Rivista Anarchica Online


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Dibattito tricolore/C’è sempre qualcosa da bruciare

Poche righe in merito alle bandiere che bruciano su A di febbraio.
Sembra che l’argomento sia stato affrontato ed esaurito in tutti i suoi aspetti, le sue varianti, dalla relativa sentenza della Corte Suprema USA secondo cui “Bruciare la bandiera è un gesto odioso che non può essere punito perché la bandiera è un simbolo di una libertà tanto grande da includere anche l’offesa alla libertà”.
Cosa si può aggiungere? Niente. Si può solo parafrasare; non c’è spazio a ma e però.
Se decido di bruciare la bandiera è una decisione mia come quella di scrivere quanto sto scrivendo. E come sono responsabile di queste parole sarò responsabile di quell’atto.
Ma quale responsabilità? Se lo Stato è democratico si tratterà solo di responsabilità morale. Se lo Stato è totalitario o da quello ne è uscito con finte affermazioni liberali e veri strumenti di soggezione, vere leggi anti individualiste, si tratterà di responsabilità penale.
a. 292 c.p. – Vilipendio o danneggiamento alla bandiera o ad altro emblema dello Stato così modificato con legge del 24 febbraio 2006, n. 85: Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione. “Chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito…”. Reati di opinione: un ossimoro. Come scrissi anni fa, “il potere non può non avere contraddizioni” (Onnipotenza del decreto, la difesa penale n. 36, periodico ufficiale dell’Unione delle Camere penali, Latina, Edizioni Bucalo, 1992).

Giuseppe Compagnoni
I vari interventi sul bruciare la bandiera di “A” erano anche l’occasione per introdurre il padre della bandiera italiana, titolare della prima cattedra europea di diritto costituzionale istituita a Ferrara il 2 maggio 1797, autore dello straordinario testo Elementi di diritto costituzionale democratico, stampato a Venezia nel 1797: il sacerdote Giuseppe Compagnoni (1754-1833). Era l’occasione quindi, oltre che citare gli Usa, un po’più avanti di noi nella costruzione della macchina democratica, anche di contribuire alla divulgazione del genio di casa nostra del costituzionalismo moderno. Già, perché Giuseppe Compagnoni si è soliti lasciarlo nel cassetto, non fa comodo a nessuno di quelli che sono al potere; meglio intitolargli una piccola via a Ferrara –una parallela di Argine Ducale, di poche centinaia di metri, che pochissimi ferraresi conoscono- e passare ad altro e ad altri. Dal 1797 gli Elementi hanno atteso il 1985 per essere ripubblicati – e di nuovo dimenticati – a cura dello storico del diritto italiano Italo Mereu e della D.ssa Daniela Barbon della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
Ma perché riscoprire qui su “A” Giuseppe Compagnoni? Perché le sue idee erano – e sono – eretiche. Ed essendo l’idea anarchica aperta per definizione, “A” sembra essere la cassa di risonanza naturale per Giuseppe Compagnoni. Vediamo alcune di queste idee.
“Compagnoni è il primo in Italia che dichiari e sostenga apertamente nel 1792 che gli Ebrei (o meglio la “Nazione Ebrea” come lui chiama tutti gli appartenenti a questo popolo) hanno diritto alla completa emancipazione e alla parità dei diritti” (dall’introduzione di I. Mereu a Elementi di diritto costituzionale democratico, a cura di I. Mereu e Daniela Barbon, Bologna, Analisi, 1985, p. 9).
Il 25 gennaio del 1790 nel discorso del Congresso Cispadano dirà “… Cittadini… tacendo Voi della Religione nell’Atto Costituzionale, che siete per decretare in breve, non mancate né all’officio vostro politico, né al vostro dovere di religiosa pietà. Dunque potete tacere senza temere rimprovero. Ma io dico di più. Dico che dovete tacerne; e che l’officio vostro politico vi obbliga a ciò… Noi abbiamo decretato, e con pubblico Proclama promesso al Popolo una Costituzione democratica: dunque sull’Articolo della Religione noi dobbiamo tacere… a ciò ci obbliga il principio della libertà; così pure ci obbliga quello dell’uguaglianza. Una religione costituzionalmente proclamata diventa una Religione dominante; ed è intrinseca condizione di una Religione dominante l’ottenere diversi essenzialissimi diritti sopra qualunque altra, che pur venga nel medesimo Stato tollerata” (I. Mereu, La Rivoluzione Liberale, Milano, Supplemento a Il Sole 24 Ore n. 331 del 2 dicembre 1989, pp. 20-21).
Meglio qui ricordare l’articolo 1 dello Statuto albertino del 1848: “La Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”. E anche gli aa. 7 e 8 della Costituzione di cento anni dopo. “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani…”; “le confessioni religiose diverse dalla cattolica…”.
L’ideale di Compagnoni in merito alla proprietà è la comunanza dei beni: “che sono questi patrimoni particolari? Non altro che tante armi micidiali contro la salute pubblica” (Elementi, op. cit. p. 15).
Era per l’assoluta parità fra uomini e donne, contro l’istituto del matrimonio, contro la pena di morte. La sua idea di diritto è geniale e, come tale, attualissima: quella di collegare diritto e bisogno da cui la sua definizione di diritto naturale: “Il diritto naturale è una facoltà o potere nascente da qualche bisogno essenziale dell’uomo”.
Ma quello che forse più sconvolge la nostra cultura giuridica, è quanto scrive in una nota degli Elementi: “L’uomo ha in se stesso la ragione di tutto ciò che gli appartiene; e non v’è bisogno d’invocare idee speculative assai rimote da esso per seguirlo nella sua carriera. Io mi sono proposto in questi Elementi di ridurre tutto al rigore di principi semplici, evidentissimi, e provati dal senso comune di tutti gli uomini, e dalla esperienza” (Elementi, op. cit. p. 26).
La cattedra di diritto costituzionale istituita da Compagnoni viene osteggiata dai colleghi professori coi soliti metodi silenziosi, da legulei; gli viene sospeso lo stipendio fino a quando il Direttorio esecutivo della Repubblica “ordina venga pagato al Compagnoni il residuo dovutogli. La cattedra di diritto costituzionale, così, è perfettamente legittimata, e anche l’anno seguente l’insegnamento viene regolarmente impartito. Finché non arriva il gran giorno: il 23 maggio del 1799, allorché gli austriaci entrano in Ferrara e l’Università viene chiusa… gli Elementi di diritto costituzionale sono bruciati in piazza, sotto ‘l’infame albero della libertà’ alla presenza del corpo accademico” (Elementi, op. cit. pag. 12).
C’è sempre qualcuno che brucia qualcosa.

