Pisa • Archivio fotografico Studio Croce Piacenza • Archivio storico F.A.I. Imola • ARCI Lesbica • Arcos Federico • Ardau Sergio • Arduino Paolo • Aresi Gianfranco • Argenio Vincenzo • Aricò Rodolfo • Ariza Moreno Valentina • Ark Studio Milano • Armand Elisabeth • Armand Emile • Armonia & Caos • Artifoni Giovanni • Arvedi Renato • Arvon Henri • Ascolese Michele • Ashbaugh Carolyn • Assemblea Magonista Eloxochitlan – Messico • Assemblea permanente cittadini Massa Carrara • Assemblea permanente dei cittadini contro la Farmoplant Massa Carrara • Associazione Ami.Ca Conegliano • Associazione Cactus – Verde Vigna Comiso • Associazione I Sommersi Firenze • Associazione L’altra pazzia Reggio Calabria • Associazione Laminarie • Associazione Palermitana per la Pace • Associazione per lo sbattezzo Fano • Associazione pro Loco Arcevia Ancona • Associazione Signornò Roma • Associazione Wespe Neustadt – Germania • Associazione Ya Basta Lombardia • Associazione Culturale “Paolo Maggini” Botticino (Brescia) • Associazione Nazionale Libero Pensiero “Giordano Bruno” • Athos • Atlante Carla • Atman Benjamin • Attianese Alessandra • Aureli Andrea • Aut-art Forlì • Autogestions • Auvray Michel • Avrich Paul • Azione Rivoluzionaria • Azzaro Cosimo • Azzini Filippo • Azzolini Liliana • B. Carlo • B. Elisabetta • B. Franca • B. Marco • B. Silvana • B. Stefano • B.F.S. Edizioni Pisa • Baba • Babini Andrea • Bacardit Meritxell • Bacci Ugo • Bacon Jean • Baino Marco • Baj Enrico • Bakunin Michael • Balasso Natalino • Balbus • Baldacci Alessandro • Baldelli Giovanni • Baldini Lucia • Baldo Iride • Baldoli Claudia • Baliani Marco • Balkanski G. 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Milano • Coco Pippo • CoCoRiCò Torino • Codello Francesco • Codello Marta • Cogliati Giorgio • Coglito Rosalba • Coglitore Mario • Colacicchi Piero • Cole G.D.H. • Collectif Che Tolone • Collectif Contre les Explosions Liegi • Collectif Malgré Tout Parigi • Collettività Anarchica “di solidarietà “Tommaso Serra” Barrali • Collettivo Amautu Perù • Collettivo Anarres Milano • Collettivo Antimilitarista Anarchico Milano • Collettivo Comunicazione Libertaria • Collettivo di formazione Abra • Collettivo Dietrofront Torino • Collettivo Il Cuneo Monza • Collettivo Labirinto Benevento • Collettivo Lavoratori Libertari Torino • Collettivo Le Scimmie Milano • Collettivo Libera Espressione Nichelino Torino • Collettivo Liberazione Sessuale Milano • Collettivo Microcellulazione Napoli • Collettivo Punk Anarchici Grosseto • Collettivo Punx Anarchici Virus Milano • Collettivo Spazi Sociali Autogestiti Potenza • Collettivo Vaganti Parma • Collettivo Anarchico Materiali Dolci Roma • Collettivo Anarchico Ricerca Internazionale Palermo • Collettivo Libertario quartiere Ticinese Milano • Collettivo Libertario Mestre • Colombo Cesare • Colombo Eduardo • Colombo Luigi • Colombo Roberto • Comincini Claudio • Comitato Ambiente Amiata Val d’Orcia Siena • Comitato di gestione Verde Vigna Comiso • Comitato Difesa Ambientale Castanesi • Comitato Difesa Ambientale Cuggiono • Comitato difesa Cava S.Antonio Buscate • Comitato Diritti Civili Massa Carrara • Comitato Fabriziounodinoi Genova • Comitato Giovani ANPI “Comandante Muro” Piacenza • Comitato Lavoratori Cileni in esilio • Comitato per la Liberazione di Horst Fantazzini • Comitato Spagna Libertaria Milano – Genova • Comitato Campsirago • Comitato 19 gennaio Russia • Comitato Lotta contro l’emarginazione • Comitato Lotta per la difesa dell’area del Sieroterapico Milano • Commissione Handicap 4° Reseau Europeo Alternativa alla Psichiatria Roma • Compagne Ecofemministe Friuli • Compagnia Angeli del Non Dove • Compagnia delle Acque • Compagnia teatrale UtopiA Rimini • Comuna Utopina • Comunarde di Urupia Francavilla Fontana • Comune “Urupia” Francavilla Fontana • Comunidad Montevideo – Stoccolma • Comunidad del Sur Montevideo • Comunismo Libertario • Comunità Aquarius San Gimignano • Comunità Libertaria Belgradese • Concordia Tomaso • Confino Michael • Conforti Marco • Congiu Mario • Coniglio Giuseppe • Conio Giuliano • Cono Angela • Cono Joe • Consolato Sandro • Consoli Luciano Massimo • Consoni Lilla • Consorti Giovanni • Conte Bruno • Conti Elio • Conti Fabio • Conti