Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

Note d’autore

Verso la metà di dicembre dell’anno scorso, in una bella giornata di sole, si è svolta a Montebelluna (Treviso) una manifestazione musicale di grande interesse, atipica rispetto alle altre peraltro rare occasioni perché caratterizzata, oltre che dallo sventolare esplicito della bandiera arcobaleno della pace, dall’alternarsi sul palco di un grande numero di musicisti partecipanti.
Un giro di musicisti dai nomi piccoli e medi, indipendenti e comunque abituati ad arrangiarsi, avvezzi alle soste veloci agli autogrill e ad espressioni come “rimborso spese”. Gente insomma che non rabbrividisce d’incredulità pronunciando la parola magica “autoproduzione”, e che sta a proprio agio a stringere mani nei piccoli club e nelle piazze a cantare a distanza zero da chi ascolta. Un elenco breve: Paolo Capodacqua, Renzo Zenobi, Marmaja, Goran Kuzminac, Gang, Alberto Cantone, Renato Franchi, Tupamaros e molti altri.
La “cosa” era organizzata dall’associazione trevigiana Liocorno, da tempo occupatissima a promuovere la canzone d’autore nostrana con passione ardente e sincera frammista ad un altrettanto sincero e serio impegno militante.
Ore ed ore di canzoni quindi, a formare un vasto lago di musica e parole buone a cui abbeverarsi: di quella giornata è bella testimonianza il cd collettivo “Note d’autore”, pubblicato recentemente da Liocorno in collaborazione con Storie di Note, raccogliendo da quelle registrazioni un solo contributo per ciascuno dei partecipanti.
Viene fuori così che, proprio come in quel pomeriggio di sole d’inverno abbiamo ascoltato ed applaudito gli uni e gli altri, l’accostamento tra certi vecchi leoni come Gualtiero Bertelli e Goran Kuzminac e autori più nuovi come Alberto Cantone (comunque ben conosciuto lì in zona per la lunga esperienza radiofonica) non è per nulla stridente. I più giovani insomma non hanno fatto la figura dei parenti poveri, anzi sembrava quasi che le pause tra un’esibizione e l’altra assomigliassero a riti di passaggio, cariche com’erano di rispetto (da una parte) ed orgoglio (dall’altra) per tutte le parole e tutte le visioni che passano da una generazione alla successiva sempre agitandosi in testa, mai sopite, mai risolte o messe a tacere.
Il cd offre molto più che una semplice collana di canzoni: è un bel gioco di intrecci (con Paolo Capodacqua che accompagna alla chitarra oltre alla propria anche la voce di Claudio Lolli, e il mandolino di Guido Frezzato dei Marmaja che prende a braccetto i fratelli Severini ed il Townes VanZandt risvegliato da Andrea Parodi) ed una lunga dichiarazione d’amore e riconoscenza (Claudio Lolli a cantare il sogno interrotto di Giancarlo Cesaroni, i Tupamaros a stringere forte le mani di Alex Zanotelli).
Non vi descriverò le canzoni una per una perché sono tutte belle e ben fatte e si ascoltano volentieri, ma mi soffermerò sullo straniamento e la sorpresa provate per Lino Straulino, animale schivo e imprendibile che da anni canta e suona il blues migliore, blues che odora di solitudine di bosco e di montagna, blues che non puoi comprare nei negozi ma che ti salta addosso alla schiena e ti entra in testa, ti morde l’anima e ti graffia il cuore.
Contatti: Associazione Liocorno, tel. 333 8039028, sito web: www.liocorno.net.

Marmaja 3
Rubando la prima frase della prima canzone di questo cd, “la mia anima vola a sud” per fermarsi a pochi chilometri da qui sulla strada di Rovigo, a guardare una foto di Elia Mantovani attaccata sul muro.
Non so raccontare il mio disorientamento, e vi lascio immaginare il mio disagio ogni volta che prendo in mano questo cd: non so ascoltare queste canzoni senza che mi si agiti dentro un groviglio di spine e malessere, senza che mi si annodi per bene la gola e mi esca un sospiro.
Rubando la prima frase della prima canzone di questo cd “la mia anima vola a sud”, fermandosi per stringere le mani di Elia e ricordarlo che suona in mezzo ai suoi compagni. È stato bello conoscerlo. Poche parole sempre, il sorriso aperto che gli contagiava gli occhi.
La prima cosa di lui che mi aveva colpito era il suo modo di prendere tra le mani la chitarra: le portava rispetto, come fosse una specie di chiave per aprire le porte di timidezza dietro le quali si nascondeva. E la chitarra tra le sue mani diventava serpente e lanciafiamme, lui suonava come se spingesse palate di carbone nel fuoco della locomotiva, come se dalle sue mani dipendesse la vita delle canzoni del suo gruppo. Beh, non aveva torto, dopotutto.
Dopo che Elia se n’è andato, i Marmaja non saranno certo più gli stessi che ascoltate in questo cd (cercatevi le informazioni da voi, su www.marmaja.com). Avranno i piedi su strade in salita, e sarà certo difficile tornare a guardarsi dritti negli occhi in sala prove.
Non molleranno: aspettateveli di ritorno, come una cometa. E aspettateveli diversi, perché dentro a questo pezzo di plastica rotondo è intrappolata solo una loro maschera, che hanno già gettato e cambiato.
Del resto, non era mica facile chiuderli nelle gabbie di genere, loro che hanno sputato sguaiatamente sul piatto del folk da cui avevano mangiato fino alla cena precedente.