Rinaldo Boggiani
(Rovigo)

Contro il Berlusca (ma anche contro Tonino)

Da socialista libertario (non anarchico, direi, preferisco rifarmi alla tradizione di Fourier, Jaurès, Salvemini, dei Rosselli, di Daniel Guérin, di Calogero, Ragghianti, Calamandrei, in genere di quello che ormai impropriamente viene ancora chiamato”liberalsocialismo”, non certo di quello dell’ex “azionista” e ex presidente Ciampi, da sempre legatissimo a Bankitalia), ritengo che l’attuale modo per voler delegittimare Berlusconi & Co sia completamente sbagliato e folle. Ciò, anche riferendomi ad alcune posizioni di alcuni membri del variegato e ricco movimento anarchico, che sembrano perseguire l’antiberlusconismo quale fine in sé.
A) Berlusconi non è né un genio (tantomeno politico), né “Il Grande Seduttore”, come invece scrive una rivista altrimenti intelligente e colta come “Il Margine”, in questo facendogli un complimento involontario, credendo invece di demonizzarlo. Si tratta semplicemente di un epifenomeno e di una personalità mediamente carismatica (lo schema di Max Weber era riferito ad altri tempi), espressione di altri giochi di potere (non di quelli della grande industria, dice qualcuno. Ammettiamo che sia vero: allora esprimerà altri interessi economici e sociali, quelli dei parvenus, dei “nouveaux riches”, in parte della media borghesia etc.). Sul “dopo Berlusconi”, sulla successione da parte di Fini, Letta, Tremonti, Casini, Cordero di Montezemolo o chi altro(altra) si fantastica troppo: sono giochi di piccola cancelleria politichese;
B) Si tratta di attaccare Berlusconi politicamente e socialmente: riforme (contro-riforme, meglio) economiche a favore delle classi comunque avvantaggiate (scudo fiscale, per es., ma non solo), indebito aiuto a chi vuol creare scuole e università privatizzate o semi-privatizzate, favorendo solo chi occupa già le leve del potere, leggi ad hoc e ad personam sulla giustizia, distruzione di ogni residua laicità (un esempio: oltre alle “leggi bioetiche” dopo il caso Englaro, le polemiche a favore della Chiesa cattolica intesa come gerarchia, l’esclusione dal Parlamento, perché non ripresentato, dell’onorevole Rivolta, forse l’unica presenza laica del PDL), il razzismo talora non strisciante, anche per fare un piacere alla Lega, altro ancora. La sinistra, non solo e non tanto marxista ma anche e soprattutto libertaria, dovrebbe saperlo fare
C) Il dipietrismo è un altro fenomeno penoso, che non merita alcuna simpatia., Non si capiscono gli entusiasmi e i “frissons” quasi erotici che provoca in certa sinistra, soprattutto “estrema”. Lontano non dalla diplomazia ma da ogni comprensione ed uso normale della lingua italiana, decisamente arroccato sul giustizialismo perché populista incancrenito, Tonino pare sia coinvolto in questioni curiose (sicuramente non si capiranno mai bene fatti come il suo impegno politico improvviso, lasciando la magistratura, quando “Mani pulite” era operazione ancora in corso).
Ma soprattutto Di Pietro, ovviamente con altri (De Magistris, di provenienza comunista, altri ancora) vuole creare una sorta di “polis dei trenta tiranni”, di “democrazia giustizialista”, riducendo la tripartizione dei poteri, che per un libertario è poco, ma almeno garantisce, da Montesquieu in poi, un minimo di democrazia e di “libertà controllata
Il problema è che l’IDV e il PD. da sempre più o meno occhieggiante o invece in conflitto (più che altro elettorale) con il partitello che gli fa concorrenza, non offrono alcuna sponda a chi si ponga in una prospettiva alternativa rispetto ai poteri dominanti, dove bisognerà pur dire-ricordare che governi quali quello di D’Alema hanno solo saputo portare la guerra in Europa, contro la Federazione jugoslava (primavera 1999), tra l’altro riferendone in Parlamento solo a faits accomplis... per non dire di altri “disastri” in campo culturale, universitario, scolastico etc., economico (distruzione del welfare, aumento imposto e per nulla graduale dell’età pensionabile) ;