Tonino • Contini Vittorio • Cooley John K. • Cooperativa Alekos Milano • Cooperativa Bravetta ‘80 Roma • Cooperativa Libera Espressione Torino • Cooperativa Nuova Agricoltura Campsirago • Coordinadora Libertaria Latinoamericana • Coordinamento Anarchico Palermitano • Coordinamento Friulano per l’ecologia sociale Udine • Coordinamento Leghe Autogestite contro la base di Comiso • Coppola Elisabetta • Coraddu Guido • Coraddu Massimo • Corbelletto Rosa • Cordes Christian • Cordini Giorgio • Corini Gianni • Coro di Voci Bianche “Paolo Maggini” di Botticino Brescia • Corsentino Michele • Cortese Luisa • Cortesi Luisa • Cortiana Graziano • Cortini Guerriero • Cortopassi Giuliano • Cosi Lucia • Cosimo il fustigatore di masochisti • Cospito Alfredo • Cossich Dario • Cossutta Marco • Costa Claudio • Costa Lella • Costa Sergio • Costantini Flavio • Cotichelli Giordano • Cottino Paolo • Cova Ermanno • Covre Pia • Cozzo Ciro • Crary Dan • Crass Un membro • Craveri Antonio • CRC Abano Terme • Crespini Maria Teresa • Cringoli Lino • Cristallini Sandro • Cristallo Valeria • Cristianesimo Anarchico Modena • Croce Pietro • Croce Nera Anarchica Ticino • Crocenera Anarchica • Crotti Ezio • Crovatin Luca • Cruciani Fabrizio • Cucurnia Mauro • Cuevas M. • Cullen Steve • Cuoca Rosso-Nera • Curtoni Vittorio • Cuzzi Gloria • Czechowicz Belin • D. 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Vicente • E.N.I. Un compagno • Echaurren Pablo • Ecke Werner • Edizioni Spartaco Santa Maria Capua Vetere • Edo Luis Andres • Eguchi Kan • Eire Nua • El Censurado Uruguay • El Libertario Venezuela • El Mate Argentina • Elena • Elettra • Elli Chiara • Embid Alfred • Emergency Milano • Emiliani Vittorio • Enckell Marianne • Endrizzi Sandra • Enil • Ensemble Fab • Ensemble Laborintus • Enzensberger Hans Magnus • Ercolini Ilaria • Ermani Paolo • Ermini Rino • Errandonea Stefano • Escalar Gisella • Esteve Mai • Eutopia Grecia • Eva Fabrizio • Evangelisti Valerio • F. Giorgio • F. Lodovico • F. Raffaele • F.A.I. Commissione di Corrispondenza Reggio Emilia • F.A.I. Commissione di Corrispondenza • F.A.I. Federazione Anarchica Italiana • F.A.I. Alessandria • F.A.I. Palermo • F.A.I. Rimini • F.G.C.I. gruppo di iscritti e simpatizzanti Varese • F.M.S.A. Consiglio di Fabbrica • F.M.S.A. 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Claire • G. Dario • G. Monica • G.A.F Genova • G.A.F. Gruppi Anarchici Federati • Gabellini Antonietta • Gaber Giorgio • Gaccione Angelo • Gaddi Gabriele • Gagliano Giuseppe • Galantini Roberto • Galassi Virgilio • Galasso Eugen • Galasso Valentina • Galbiati Alessandra • Galimberti Maki • Galleani Luigi • Galletto Gil • Galli Natale • Galliari Marco • (don) Gallo Andrea • Gallo Domenico • Galzerano Giuseppe • Gambetta Beppe • Gandhi M.K. • Gandini Jean Jacques • Gang • Garagiola Federico • Garavini Nello • Garboli Andrea • Garcia Felix • Garcia Miguel • Garcia Victor • Garcia Widemann Emilio • Gargiulo Laura • Garlaschelli Barbara • Garnero Franco • Garofalo Mauro • Gastoni Marco • Gattai Zelia • Gatteschi Carlo • Gatti Claudia • Gattia Alarico • Gatto G. • Gatto Ciliegia feat. S. Giaccone • Gavella Domenico • Gavelli Fabio • Gazzola Chiara • Gemignani Germana • Gennari Giorgio • Gennaro Nino • Gentili Marcello • Geologi Laboratorio EcoAmbientale Roma • Germani Clara • Gessa Giuseppe • Ghezzi Dori • Ghiandoni Tullio • Ghinelli Vittorio • Ghirardato Carlo • Giaccaria Marco • Giaccherini Giampaolo • Giaccone Stefano • Giachetti Diego • Giacomini Franco • Giacomoni Valeria • Giacopini Vittorio • Giambelluca Salvo • Gianfelici Gabriella • Giani Guido • Gianluca • Giannini Guido • Giannone Davide • Gianorio Cristiana • Giarraffa Maria • Giarratana Letizia • Giblin Beatrice • Gigi • Giglioli Giordano Bruno • Gilbè • Gilles • Gimmi Roberto • Gionta Aldo • Giorgi Cerutti Monica (Velusamhi) • Giovannetti G. • Giovanni B. • Giovenale Marco • Girardello Laura • Giuffrida Romano • Giuliani Athos • Giuseppina • Giussani • G’Noppod • Gobbi Orazio • Gobetti Paolo • Godard Philippe • Gohara Taketo • Goj Andrea • Goldman Emma • Goldman Tina • Goldstaub Adriana • Golino Silvia • Gomez Alfredo • Gomez Casas Juan • Goodman Paul • Goodway David • Gordon Uri • Gori Pietro • Gorz