Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

Joel Orchestra

Una formula magica: queste sole due parole, Joel Orchestra, potrebbero far scatenare tempeste in testa e nel cuore di chi ama esplorare le zone sonore marginali e seguire le espressioni inconsuete della musica.
L’orchestra è un segreto, una cosa non detta, un alito sonico sfuggente.
Agli inizi degli anni Ottanta, dal magma creativo torinese presero vita molte forme diverse raccolte attorno all’eccitazione e al delirio punk; due furono però le schegge impazzite di quel disegno evolutivo obbligatorio: Franti e, appunto, Joel Orchestra.
Le loro strade si incrociarono spesso. Entrambi erano gruppi “aperti”: oltre a non avere una formazione stabile, significava che erano formati da musicisti impegnati in una ricerca espressiva continua. Musicisti che con ogni probabilità non si definivano tali, quanto piuttosto individui disposti a mettersi in discussione attraverso la pratica di forme sonore libere, impegnati in lunghe maratone fatte di improvvisazioni radicali a costituire nuovi rituali d’amicizia e sodalità, quindi non organizzati per vendere qualcosa a qualcuno.
Franti né l’Orchestra amavano i riflettori, le domande assurde dei giornalisti, preferendo la cantina al palco e la pratica del suono al gioco amaro e inutile delle definizioni e dei paragoni stilistici. Franti amava le barricate e il volume alto del pressappochismo urgente punk, mentre Joel si sentiva in pace nelle zone d’ombra, a meditare al tramonto, a camminare di notte, lontano.
Ad un certo punto nessuno li vide ne li sentì più. Forse erano stati sommersi dalla piena, o più semplicemente era una fase naturale di allontanamento, una stagione della vita che porta a galleggiare altrove.
E se Franti non si vedeva più in giro ma nessuno credeva davvero fosse morto, dal momento che continuava a sparare e scalciare e sputare attraverso nomi sempre nuovi, anche l’Orchestra continuava a vivere come una radice sotterranea, mostrando al sole solo ogni tanto un segno, un germoglio, un fiore (“Samsara e zenzero” del 1991, una delle più straordinarie autoproduzioni italiane).
Un giorno rieccoli: l’Orchestra scalza e con addosso la polvere di tutte le strade del mondo, Franti pestato a sangue a Genova e sporco del fumo dei lacrimogeni, a ritrovarsi con le mani strette e gli occhi umidi in un abbraccio attorno al ricordo di un musicista e compagno comune scomparso.
Da allora Franti non s’è più visto. Dicono sia fuggito all’estero, a Cardiff, a Mostar. Dicono che si sia chiuso in casa e non apra a nessuno. Dicono che beve troppo e che picchia la sua compagna, che ruba le elemosine in chiesa. Lui che si ubriacava solo con una chitarra in mano e accendeva il fuoco dentro alle canzoni, che amava tutte le sue donne come nessun’altra al mondo, lui che in una chiesa non c’era mai voluto entrare, neanche al funerale di Faber.
Anche l’Orchestra s’era rimessa in viaggio, come se nulla fosse successo, forse perché proprio nulla è successo. Ha lasciato però un album di piccole foto, con un nome scritto sopra a matita: “Yggia vilyggia”. Non si sa cosa sia, né si capisce davvero dove queste piccole foto siano state scattate tanto sono sfocate, ma sembra l’India, o le Ande, o giusto qui nel cortile dietro casa.
Ecco dunque il primo cd della Joel Orchestra dopo oltre vent’anni di cammino: una manciata di “canzoni” che canzoni non sono, dove la voce non dà forma ad un testo vero e proprio e si fa strumento assieme ad altri strumenti provenienti da terre lontane.
“Yggia vilyggia” è una testimonianza semplice ed armonica di un viaggio fatto di molti viaggi mai fatti per turismo ma sempre per amore. Sono sette fotografie raccontate in musica, ma voi provate a pensarle come sette cose strane da mangiare ciascuna con un gusto inedito, sette miscugli d’aromi e fragranze nomadi, sette notti in sette posti differenti, sotto stelle sempre diverse.
Sette suggestioni dove all’improvviso si materializzano Derek Bailey e le alchimie vibranti dei vecchi Popol Vuh, suoni senza un nome trovati per strada e la stupefacente sfida cosmica al destino dell’Harmonic Choir. Momenti fermati su di un registratore portatile o nella mente, riproposti in improvvisazioni collettive, danza di spiriti liberi che l’Orchestra accarezza senza derubare né violare, caricandosi di leggerezza nel compiere un altro passo verso l’orizzonte, lontano da qui ancora, lasciandoci in attesa con le orecchie vuote, come una cometa.
Il cd non viene distribuito commercialmente nei negozi, ma si può trovare ai concerti del gruppo (peraltro molto rari) o direttamente qui: il ricavato della diffusione, tolte le sole spese vive, va a finire nei nostri fondi neri (per una copia sottoscrivete 10 euro più un contributo adeguato per le spese postali).
Contatti: Ugo Guizzardi ugoguiz@tiscali.it, Giulio Berutto giulioberutto@tiscali.it.