Loro che si sono innamorati perdutamente del rock da strada e poi si sono lasciati sedurre dall’eco di una sirena puttana di nome Sudamerica, che gli mordeva le orecchie suggerendo passione e languore e voglia di fuga.
Loro che sono migrati in cerca di fortuna su una barca in rovina, a beccare mangime in mano ai cantautori divenuti statue, per poi mordere inevitabilmente quelle stesse mani e riprendere il volo, ingrati, ridendo.
Ridendo forte, anche in faccia alla morte.

Una canzone senza finale
Il mio vecchio caro amico e compagno Stefano Giaccone non finirà mai di stupirmi, nel bene e nel male. C’eravamo lasciati che lui s’era un po’ incazzato con me per via della mia incapacità a scavalcare gli scrupoli e trovargli un po’ di spazio qui dentro per “Tutto quello che vediamo è qualcos’altro”, il suo cd dell’anno scorso.
Non una vera e propria incazzatura, a voler essere onesti, piuttosto uno di quei momenti di reciproco mandarsi affanculo che movimentano l’esistenza e danno un buon sapore agrodolce alla vita.
Restando in tema d’onestà, quel cd non mi aveva convinto. Lo trovavo (e tuttora lo considero tale) un’altra di quelle mezze occasioni sprecate che Stefano ci aveva propinato dai tempi del suo notevole “Le stesse cose ritornano”: le vecchie canzoni diluite in arrangiamenti che alle mie orecchie suonano poco convinti, quelle nuove un po’ troppo artificiali, cantate e raccontate con una faccia da prendere a sberle, tipo avete presente quel sorriso da Gatto del Cheshire che Alessio Lega si appiccica addosso quando ha le visioni mistiche di Léo Ferré che gli accarezza il testone e gli dice bravo...
Viene fuori adesso questo cd “Una canzone senza finale” (Santeria, distr. Audioglobe), sforzo congiunto di Stefano e di Mario Congiu (autore e polistrumentista torinese di grande talento), e al mio caro e vecchio amico e compagno Stefano mi verrebbe da mollare una bella legnata in testa per avermi fatto aspettare così a lungo. Perché questo è il cd che mi sono sempre aspettato da lui e che per mille motivi non era mai uscito.

Proprio come il breve “Ospiti immortali sono arrivati” (e come i due suoi recenti cd-rom duplicati casalinghi) anche questo è essenzialmente un cd di canzoni scritte da altri.
Questo per Stefano è un sogno ricorrente sin dai tempi di Franti, che in mezzo ai voli alti delle proprie composizioni infilavano volentieri, per un misto di affetto e rispetto e senso di testimonianza, cover di Robert Johnson, Bob Dylan, di Lou Reed e dei Banshees (li ho sentiti con le mie orecchie, i vecchi ruggenti Franti in cantina, che infondevano vita nuova a “Spellbound”…) e di chissà chi altri.
La scelta degli autori è orientata stavolta verso nomi grossi tipo Fossati, De Gregori e De André, misti a nomi più piccoli e più nuovi come quelli di Lalli, Perturbazione, Truzzi Bros., tutte canzoni che Stefano strappa in pezzi, sgretola, rovina e mastica e sputa senza mostrare alcun rispetto né pietà: basti per esempio la “Canzone della triste rinuncia” che qui dentro non è assolutamente più riconducibile a Guccini ma suona addirittura come un outtake del “Giardino delle quindici pietre”, tanto Stefano l’ha saputa trasformare in un qualche cosa di profondamente, intimamente, radicalmente suo.
Tutte frantumate, le canzoni, ma non violate. Ci sono dentro tra le tante quella “Le storie di ieri” che risale alla collaborazione tra De Gregori e De André e che Stefano suona dal vivo da anni rubandone un goccio alla volta, una “Vedrai vedrai” di Luigi Tenco spettrale ed evocativa (del resto il contributo di Stefano e Mario era una delle poche cose ascoltabili dell’orrido tribute album “Come fiori in mare”), c’è “La mia faccia” di Lalli presa di peso dal sottovalutato album degli Ishi, c’è “Il monumento” di Jannacci in una versione lunare che rende tangibile lo spaesamento che si prova nell’arrivare in una stazione sconosciuta, c’è una “Lindbergh” di Fossati che non vola, ancorata al suolo da immaginari cavi d’acciaio.
Il titolo del cd è stato ritagliato da un verso di “Ti ho visto in piazza” dei poeti mezzopunk fricchettoni scalcagnati torinesi Truzzi Broders, una canzone nobilitata dall’inclusione nella colonna sonora del film “I nostri anni” di Daniele Gaglianone (passato a Cannes un paio d’anni orsono), e dalla bella riscoperta post-Genova G8 2001 ad opera dei Frontiera.
Ideologicamente non riconducibile ad una pura e semplice manciata di reinterpretazioni, e per questo difficile da raccontare in due parole, questo cd di Stefano e Mario è un catalogo di mostri di stupefacente bellezza e tristezza sconfinata, di quella tristezza annoiata che ti mettono addosso certe vecchie canzoni o la malinconia umida dell’autunno, quei pomeriggi passati da soli in casa col telecomando in mano a saltare tra un vecchio film e una partita, indecisi tra una bottiglia di whiskey e una di birra.
Un grande spaventoso Frankenstein messo assieme con pezzi di cantautori monumentali da museo e punk sporco da strada e centro sociale senz’acqua, con fotografie di gente già morta e graffiti a spray di gente giovane che ha tutta la vita davanti, cose vecchie strasentite e magari dimenticate e roba nuovissima mai tirata fuori dal cellophan.
Un lavoro che gronda sangue, malessere e delirio, testimonianza d’un amore sconfinato tutto consumato nello spazio breve tra testa e cuore, righe di matita scritte nervosamente su un blocnotes per fermare un giro di fumo nella sua strada dai polmoni al soffitto, per trasformare un incubo antico di tre minuti in una canzone che, stavolta no, non morirà mai più.