Andrè • Gozzini Giuseppe • Gozzo Sandro • Graffi Marco • Gramolini Cristina • Granai Pietro • Granata Mattia • Gransac Arianne • Graoteclas Hubert • Grassi Paola • Grazia • Graziani Renato • Grbesic Dubravko • Greco Oscar • Green Perspective Usa • Greenpeace Italia • Greggio Ezio • Gregoire Normand • Gremmo Roberto • Grenville Bruce • Griffo Giampiero • Grilli Alberto • Grillini Franco • Grosser Alfred • Grupo Anarquista Libertad Argentina • Grupo Chapare Bolivia • Gruppi Anarchici Imolesi • Gruppo “Carlo Cafiero” Roma • Gruppo “Emanuel Goldstein” Varsavia • Gruppo “Machno” Marghera • Gruppo “Marcuse” • Gruppo Anarchico Bari • Gruppo Anarchico Bergamo • Gruppo Anarchico Danzica • Gruppo Anarchico Loverese • Gruppo Anarchico Ragusa • Gruppo Anarchico Reggio Calabria • Gruppo Anarchico Salentino • Gruppo Anarchico “Alfonso Failla” Palermo • Gruppo Anarchico “Alfonso Failla” Trapani • Gruppo Anarchico “Andrea Venturini” Carrara • Gruppo Anarchico “E. Malatesta” Imola • Gruppo Anarchico “Emma Goldman” imperia • Gruppo Anarchico “G. Pinelli” Treviso • Gruppo Anarchico “Germinal” Trieste • Gruppo Anarchico “Kronstadt” Roma • Gruppo Anarchico “La Comune” Imola • Gruppo Anarchico “Leda Rafanelli” Pistoia • Gruppo Anarchico “Louise Michel” Napoli • Gruppo Anarchico di Controinformazione Belluno • Gruppo Anarchico di Controinformazione Brescia • Gruppo Anarchico SciarpaNera Alessandria • Gruppo Antivivisezione Animal Liberation Forlì • Gruppo Artigiano Ricerche Visive Roma • Gruppo Azione Anarchica Pistoia • Gruppo Azione Libertaria Venezia • Gruppo Comunista Anarchico Bari • Gruppo Comunista Anarchico Forli • Gruppo Comunisti Libertari uscito da Lotta Continua • Gruppo “di sostegno “C. Plummer” Florida • Gruppo Educatrici contratto a termine Milano • Gruppo Gioventù Anarchica Milano • Gruppo Libertad Rimini • Gruppo Libertario Pozzuoli • Gruppo Libertario Trieste • Gruppo Libertario “Echo” Monza • Gruppo Lotta Proletaria Roma • Gruppo Obiettori di Coscienza Pellizzano • Gruppo Operai Anarchici Genova Sestri • Gruppo Rete per L’Autogestione Roma • Gruppo Roma Centro • Gruppo Sigma Varsavia • Gruppo Sociale Quartiere Canazza Legnano • Gruppo “Studio “Vai mo’” Napoli • Gruppo Teatrale “Utopia” Rimini • Gruppo d’Acquisto Solidale Badaquà • Gruppo Lavoro Ecologia Sociale e Bioregionalismo Roma • Guadagnucci Lorenzo • Gualtieri Rino • Guaraldo Olivia • Guarda Michele • Guarnaccia Matteo • Guarneri Ivan • Guarnieri Ermanno “Gomma” • Guarnieri Riccardo • Guazzoni David • Guccione Gabriele • Guerra Ramon Garcia • Guerrini Ivan • Guerrini Luigi • Gugelmo Luciano • Guglielmi Vito • Guidetti-Serra Bianca • Guidi Roberto • Guido • Guindon Alex • Guizzi Stefano • Gurley Flynn Elizabeth • Gurrieri Pippo • Gutierrez Enrique • Gynnasio Nihilista Reggio Emilia • Harari Guido • Hardy Thomas • Harpa • Harper Clifford • Harris Mark • Hartley David • Hasek Jaroslav • Havlusak Vacustav • Heller Chia • Helmke Lutz • Henson Lance • Hewitt Marsha • Hobson L.D. • Hoffman Brigitte • Holterman Thom • Hooks Bell • Horace • Horkheimer Max • Hrelia Fernanda • Humphry Derek • Iachetta Franco • Iaia • Ianneo Fulvio • Ichino Fulvio • Il suonatore Jones • Illiano Mauro • Imperato Tobia • Indic Trivo • Inisheer • insegnanti per la Pace Legnano • Intermoia G. • Interrogations Ricerche Visive Milano • Invernizio Carolina • Iozzi Paola Francesca • Ippolita • IRL Lione • Isa • Isaacs Robert • Isca Valerio • Ishikawa Akihiro • Isola Francesco • Istituto Ernesto De Martino • Italiano Vincenzo • Iudice Pina • Iurlano Giuliana • Iuso Pasquale • Iztok Parigi • Jacobello Salvatore • Jacquier Charles • Jad • Jadresko Antonella • Jaques Gilbert • Jarach Lawrence • Jassies Nico • Jerry • Joe • Jordan Tim • Jorge L • Jorges M.M. • Josse • Judas 2 • Kadic Nina • Kala Pablo • Kamper Peter • Karpati Mirella • Kashdan Silvya • Kelt Nastya • Kibalchich Vlady • Kibbutz Givat Brenner Israele • King Ynestra • Kinnara • Klare Michael T. • Knopp Fay Money • Koether M. • Kohl Jurgen • Kohl Reinhold “Denny” • Kollettivo Arkano Pordenone • Kollettivo Libertario Lecco • Kolmikov Aleksei • Konopnicki Guy • Kopenawa Yanomami David • Korosi Suzanne • Koven David • Kropotkin Pietro • Krznaric Roman • Kucinskij Maxim • Kuntz Joelle • Kupiec Jean Jacques • Kurin Kytha • Kurkuma • L. Carlo • L. Marina • L.A.V. Roma • L.I.D.A. Comitato contro la Corrida Schio • L.O.C. Toscana • L.O.C. Lega Obiettori di Coscienza • La Baronata Edizioni Svizzera • La Cecla Franco • La Ganga Aldo • La Lanterne Noire Parigi • La Macina • La Paz • La Pietra Ugo • La Question Sociale Francia • La Rosa Tatuata • La Torre Massimo • La Torre Placido • L’Abate Alberto • Laboratorio dell’Utopia • Lacerda Maria • Lacoste Yves • Lagomarsino Guido • Laing Ronald • Lalli Chiara • Lalli • Lamendola Francesco • Landi Giampiero • Landi Gianni • Landstreet Lynna • Lane Robin • Langone Damiano • Lanza Luciano (Emilio Cipriano) • Lanza Simone • Lanzavecchia Massimo • Lanzi Paolo • Lanzini Juri • Lapenna Nicola • Larocca Massimiliano • Larosa Luciano • Latouche Serge • Lattarulo Gerardo • Lay Alessandro • Lazzara Raffaele • Lazzari Ruggero • Lazzarini Maurizio • Lazzini Paolo • Le Guin Ursula • Le Monde Libertaire Parigi • Le Quattro Chitarre • Leali Alessandro • Leardi Margherita • Lebel Jean Jacques • Lee Masters Edgar • Lee Yu See • Leeder Elaine • Lega Alessio • Lega Maria Elena • Leggio Franco • Lehning Arthur • Leitch Alison • Leite Monica • Lenoir Hugues • Lentini Carmelo • Leo Carmela • Leone Ignazio • Les Anarchistes • L’Estorio Drolo • Letizia Domenico • Leval Gaston • Levi Michail • Levis L • Levy Bernard Henry • Li Pei Kan • Liadori M. • Libera Spazio Sociale Anarchico Modena • Liberamente Firenze • Liberati Piero • Liboni Marcello • Libreria Anomalia Roma • Libreria Utopia Milano • Licata Andrea • Liffi Stefania • Liguori Domenico • L’incaricato • Lipparini Floriana • Lippi Furio • Lipschutz Pierre • Litvak Lily • Litvinov V • Living Theatre • Lo Presti Giovanna • Locatelli Alberto • Locatelli Gesuino (Don) Parroco di Buscate • Lodolo Giovanna • Lombardi Franco • Lombardini Domenico • Lombardo Antonio • Lombroso Cesare • Lonzar Stefano • L’Orange Ina • Lorbo Willy • Loredana • Lorenzi Patrizia • Lotta Continua • Lotti Giuseppe • Lottieri Carlo • Lourau René • Lowy Michael • Lucarelli Carlo • Lucas Gilles • Lucas Uliano • Lucenti Michela • Lugosi Bela • Luisa • Lupo Jack • Luque Marie Laure • Lustig Oliver • M. Andrea • M. Daniele • M. Dino • M. Luigi • M. Marco • M. Paolo • Ma.Ma. Rete Donne Anarchiche • Macaluso Enzo • Macario Mauro • Maccioni Achille • Maciel Agnaldo S. • Maddog Tootsie • Madri della Plaza de Mayo Argentina • Madrid Santos Francisco “Paco” • Maffei Andrea • Magagnoli Maria Luisa • Magaraggia Roberto • Maggi Ettore • Maggi Eugenio • Maggiani Maurizio • Maggio Marvi • Magnani Milena • Magni Oreste • Maiese Adamo • Majakovskij Vladimir • Maknovicina Gruppo Itinerante Firenze • Malabarba Gigi • Malagoli Silvio • Malatesta Errico • Maldini Giuliana • Malecorde • Malet Leo • Malina Judith • Malis Andrea • Maltini Enrico • Malvezzi Lucia • Mammoliti Francesco • Manca Gianpaolo • Mancini Paolo • Manfrin Luca • Mangano Antonello • Mangano Attilio • Mangini Giorgio • Mangone Carmine • Manieri Giulio • Mannarelli Massimo • Mannerini Riccardo • Manni Agostino • Manor Giora • Mantovani Vincenzo • Manu • Manuel • Manzato C. • Manzini Gianna • Maragnani Laura • Maragni Ezio • Marampon Ricciotti • Marano Franco • Marasca Paolo • Marcello • Marchesi Emilio • Marchino Luciano • Marchionatti Roberto • Marchitiello Ivan • Marcolfo • Marcos Violette • Mare Carlo • Marelli Gianfranco (Jules Elysard) • Marenchi Mario • Marenghi Giorgio • Margarita Teodoro • Margonari Renzo • Margutti Roby • Mariani Carlo • Mariani Giuseppe • Marini Finella • Marino Gianfranco • Marino Massimo • Marino-Lucca Mario • Mariotti Agostino • Mark Mary E. • Marmaja • Marnieri Fabio • Maron Stanley • Marotta Ciro • Marquardt Alfred • Marra Daniele • Marraccini Omero • Marrone Mario • Martellieri Gilberto • Martello Ludovico • Martin Ana • Martin Brian • Martin Julian • Martina Giancarlo • Martinelli Gabrieli Marco • Martini S.M. • Martoccia Tiziana • Martometti Alessandro • Martonetti Alessandro • Marzocchi Umberto • Masala Alberto • Masali Luca • Masciotra Pasquale • Masciulli Ermanno • Masi Fabio • Masi Edoarda • Masiello Giacomo • Masiello Pietro • Masini Pier Carlo • Masnovo John • Massafra Mauro • Massetti Enrico • Massignan Marco • Massimo • Massone Paolo • Mastrangelo Mimmo • Mastropasqua Fernando • Matteo Maria • Matthews Rodney • Mattioni Moreno • Maule Maurizio • Maurizio Paolo • Mauro Alberto • Mauro D. • Mauro Danilo • Mauro M. • Max • Maxwell Coetzee John • May Todd • Mayley Ron • Mazel Corinne • Mazzeo Antonio • Mazzolani Claudio • Mazzoleni Gilberto • Mazzolla Palanca Alicia • Mazzucchelli Alfredo • Mazzucchelli Ugo • Mc Carthy Kay • McLaughlin Mary • Meazza Stefano • Mecozzi Pina • Medail Enrico • Meister Albert • Melandri Franco • Melani Orio • Melillo Gianni • Mella Gabrio • Mella Ricardo • Meloni Riccardo • Meloni Sandro • Melziade Vito • Membri dell’ex-Autonomia • Mendez Nelson • Meneganti Paola • Meneguz Giorgio • Menga Carlo E. • Menzione Ezio • Mercanti di Liquore • Mercantinfiera • Mercier Vega Luis (Santiago Parane) • Merenghelli Andrea • Mereu Italo • Merschmeier Michael • Mesch Maria • Messina Francesco • Messina Massimo • Messina Pasquale • Mestrimer Simone • Miallo Gaetano • Michalski Franek • Michelatti Pier • Micheli Renzo • Michelini Alessandro • Michelini Elisabetta • Mideando String Quartet • Miglioranza Leo • Migliorisi Aldo • Mihaylova Gloria • Milani Carlo • Milazzo Alessandro • Milena • Milesi Piero • Miller Arthur • Miller-El Thomas Joe • Milli Alberto • Minali Miche • Minardi Roberto • Minerva Sabino • Minini Elisabetta • Mink Paule • Minozzi Stefania • Mintz Frank • Miola Luca • Miranda Claudio • Mirelli Eloisa • Mirina • Mirò Juan • Missero Dalila • ML Fabrizio • Moglia Jimmy • Molares Maria Teresa • Molina Luis Burro • Molinari Maurizio • Molinario Luca • Molinellii Giancarlo • Molinis Luigi • Monaco Giampiero • Monanni Vega • Monasta Lorenzo • Monetti Elisabetta • Monia • Monina Michele • Monis Anna • Monnini Duccio • Montagu Ashley • Montana Guido • Montanari Fabrizio • Montanari Luca • Montanaro Giordano • Montanini Nella • Montaresi Pietro • Montefameglio Umberto (Monte) • Montecchi Maurizio • Monteverde Ada • Montfort Nick • Morabito Antonio • Mordenti Adriano • Mordini Vincenzo • Moreel Bas • Moretti Ettore • Moretti Manuela • Morin Lecina David • Moroni Alberto • Moroni Silvia • Morris William • Morse Chuck • Mosca Corrado Dino • Mosca Salvatore • Moschetti Renato • Motta Angelo • Movimento Anarchico Modenese • Movimento Autonomo di base Ferrovieri Torino • Movimento Libertario Cubano • Movimento Libertario Simbionese • Movimento Nonviolento • Movimento Reichiano Treviso • Mozelt Marco • Mu Andrea • Mühsam Erich • Mugabane Peter • Municipalisti di Base Spezzano Albanese • Municipio Autonomo San Juan Copala • Mura Gianni • Mura Giannina • Muraro Luisa • Murney Pete • Musarra Natale • Musso Guido • Musumeci Carmelo • Muzzatti Marco • Naco • Nannini Gianna • Napolitano Alberto “Napo” • Napolitano Antonella • Napolitano Emilia • Nappi Antonella • Nardone Rosy • Naselli Francesco • Nash Mary • Nassaro Alfio • Natoli Alfonso • Navone Riccardo • Navone Roberto • Ndiaye Mandiaye • Negrello Nerina • Negri Diego • Neri Alfio • Neri Claudio • Nesti Patrizia • Nettlau Max • Niccoli Federico • Nicolas • Nicolazzi Alfonso • Nicolazzi Paola • Nicolello Adrea • Nicolini Luciano • Nicolis Luigi • Nicosia Fabio • Niel Maathilde • Nik • Nissim Piero • Noe Ito • Noel “Roger “Babar” • Non Serviam Movimento antimilitarista Polonia • Nonsottomessi Reggio Emilia • Notarfranchi Paolo • Notari Romano • Novelli Silverio • Nucleo Anarchico Cesano Maderno • Nucleo “Anarchico “”Utopia“ Napoli • Nucleo Giustizia e Libertà • Nucleo Libertario Crescenzago Milano • Occupanti ex Caseificio di San Martino Mugnano • Odiardo Lele • Oklobdzija Mira • OkoLinX Germania • Olimpi Stefano • Oliva Carlo • Oliva Vincenzo • Olivotto Corrado • Ollino Marinella (Lalli) • Onesti Sergio • Ontani Luigi • Opera Nomadi • Orchestrina del suonatore Jones • Organizzazione Anarchica Pietrogrado • Organizzazione Anarco-Comunista Napoletana • Organizzazione Donne Libertarie Livorno • Ori Luciano • Orio Stefania • Orizzonti Libertari Como • Orlandini Paola • Orselli Piero • Orsini Paolo • 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Gabriele • P. Roberto • P. Stefano • Paccino Dario • Paciucci Gianluca • Padovan Dario • Padovese Marina • Padovese Stefano • Padovese Tullio • Pagani Camilla • Pagani Maurizio • Pagani Mauro • Pagano Michele • Pagano Vincenzo • Pagini Daniele • Pagliaro Angelo • Pagliero Carla • Paiter Surui Itabira • Palamara Rocco • Palazzi Arduini Francesca (Dada Knorr) • Palermo Giulio • Palidda Salvatore • Pallotta Clelia • Palombo Fabio • Palombo Francesca • Panario Daniel • Panciroli Alberto • Pandin Marco • Pandolfo Lucio • Pani Massimiliano • Panicucci Massimo • Panigadi Giovanna • Panizza Massimo • Pantaleo Raul • Panzeri Andrea • Panzeri Arnaldo • Panzeri Roberto • Paola • Paolella Adriano • Paolini Giulio • Paolo • Paper Resistance • Papi Andrea • Parboni Fabrizio • Pariani Laura • Parisi Corrado • Parisi Giancarlo • Parodi Andrea • Parravicini Daniele • Partito Groucho-Marxista d’Italia • Pascarella Gian Luigi • Pasello Franco • Pasquale Antonio • Pasquinelli Anastasia • Pasquini Stefano • Passamani Massimo • Passante Alfredo • Pastore Massimo • Pastori Angelo • Paterna Claudio • Patrizia • Pavese Franco • Pazienza Andrea • Pearce David • Pearson Linda • Pecci Stefano • Pedago Party • Pedercini Paolo • Pedone Antonio • Pedrazzini Patrick • Pedretti Stefania • Pelikan Jan • Pelle • Pellecchia Umberto • Pellegrino Lenin • Pellisari Luigi “Luisito” • Penna Emilio • Pennington Bruce • Penno Francesca • Perani Federica • Peraro Federica • Perasavic Benjamin • Perillo Fulvio • Perin Andrea • Perini Sergio • Perna Maria Speranza • Pernelle • Pernice Renato • Pernicone Nunzio • Peroncini Giovanni • Perono Querio Ronal • Perricone Federico • Perrini Agostino • Perrone Andrea • Persico Mario • Pescaioli Giuseppe • Pessina Luca • Petazzi Franco • Petrassi Elena • Pezzetti Marcello • Pezzica Lorenzo • Phantomas • Philopat Marco • Pianciola Cesare • Piccirillo Mario • Piccola Bottega Baltazar • Picqueray May • Pidutti Patrich • Piergiovanni Pasquale “Lillino“ • Pierotti Alessandra • Pierozzi Giancarlo • Pietra Katia • Piffer Enzo • Pighini Stefano • Pignatta Valerio • Pilotto Stefano • Piludu Ferro • Pinca Roberto • Pineda Virgilio Roel • Pinna Pietro • Pinos Daniel • Pinotti Marco • Pinter Harold • Piombini Guglielmo • Pircher Michele • Piromalli Salvatore • Pirondini Andrea • Pirsig Robert • Pisicchio Michele • Pisu Nicola • Pitari Gianluca • Pizzocchero Franco • Pizzola Mario • Planche Fernand • PLFM Andrea • Poce Paolo • Poggi Maurizio • Poirè Giuseppe • Poiret Xavier • Polizzi Michele • Pomponio Remo • Pons Suzanne • Pontolillo Michele • Pontone Silvio • Pontremoli Giuseppe • Porro Germano • Porta Lorenzo • Portaluppi Fabio • Porto Daniele • Postiglione Umberto • Povellato Loretta • Pozzi Riccardo • Prandstraller Gian Paolo • Prati Jones • Pratolini Vasco • Pratt Hugo • Premi Federico • Pretelli Settimio • Prevert Jacques • Prez Gonzales Pablo Cesar • Prieto Laura • Prieto Ruben • Printes Antonio Carlos • Proudhon Pierre Joseph • Prunetti Alberto • Pucci Emilio • Pucciarelli Domenico “Mimmo” • Puggioni Vincenzo • Puglielli Edoardo • Pugnalin Sergio • Pulsinelli Tito • Punx Anarchici Comiso • Punzo Armando • Pupa • Putignani Loredana • Puttilli Matteo • Quadrati Eusebio • Quadruppani Serge • Quartana Gianni • Quino • R. 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CP17120

En recuerdo de Nerio Casoni

Con alcune settimane di ritardo abbiamo ricevuto l’ingrata notizia della morte del nostro compagno Nerio, avvenuta a Bologna lo scorso 26 agosto 2010.
Per gli anarchici di diversi luoghi di questa regione del mondo, negli ultimi anni la figura e il contatto con Nerio erano diventati familiari, da quando aveva iniziato a viaggiare tra i diversi paesi stabilendo una comunicazione con collettivi e iniziative libertarie che oggi ritornano a fiorire nel continente, ricoprendo il coraggioso compito di mettere in contatto noi e il movimento (A) europeo, soprattutto con l’area di lingua italiana.
Negli ultimi tempi questo legame con l’America Latina si era fatto intenso con il Venezuela e, soprattutto, con Cuba.
All’inizio del 2010 Nerio Casoni era rimasto in questo paese per diverse settimane, con la responsabilità di essere il primo attivista del movimento anarchico internazionale a essere presente nell’isola dopo cinquant’anni, per appoggiare e partecipare agli sforzi di ricostruire espressioni libertarie da e per Cuba.