 

Roberto Bartoli

Il mio sogno di ragazzo volava attorno a quattro grosse corde. Sono rimasto stupito dalla meravigliosa allegria e dal sorriso di Jaco Pastorius, dalla capacità di indignarsi così poco “americana” di Charlie Haden, dalla vertigine intessuta dalle dita di Ares Tavolazzi. In due parole, sognavo di far volare alto il mio vecchio basso elettrico usato, senza davvero mai riuscirci, vuoi per il mio scarso coraggio o forse perché mi sono distratto, o perché all’improvviso la vita mi ha chiamato altrove, e avevo dell’altro da fare.
Ho incontrato qualche tempo fa Roberto Bartoli, complice Fabio Santin e la rivista ApARTe°, e mi si è spalancato un baratro sotto ai piedi quando ho ascoltato lo stesso rumore dei miei sogni di ragazzo che usciva da sotto quelle dita (diplomato in contrabbasso al conservatorio di Pesaro, Roberto ha avuto la fortuna di studiare con Bruno Tommaso, che io quand’ero appunto un ragazzino ho potuto solo ammirare in concerto col Perigeo).
Questo suo cd “Anche se solo un miraggio, ci vuole coraggio” è una sfida: alla mercificazione, innanzitutto, perché è francamente invendibile secondo i canoni discografici moderni. Nessuno vuole ascoltare un contrabbassista anarchico, che offre musiche che sanno mettere in moto la testa, far girare gli ingranaggi, far riflettere, pensare.
Il cd è concettualmente un’opera per contrabbasso solo sporcata, colorata, avvelenata dagli interventi al computer di Giovanni Lanzarini. Un unico canto/racconto in sette movimenti sul coraggio e sull’anarchia, sul desiderio e il sogno: una sfida alla superficialità, ai titoli appiccicati con lo scotch sopra alla musica, alle giustificazioni fornite ai giornalisti per trovare un senso all’immediatezza e alla passione.
Dentro c’è una rilettura da brivido di “Se ti tagliassero a pezzetti” di Fabrizio De André, un’interpretazione altrettanto emozionante di "Hullo bolinas" di Steve Swallow; il resto è tutta musica nata libera, lasciata senza guinzaglio a correre al sole dell’improvvisazione.

Anche questo cd non viene distribuito commercialmente nei negozi, ma si può trovare ai concerti di Roberto o direttamente qui: il ricavato della diffusione, tolte le sole spese vive, va a finire nei nostri fondi neri (per una copia sottoscrivete 10 euro più un contributo adeguato per le spese postali).
Contatti: robart2002@tiscali.net.