Marco Pandin

L’estate scorsa se ne sono andati due Compagni Musicisti, Elia dei Marmaja e Marco dei Tupamaros, entrambi cari amici nostri com’erano amici cari tra loro. Elia Mantovani è scomparso improvvisamente, portato via da quella stessa sfortuna che per prendersi Marco Sghedoni ci ha messo un anno.
Tutt’e due erano schivi, posizionati nella seconda fila del palco ai concerti, ma non meno che fondamentali nella chimica e nella storia dei rispettivi gruppi.
Elia e Marco lasciano posti vuoti che nessuno saprà riempire.
A loro va il ricordo più caro e commosso, e il ringraziamento più sincero per la generosità e l’impegno che hanno sempre saputo dimostrare.
Un abbraccio forte ai Marma e ai Tupa: perché non mollino, perché la determinazione e i sogni siano più forti delle lacrime.

Musica a cui voler bene

Iniziamo con Robotradio Records, nuova iniziativa di Stefano Paternoster, nome noto dell’editoria underground musicale italiana. La prima uscita si materializza come un CD ma è molto di più: infatti il progetto di Robotradio è quello di mettere a confronto 2 gruppi per ogni CD, 2 videoclip di animazione legati ai brani di cui sopra e il design del tutto affidato a un fumettista-grafico. Devo dire che tutto qui è di alto livello: la musica che vede Red Worms’ Farm (da Padova) e The Paper Chase (Dallas, USA). Punk e indie rock molto storto, per chi ama Fugazi e VanPelt/Lapse (tra i migliori continuatori dello spirito punk alternativo americano, con I Karate) per I primi o la furia cattiva dei vecchi Birthday Party, per I secondi. Red Worms’ Farm e The Paper Chase sono sulla scena da anni ormai e hanno prodotto vari CD, per Southern Rec e Fooltribe, ancora 2 etichette molto apprezzate nel campo indipendente. I video sono stati affidati a Nicola Fontana (Fountainhead), la grafica di copertina e booklet a Alessandro Baronciani. Come detto livello creativo e risultato complessivo veramente alto e, riportando le parole dal volantino introduttivo “Robotradio è un gioco. Come molti giochi nasce dal desiderio di fare qualcosa di divertente con le cose più belle e curiose che si trovano per casa”, vi invito a condividere questo spirito scrivendo a Robotradio records c.p. 62 38015 Lavis (TN) oppure stefano@robotradiorecords.com.
Di Jonson Family ho parlato spesso e ci ritorno stavolta per citare la loro ultima uscita (forse, visto la velocità con la quale tirano fuori nuovi oggetti da ascolto). Cove è un gruppo prevalentemente strumentale, molto forte, intenso. Questo minicd (Hi-watt) è la conferma di questa direzione, quindi siamo nel regno di Slint, Codeine e Sonic Youth. Hanno già varie uscite alle spalle con la loro etichetta, questa si aggiunge al catalogo di Jonson Family, sempre più cornerstone dell’indipendenza inglese di questi ultimi anni. Le canzoni dei Cove hanno dei bei titoli tipo “Thelonious Monk vs Melodious Funk”. Fate fare un giro al topo su www.jonsonfamily.com. Alla prossima.

Stefano Giaccone

Musica per A/Rivista Anarchica

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