D) La sinistra “radicale” e/o “alternativa” è tuttora ancorata a ricette stataliste: da avversario, anzi nemico del liberismo (basta vederne le conseguenze in America Latina, in Asia, in Africa, dopo il “crollo del muro” e la clamorosa sciocchezza delle “magnifiche sorti e progressive” delle privatizzazioni in tutto il terzo e quarto mondo, per usare espressioni ormai logore), ritengo che proporre semplicemente la statalizzazione – non la socializzazione, si badi! – sia una sciocchezza che rasenta la follia. Il suo appeal è complessivamente minimo, eccezione fatta per personaggi come Niki Vendola, le cui qualità di “leader” (ammesso che un libertario le apprezzi in modo assoluto) sarebbero probabilmente da riportare a una situazione specifica, che chi scrive non conosce per nulla.
E) Sanzionare i comportamenti iniqui e socialmente ingiusti del governo Berlusconi come di tutti quelli che verranno (d’altro colore o simili non importa) è cosa buona e giusta. Spiare e riprendere comportamenti privati contrasta con tutto quello che la sinistra libertaria (ma anche, contraddittoriamente, quella marxista: si ricordi almeno “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato” di Friedrich Engels, testo ispirato alle teorie etnologiche di Bachofen e non solo. I successivi rigurgiti moralisti che s’iniziano con Lenin e in era staliniana portano tout court alla repressione sessuale fanno parte d’altro, di una storia che però pesa ancora sul marxismo, certamente), da sempre fautrice della totale libertà sessuale e di quella femminile a fortiori, ha sempre sostenuto.
Criticare il Berlusca maschilista è doveroso, riprenderne comportamenti privati è sciocco.
Chi propugna, sostiene o almeno accetta il “libero amore” o chi addirittura è seguace della “rivoluzione sessuale”di Reich, Marcuse, degli hippies, non fosse che per opzione generazionale, non si vede come possa poi sanzionare e proporre di punire comportamenti “altri” di chi governa o di chi fa opposizione (i comportamenti “curiosi” sono bipartisan, come dimostrano le “relazioni pericolose”della giunta di sinistra pugliese e forse non solo). Chi poi, da inveterato libertino è diventato moralista, rispecchia un comportamento, forse non solo italiota ma difficilmente universale o universalizzabile, dettato forse da conversione non solo religiosa ma moralistica, forse per timore delle”fiamme dell’inferno” o di non si sa che cosa. Diceva bene Mark Twain: “I grandi moralisti hanno sempre qualcosa da nascondere”, ma chi moralista lo diventa dopo, direi, è ancora più grottesco...
Altra cosa è attaccare il machismo e il bullismo di ritorno: ma qui si tratta del problema culturale legato a una nuova visione del mondo o almeno della vita, a una Lebensanschauung (visione della vita) “altra”, profondamente diversa da quella odierna, dopo che , per dirla con Marx, è tornata “the old shit”, la vecchia merda. Con chi cambiare ciò? Non certo con chi ha “simpatie di ritorno”oltremodo pericolose o almeno sospette.
F) In conclusione, lottare politicamente e socialmente (dove naturalmente rimane la querelle sul”come”, ossia sui mezzi da usare, e qui si aprirebbe un capitolo nuovo). Certo la manifestazione classica è decisamente in crisi, ma limitarsi a battagliare sui blog non è di per sé la soluzione migliore, almeno finora)è necessario, criticando il rituali elettorali, ma senza ostracismi totali, mentre l’antipolitica porta sicuramente acqua solo al primo tirannello di turno, si chiami egli Di Pietro o altrimenti. Dove comunque una lotta intelligente e ben fatta deve sempre conto del fatto che convincere (si fa per dire) l’8% della popolazione sarebbe forse possibile, comunque mentre invece, convincere, sic rebus stantibus, la maggioranza della popolazione non è né sarà possibile, almeno per un altro mezzo secolo, a voler fare previsioni, se non realistiche, almeno in qualche modo prudenti.