Chi di noi, a Cuba e in Venezuela, ha avuto l’occasione e la fortuna di conoscere Nerio, non si dimenticherà mai della sua amicizia, né di quanto abbiamo imparato insieme a lui, ne di quel lavoro silenzioso ma molto importante che ha portato avanti per noi. Che la terra sia lieve per un uomo libero!

Taller Libertario
Alfredo López” (Cuba)
Colectivo Editor de El Libertario (Venezuela)

(si ringrazia Arianna Fiore per la traduzione)

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La D’Addario
vittima? / Replica

Ringrazio le due lettrici di “A” (Valentina Galasso ed E.V., in Cas.Post.17120 dello scorso numero) per le loro osservazioni al mio scritto “L’altra” (“A” 355, estate 2010).
Con questo articolo ho cercato di esprimere ciò che la storia di Patrizia D’Addario, seguita con istintivo interesse, a me lascia intravedere senza intenzione di dimostrare una qualche ipotesi.
Ho interpretato la cosa a partire da quello che ha colpito il mio sguardo, muovendomi a interloquire pubblicamente. Sono d’accordo con Valentina Galasso quando qualifica “azzardata” la mia (?) ipotesi: azzardato però è lo sguardo, non l’ipotesi supposta. Sono d’accordo anche con E.V. quando nomina il “trasporto emotivo da cui i giudizi sono accompagnati”. Ma l’accordo non è per me sullo stesso piano.
Non nego l’emotività – empatia sento di chiamarla – e ci faccio i conti. Ferma restando a utilizzare i conti per la forza trasformativa, a volte perfino creatrice, del loro non tornare con quanto ci si aspetta, se spiazzano cioè e fanno accadere qualcosa di imprevisto: guadagno che giudico di preziosa caratura rispetto all’inefficacia trasformativa della logica del politicamente corretto o, in altri termini, della coerenza ad un modello pre-visto, a volte perfino fantasticato.
Mi sono lasciata stupire da questa donna e l’ho voluta ascoltare dalla sua viva voce. Immaginavo che un po’ se la tirasse, che al look ci tenesse: così non è (stato). L’ho conosciuta personalmente e in relazione ad una proposta politica – l’incontro a Lugano – da lei immediatamente accettata. Da notare: non sono proprietaria né di testate giornalistiche, né di reti televisive e non lavoro per nessun monopolio mediatico, scrivo – tra parentesi che non ci sono – su “A”. Vorrà pur dire qualcosa (certamente non di anarchico puro ma almeno di vena libertaria) se lei, Patrizia D’Addario, agisce la libertà di stare al mondo con quello che trova e mettendoci del suo. Si barcamena, senza stare tutta né dalla parte della vittima, né in quella della persecutrice.
Faccio presente: non soltanto Anno zero le ha offerto ospitalità – e lei gliel’ha offerta a sua volta accettando. All’indomani delle rivelazioni sulle feste a Palazzo Grazioli, la prima intervista rilasciata in Italia l’ha realizzata Ida Dominijanni sul Manifesto; seguono altre presenze: all’Infedele di Gad Lerner, alla 7 con Lilly Gruber, su Vanity Fair nello stesso numero dedicato alle dimissioni dal Tg1 di Maria Luisa Busi e suppongo altre di cui non sono a conoscenza.
Conosco per contro la copertina di Panorama (gruppo Mondadori) dedicata a: La pupa e i pupari con il reiterato stile giornalistico comune ai e con i poteri mafiosi. Domanda (mia e retorica): è il potere dentro la mafia o è la mafia dentro il potere? Risposta (mia e non retorica): tutte due in un abbraccio perenne. Avvolgendo la persona di Patrizia D’Addario in un complotto dentro cui lei si sarebbe fatta consapevole strumento ad uso degli avversari politici del capo, la paranoia al potere è il detto che dice l’essenziale dello status quo.
Preciso inoltre di non aver espresso il seguente pensiero: la D’Addario ha fatto breccia; ho invece pensato di dare parola a ciò che sento in questi termini: ha aperto una breccia nelle mura del Palazzo: luogo non “della politica di alti livelli”, come Valentina Galasso scrive, ma di potere, che non è la stessa cosa della politica.
Accolgo volentieri – qui e ora in piccolissima parte per mezzo di un articolo e in relazione alle osservazioni ad esso riferite, ma anche altrove e in seguito – l’invito di E.V a riconoscere la necessità dell’interrogazione “sui meccanismi dell’immaginario e del Potere […] anche e soprattutto [quelli che fanno] parte del nostro sistema di pensiero”. Intendendo da subito che al di qua dei meccanismi dell’immaginario ci sono le pratiche e le mediazioni viventi dell’umano simbolico.

Monica Giorgi
(Giubiasco – Svizzera)

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Meeting
anticlericali 1 / Botta...

Cara Francesca,
grazie per la bella presentazione dell’Associazione per lo sbattezzo e la ricca esposizione che hai fatto dei meetings anticlericali (“A” 356. ottobre 2010, “Dossier meeting anticlericali” a cura di Francesca Palazzi Arduini).. Questa lunga esperienza è stata, grazie anche alla sua trasversalità, una delle più importanti che ha attraversato, negli ultimi trent’anni, il movimento anticlericale ed anarchico. Trasversalità che non è mai venuta meno, fino alla fine dell’esperienza stessa.