Marco Pandin

 

Musica a cui voler bene

Sono stato in giro a suonare e fratelli e sorelle mi hanno omaggiato di libri-cd-riviste (anche un bel po’ di vino ma questo esula dal contesto), quindi per 2 mesi di rubrica ne ho d’avanzo. Al solito: non recensioni, niente critiche musicali, nulla di diverso da un ragionato, sentimentale, convinto sollecito ad indagare percorsi artistici che a me stanno a cuore, per qualità e Closeness, e che spesso hanno visibilità limitata.
“Chomsky” da Torino, lo segnalo prima della sua pubblicazione quindi in forma quasi finale. In questa rubrica seguo il principio temporale: se oggi ricevo X, lo metto dentro alla rubrica prima di Y, ricevuto dopo. Semplice. Lo segnalo perché è sicura ormai la sua pubblicazione, per la Stout di Firenze. Il gruppo, denominato come il noto semiologo-politologo americano, nasce dalle mani e dai cuori di un paio di soliti noti, Enrico Manera e Luca Morena, ovvero Ishi, Lalli e BandaManera. Registrato anche qui dal “solito” Marco Milanesio, questo CD prende subito l’anima, giornata freddissima dicembre cielo pulito sole in totale splendore. È un gioiellino di forza rock, sotterranea e intrigante, Arab Strap, Codeine, Karate se proprio bisogna far nomi, che gioca su ritmi e luci trattenute come lacrime di fronte all’ennesimo abbandono. Al canto si alternano i migliori torinesi: Tommi dei Perturbazione, Gigio dei C.O.V. e Paolo Manera. Uscirà presto, cercatelo.
My laceration, il secondo (credo) CD per Right in Sight. Emo-core punk estremo, ritmi ora lentissimi, ora a randello, qui non c’è pietà né ritrosia. Qui si sanguina: “Rosa appassita, petali sul fango, in me la durezza possibile, l’indifferenza al peggio… lucido fra le macerie del mio dramma-fine”. Al canto il Laido, musicista noto sulla scena Straight Edge (per saperne di più vedi www.munnezza.it) che guida questo viaggio, tra metal core, punk ventre-in-mano ma anche chitarre acustiche, voci femminili, una tromba (courtesy di Anatrofobia, già planati su queste pagine) e samples interessanti, vedi l’intro affidato a The thin red line, meraviglioso film-apologo sull’Assurda Guerra o Assurda Vita, che è poi lo stesso. www.vacationhouserecords.com.
Ultime 2 segnalazioni: la Rivista Inguine, una magazine quadrimestrale di comics e (molto) altro di cui già si è parlato. Continua a stupirmi per la sua eccelsa qualità e per come sia motore di altre iniziative editoriali e mostre in rete e non, come “Kufia” a sostegno della Resistenza Palestinese (vedere il sito www.inguine.net). Usciti finora 5 numeri e vi consiglierei di cercarli tutti, nel campo del fumetto e della grafica antagonista è il meglio che c’è. La storia Bosnian Flat Dog ad esempio: la Yugoslavia come Castello Kafkiano, surreale e favolosa. Seguire Gianluca Costantini e Paper Resistance, due autori sempre presenti. Sul numero 4 un mio racconto (“Giassa”, un ex partigiano, cieco dopo una rapina e ora invalido-fumettaro) è illustrato dal Maestro Maurizio Ribichini. www.coniglioeditore.it.
“Le voci del tempo” collana a cura di Giovanni De Luna e Marco Peroni, docente presso l’Università di Torino il primo e storico della Canzone Italiana il secondo, nonché autore di testi (bellissimi, vedi Edo Cerea, qui recensito mesi fa). Una serie di libri di Storia con incluso CD “guardando alle canzoni come preziosi documenti per interpretare gli scenari politici, i fermenti culturali, le passioni collettive...”. Ognuno dedicato ad un cantautore, con la sua biografia e la sua musica. Io ho quello su Luigi Tenco ma sono usciti Gino Paoli, De André e altri. Il libro, contenente splendide foto, riesce ad appassionare alla storia di Tenco e alla sua musica, attraverso una indagine seria e approfondita dal punto di vista musicologico e storico della società italiana di quegli anni. De Luna e Peroni, titolari della trasmissione Voci di un secolo (Rai 3) e dell’ottimo libro Il nostro concerto (il solo Peroni), uscito per Nuova Italia nel 2001, sono la garanzia di una collana fondamentale per chi vuol studiare la realtà del nostro paese attraverso forse l’unico vero contributo nostrano alla cultura Pop: la canzone d’autore. www.ricordi.it.

Stefano Giaccone