Eugen Galasso
(Bolzano)

Botta.../Scuola pubblica, cioè statale

Caro Direttore,
ho acquistato e letto con interesse, come faccio spesso, il numero 351 di A (marzo 2010), che conteneva articoli molto belli e accurati. Vi ho trovato però qualche pagina molto stridente con la coerenza ideale della quale gli anarchici sono sempre stati portatori. Si tratta di quelle dedicate a un tema con ogni evidenza molto pericoloso, che mi sembra stia entrando anche nel discorso comune di alcuni militanti – per questo Le scrivo – (ho visto un cartello del genere anche su una vetrina della Libreria Utopia, a Milano): quello della difesa ad oltranza della scuola pubblica. Certo, di fronte all’azione arrogante del settore privato dell’istruzione in Italia e in particolare in Lombardia, dove si cerca di finanziarla con fondi pubblici, ma che dipende in realtà sempre da concessioni, regolamenti e programmi statali, viene spontaneo contrapporvi qualcosa di apparentemente differente. Attenzione però: scuola pubblica significa nel discorso corrente anche statale. A parte l’incoerenza per gli anarchici di difendere istituzioni statali, non è affatto detto che statale sia pubblico (inteso come al servizio del pubblico, della gente comune). La scuola “pubblica” (statale) è di fatto sempre in mano a classi politiche, gruppi, corporazioni che servono sé stesse (soprattutto in Italia) e non il pubblico. Questi gruppi di egoisti organizzati, che se ne infischiano della qualità dell’istruzione, in quanto non sono sottoposti ad alcuna sanzione per la loro inefficienza e per l’enorme costo che rappresentano per i contribuenti, approfittano dell’equivoco e della confusione di statale con pubblico. Pubblica in realtà può esserlo benissimo una scuola non statale, gradita e fatta sopravvivere da coloro che la frequentano o magari l’hanno addirittura creata e l’apprezzano per il suo funzionamento e che soprattutto competa con altre per le sue caratteristiche. Scuole e Università sono ormai statali e proprietà delle classi politiche e niente affatto pubbliche. Sono piene di persone ficcate lì da gruppi organizzati che se ne servono. Fra l’altro le statistiche stanno dimostrando senza ombra di equivoco che le Università statali stanno tornando di classe (vi si iscrive sempre più solo chi ha possibilità economiche): bel risultato, con una tassazione al 60% di quello che si produce!... Sarebbe questo “l’aiuto ai meritevoli, ma privi di mezzi e la finalità sociale dell’istruzione statale”... Sarebbe questa la scuola pubblica? Del resto già in precedenza alle inefficienze (dilagare della burocrazia, assunzioni facili, incompetenza disastrosa) i figli dei ricchi rimediavano andando a studiare all’estero. E chi non poteva farlo si beccava l’ignoranza e il disastro statale No, credo che gli anarchici dovrebbero difendere piuttosto l’apertura totale alla concorrenza nel mercato scolastico e l’ingresso libero, de-statalizzato, di chiunque voglia creare una scuola. Sarà poi il pubblico, qui nel vero senso della parola – e non nel senso di Stato – a giudicarle. Del resto gli anarchici hanno una straordinaria e lunga tradizione di loro scuole indipendenti fatte chiudere dallo Stato e dalla Chiesa (sia in Italia che all’estero: un esempio per tutti, quello meraviglioso e immortale di Ferrer). Se la creazione di nuove scuole fosse veramente libera, non credo che in Italia prevarrebbero quelle clericali o reazionarie. E comunque, se gli si impedisse di imporre “barriere all’entrata” nella concorrenza, a fronteggiare le loro scuole se ne potrebbero vedere molte altre e totalmente diverse. In questo, mi scusi, ma mi sembrano molto più coerenti con le premesse di fondo dell’anarchismo i cosiddetti free market anarchists, gli anarchici “di libero mercato” che, a quanto mi risulta, hanno ora un movimento anche in Itallia (www.movimentolibertario.it). Sperando di averLe fatto cosa gradita segnalando una grave, a mio avviso, incoerenza, che gli anarchici non possono permettersi, Le auguro buon lavoro, assicurandoLe che continuerò a seguire la Rivista, come ho sempre fatto. Sempre che non si dia a difendere altri e ancor peggiori settori statali.