Mi dispiace che la tua impressione (forse più che un’impressione) sia stata di una sorta di appropriazione del “marchio” dell’Associazione da parte della FAI, avvenuta, sempre secondo te, dopo il meeting di Bologna del ‘99. Molte compagne e compagni della Federazione hanno via via aderito all’Associazione per lo sbattezzo e contribuito ai meetings anticlericali sia nell’organizzazione che nell’elaborazione teorica. Penso, per esempio, a Rosanna ed Enrico di Senigallia, a Paola di Trieste, a Marina di Livorno, a me, a Walter, a Mariella e Massimo di Milano, a Francesco di Roma e tralascio il ricordo puntuale di tante e tanti altri. Ma né il “marchio” dell’Associazione per lo sbattezzo, come lo chiami tu, né la logistica dei Meetings anticlericali sono mai stati “presi in carico” dalla Federazione Anarchica Italiana. Fino alla fine di questa esperienza dentro l’Associazione e anche nelle ultime iniziative erano attive compagne e compagni come Marina e Fabio, Chiara Gazzola, Pippo Gurrieri, Federico Sora, Gigi di Macerata che della FAI non sono mai stati. Senza dimenticare le compagne ed i compagni di Libera di Modena (non-FAI) e di Piombino (FAI).
Un’altra cosa mi interessa aggiungere che riguarda, nello specifico, il Meeting svoltosi a Bologna nel 1999. Il Meeting, aperto da un paginone di “Cuore” dedicato all’Associazione per lo sbattezzo dal titolo: “Battezzare un minore è circonvenzione di incapace”, si caratterizzò, nella giornata di sabato 3 luglio, con la sessione , organizzata e curata dalla Rete delle donne anarchiche che aveva per titolo: “Le donne contro gli integralismi: il controllo delle religioni sulle donne, sulla libertà di procreazione, di aborto, contro la violenza fuori e dentro la famiglia e lo stupro” partecipò anche Melita Richter (sociologa triestina) con una relazione sugli integralismi e nazionalismi nei Balcani. La mattinata di domenica 4 luglio fu dedicata al ricordo di Marina Padovese e Joice Lussu.
Concludo riprendendo un aspetto di questa esperienza che mi sembra tu abbia colto molto bene e che a me personalmente ha lasciato tanto. Ogni anno ci ritrovavamo con le nostre e i nostri figli un po’ più grandi. Figlie e figli ai quali abbiamo cercato di dare, anche attraverso quest’avventura, un’impostazione critica della realtà. Forse ci siamo riusciti.

Tiziana Montanari

Meeting anticlericali 2 /
… e risposta
Cara Tiziana,
grazie per i preziosi ricordi, hai ragione, Fai c’è sempre stata nei meeeting, chi vuole metterlo in dubbio? ...e nell’Associazione per lo Sbattezzo, la mia era solo una precisazione rispetto al grande impegno successivo ai meeting fanesi di Fai nell’organizzazione, la quale, ne converrai, vista con gli occhi miei e di molti altri ex-animatori, risulta svuotata di tanti compagni di altre appartenenze, e vede invece un impegno strategico dei compagni e compagne della Fai a tenere aperta comunque l’Associazione (che addirittura si voleva sciogliere per “raggiunti fini statutari”) impegnandosi ancora di più seppure non assumendo formalmente incarichi. Perché vederci un problema o un refuso?
A parte il discorso su Fai, possiamo chiederci perché l’Associazione si sia svuotata man mano di contenuti, e soprattutto non abbia potuto cogliere i mutamenti occorsi nel sociale e nel politico in modo da fare un anticlericalismo utile, appunto, politicamente (a partire ad esempio dalla trovata un po’ retorica della carta contro il Trattamento religioso obbligatorio, carina ma certo irrilevante politicamente), mentre Uaar legava invece (a mio avviso sbagliando) lo sbattezzo alla propaganda antireligiosa... che in Italia non si riesca a fare di più è notorio.
Dovremmo fare di più: proporre, picchettare, digiunare, contestare, esserci ma, come sempre (e lo sappiamo bene noi femministe, n’est pas?) le urgenze della vita materiale, gli attacchi al lavoro, all’ambiente, alla libertà personale, ci costringono a mantenere la questione della libertà di pensiero, sembra un paradosso, e della sessualità, è incredibile, indietro di un passo rispetto alle lotte giornaliere. Prosit?

Francesca Palazzi Arduini


I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Settimio Pretelli (Rimini) 20,00; Gianandrea Blesio (Botticino – Bs) , 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Franco Pasello, 500,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) in memoria del papà socialista “Vero”, 50,00; a/m Matthias Durchfeld (Reggio Emilia), un gruppo di compagne e compagni di Karlsruhe (Germania),50,00; Mario Perego (Carnate – Mi) 50,00; Paola Somenzi (Curtatone – Mn) 20,00; Giovanna e Antonio Cardella (Palermo) in memoria di Alfonso Failla, 50,00; Lorenzo Carletti (Pietrasanta – Lo) per dossier Gori, 10,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa – Fi) ricordando Gianpaolo Verdecchia, 10,00; Francesco Cannarozzo (Fano – Pu) 38,00; Arnaldo Anaroni (Vernasca – Pc) 20,00; Alfredo Canuti (Roma) 10,00. Totale € 848,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di €100,00) Stefano Stoffella (Rovereto – Tn); Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc); Alberto Ramazzotti (Muggiò – Mb); Giulio Zen (Gualdo Tadino – Pg) 200,00. Totale € 400,00.