Antonio Craveri
(Milano)

e risposta.../ Ma è il meno peggio

Bé, sì, la contraddizione c’è ed è grossa. La scuola pubblica in Italia è statale e statale è anche quella privata, nel senso che entrambe sono soggette, per legge, a regolamenti e programmi estremamente rigidi, che lasciano ai singoli istituti e ai docenti quanta minore libertà possibile. In questo senso, la distinzione è spesso sopravalutata e si potrebbe benissimo ipotizzare, come scrive il lettore, “una scuola non statale, gradita e fatta sopravvivere da coloro che la frequentano e magari l’hanno addirittura creata”. Resta il fatto che un progetto del genere, in Italia, oggi suonerebbe parecchio utopistico, richiedendo la mobilitazione di forze e risorse di cui, al momento, non si vede traccia da nessuna parte. La difesa della scuola pubblica, per quel poco che la si porta avanti in Italia, è un tipico esempio di difesa del meno peggio. D’altro canto, ci sono almeno due ordini di considerazioni di cui tener conto: le scuole statali, per puri motivi economici, sono indubbiamente più aperte alla frequenza di studenti di varia estrazione sociale, non predispongono quell’ambiente socialmente omogeneo da “scuola d’élite”, che rappresenta una delle peggiori iatture possibili sul piano pedagogico ed educativo. Saranno forse un po’ smandrappate e incasinate, ma sono più aperte. E al pluralismo sociale, nei casi più fortunati, può persino far riscontro un certo livello di pluralismo culturale, sia sul piano degli studenti sia su quello degli insegnanti. La scuola statale risparmia ai suoi utenti, se non altro, l’uniformità ideologica tipica degli istituti cattolici, che rappresentano la grandissima maggioranza di quelli privati, e permette un certo scambio di esperienze e punti di vista. Di questo valore, credo, non possiamo permetterci, oggi, di fare a meno. Poi, naturalmente, è vero che Comunione e Liberazione c’è dappertutto e che anche tra gli istituti pubblici si stabiliscono delle gerarchie di frequentazione di classe, ma nessuno pretende che la dialettica scuola pubblica/scuola privata esaurisca ogni opzione di lotta possibile.

Carlo Oliva

A proposito di Colin Ward

Cara redazione,
ho letto con particolare attenzione, sullo scorso numero, l’articolo di Francesco Codello su Colin Ward che mi è piaciuto particolarmente.
È un articolo che si legge in fretta e molto volentieri, grazie senz’altro alla sapiente stesura dell’autore che abbraccia insieme storia, pensiero anarchico ma che valorizza sempre con toni pacati e nello stesso tempo suggestivi, il ricordo di una persona che senza dubbio è stata di grande valore.
Anche il box all’interno, firmato da Paolo Finzi, è particolarmente coinvolgente, scritto con la testa e con il cuore e dove traspare una grande sensibilità. Quando del resto le persone lasciano delle tracce magari anche con una vita semplice ma vissuta nell’approfondimento, nello studio e nel rispetto, difficilmente sono dimenticate.

Vi scrivo questo ma non sono il solo ad averlo pensato (e detto).

Angelo Roveda
(Brescia)

Ricordando Toni Ciavarra (e il suo blues)

Antonio (Toni) Ciavarra è morto, improvvisamente, lunedì 15 marzo a Torino. Scrivo senza avere notizie precise. Sono lontano da Torino. Spero di fare bene nel dire, a nome di Franti e di tutti i musicisti, le sorelle e i fratelli di musica, di vita, di ideali che hanno conosciuto Toni, il dolore enorme, davvero incolmabile, che ci colpisce tutti. Vorrei chiedervi nei concerti prossimi, sui giornali, posti di lavoro, di studio, di militanza politica, riunioni di amici, di ricordare Toni, come un abbraccio per Renate e i loro figli. E come un abbraccio per tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, di suonarci insieme, di condividere vita, musica e sogni. Toni ha fondato e suonato, con me, Lalli, Claudio Villiot e Paolo Stella il gruppo Environs, all’indomani dei Franti. Ma proprio con Franti, dopo gli anni liceali in gruppi rock e blues, aveva iniziato il suo percorso dentro musica e vita, frequentando la nostra casa comune.
Toni ha fondato e suonato con Ishi, progetto diverso ma stesso spirito e molti dei compagni provenienti dalle esperienze precedenti. Yuan Ye, un gruppo acustico, minimale, ma grande soul, era stata una idea di Toni. Non ha mai smesso di suonare il suo blues: ogni volta che ha potuto è venuto a sentirci suonare, coi figli piccoli e poi da grandi. Le parole contano zero. I ricordi, l’amore, il dolore che da sordo può e deve diventare Suono, di vita, di futuro, tutto questo, conta tutto. Per sempre, fratello. Blues a healer. Mai soli.

Stefano Giaccone
(Torino)

Che cosa leggere sulla Spagna ’36?

Salute compAgni/e,
ho da poco cominciato a leggere la versione online della vostra rivista... Vi devo fare i complimenti, davvero interessante e, nonostante i lineamenti fortemente utopistici dei nostri desideri, pieno di speranze concrete e documentazioni di anarchismo reale (concedetemi l’aggettivazione)! vorrei sapere una cosa inerente la rivoluzione spagnola (o guerra spagnola) sulla quale mi sto da tempo documentando, volevo sapere se e in quale numero ne avete parlato e se potreste consigliarmi un paio di testi (saggi e/o romanzi) che spieghino l’evento con un “occhio anarchista”...

Filippo Azzini
(Vignate – Mi)

Ecco qualche titolo

Esiste un lavoro classico e ampio, ma alquanto superato: J. Peirats, La CNT nella rivoluzione spagnola, 4 voll., Antistato 1977-79; da tempo è in circolazione un bel libro di H.M. Enzenberger, La breve estate dell’anarchia, Feltrinelli, 1975 e diverse altre edizioni; si dovrebbe trovare da qualche parte il libro di memorie di A. Paz, Spagna 1936. Un anarchico nella rivoluzione, Lacaita 1996; mi permetto di indicare il mio Anarchia e potere nella guerra civile spagnola, Elèuthera 2009. Sta per uscire la ristampa di A. Paz, Durruti nella rivoluzione spagnola, ed. BFS-ZIC-Fiaccola. Su un esempio di collettività si concentra il bel lavoro di R. e E. Simoni, Cretas, La Baronata, 2007.
So che è stato pubblicato un libro dall’editore Roberto Massari, ma ora non ho sotto mano autore e titolo.
Se chi chiede consigli bibliografici leggesse lo spagnolo, l’elenco sarebbe interminabile...
Esiste pure una bibliografia articolata sul numero di Volontà del 1996 dedicato all’anniversario di guerra e rivoluzione.

Claudio Venza

 

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I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Giusy Carnemolla (Marina di Ragusa – Rg) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfosno Failla, 500,00; Alessia e Cristiana Bruni (Castel Bolognese – Ra) 20,00; Attilio A. Aleotti (Pavullo nel Frignano – Mo) 55,00: Enrico Calandri (Roma) 100,00; Davide Turcato (Vancouver – Canada) 50,00; Franco Schirone (Milano) 500,00; Gigi Coretti (Bergamo) 20,00; Giancarlo Nocini (San Giovanni Valdarno – Ar). Totale euro 1.285,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Vladimiro Sarotto Bertola (Novara); Alessia e Cristiana Bruni (Castel Bolognese – Ra); Attilio Destri (Tresana – Ms); Birgitte Schneider (Firenze); Luca Noseda (Rocca Priora – Rm); Renato Girometta (Vicobarone – Pc) ricordando Sergio Costa; Salvatore Piroddi (Arbatax – Ot); Giorgio Barberis (Alessandria). Totale euro 900,00.