ai lettori
AntimilitArismo
A Livorno. Mentre chiudiamo questo numero di “A”, la situazione
in Iraq va precipitando. Anche la “nostra” missione di pace a Nassiria
appare sempre meno tale. La logica della guerra e del terrore prevale, alimentata
dagli Stati, dai fanatismi religiosi, dalle organizzazioni terroristiche.
La Federazione Anarchica Italiana promuove una manifestazione nazionale antimilitarista
anarchica sabato 29 maggio, a Livorno, con partenza da piazza Magenta alle ore
16. Il corteo terminerà nella stessa piazza alle ore 18.30: si svolgerà
una festa antimilitarista con musica, teatro, interventi di controinformazione
sulle basi militari e sulla guerra in corso. Sono in preparazione un manifesto
nazionale e un volantone di quattro pagine. Per adesioni e richieste di manifesti
e di volantoni, contattare cdc@federazioneanarchica.org.
De André. Da venerdì 7 maggio entra in distribuzione un nostro
nuovo prodotto musicale: mille papaveri rossi. Si tratta di una nuova edizione,
identica nella parte musicale, del doppio Cd curato e realizzato da Marco Pandin
in sostegno della nostra rivista, uscito la scorsa estate: le 3.000 copie di
quella prima edizione sono andate esaurite, anche se per le sue caratteristiche
(il bollino Siae “omaggio”, la non-fatturabilità, ecc.) era
praticamente “fuori mercato”.
mille papaveri rossi diventa ora parte dell’etichetta Eda, gestita dalla
redazione di “A”, con il numero di catalogo 004. I primi tre prodotti
sono stati, infatti, il Cd ed avevamo gli occhi troppo belli (Eda 001), la videocassetta
Vhs S’era tutti sovversivi (dedicata a Franco Serantini e co-prodotta
con la BFS) (Eda 002) e il Dvd ma la divisa di un altro colore (Eda 003).
Il nuovo mille papaveri rossi si presenta con una confezione analoga a quelle
del Cd e del Dvd, con un libretto non più di 16, ma di 71 pagine. Dentro
trovate, come negli altri nostri prodotti legati a Fabrizio, non solo scritti
su di lui e le sue canzoni, sulla sua influenza in campo musicale e (in questo
caso) su tutti coloro che eseguono le cover, ma anche contributi specifici sulla
storia (le lotte contro l’imposizione del saluto romano ai confinati,
di Alfonso Failla) e sul pensiero (anarchismo, socialismo e utopia, di Luce
Fabbri). Prosegue e si approfondisce, così, l’analisi del pensiero
di Fabrizio e le presentazione di pagine di teoria e di storia dell’anarchismo
che hanno molto a che fare, secondo noi, con Fabrizio.
Differentemente dalla prima edizione, ora mille papaveri rossi ha un bollino
Siae “vendita” (e non più “omaggio”), ha il codice
a barre, è fatturabile: per queste ragioni è acquistabile, oltre
che direttamente da noi (anche via Internet, vedi la home-page del nostro sito
arivista.org) e presso la nostra “tradizionale” rete di compagni,
amici, gruppi che si sono resi disponibili a darci una mano, anche presso numerose
librerie, presso l’intera rete dei punti-vendita Feltrinelli e Ricordi
e in centinaia di negozi di dischi/cd/musica (tramite il distributore Wide di
Pisa). L’inizio della commercializzazione di mille papaveri rossi è
fissata, come dicevamo, per venerdì 7 maggio.
A pag. 46 pubblichiamo il testo redazionale che apre il libretto di 71 pagine
annesso al doppio Cd.
Mioli. Il nostro collaboratore Gianpiero Landi ci segnala che il no che compare nella foto (pubblicata su “A” 296, pag. 56) insieme con Emilio Canzi, scattata mentre entrambi erano miliziani in Spagna, è Giuseppe Mioli. Una scheda biografica di Mioli, curata da Rossella Ropa, apparirà nel secondo tomo (M-Z) del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, di prossima pubblicazione per i tipi della BFS di Pisa.
elezioni
Un bambino,
un voto
di Francesco Codello
La crisi della rappresentanza politica è un dato di fatto incontrovertibile.
Dopo Austria e Germania, arriva anche in Italia la proposta di allargare il
suffragio universale anche ai minori.
A rilanciare questa idea sono le ACLI attraverso un documento redatto dal presidente
Luigi Bobba e il prorettore della Cattolica di Milano, Luigi Campiglio.
“Dieci milioni di bambini senza rappresentanza, ci vuole una politica
di più ampio respiro” (Corriere della Sera del 30 marzo 2004),
sostengono come premessa gli estensori di questo documento. In pratica la proposta
si concretizza nell’idea di affidare alle madri, per procura, il compito
di votare e di interpretare quindi le idee e le opinioni dei minori rispetto
alle scelte politiche ed amministrative.
Se il progetto dovesse andare in porto in Italia avremo circa dieci milioni
di elettori in più. L’idea è molto semplice: dar corso ad
una riforma costituzionale che estenda il concetto di “suffragio universale”
a tutti gli italiani e delegare le madri ad esprimere le preferenze dei propri
figli fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età.
In Germania e Austria le proposte a questo riguardo hanno accolto un’adesione
trasversale agli schieramenti politici e lo stesso succederà, è
facile prevederlo, anche qui da noi. Addirittura esiste una proposta in tal
senso anche rispetto alla costituzione europea e quindi di estensione del voto
ai minori in tutti i paesi dell’Unione.
Le ragioni di tutto ciò stanno nella convinzione, espressa dai proponenti,
che i giovani siano davvero il nostro futuro e che quindi solo queste regole
consentirebbero una politica di più ampio respiro e costituirebbero un
metodo efficace per dare voce ai più piccoli.
Naturalmente occorre essere convinti, come di fatto si esprimono chiaramente
Luigi Bobba e Luigi Campiglio, che per i cittadini il voto sia lo strumento
centrale attraverso il quale ogni cittadino esprime realmente la sua sovranità,
comunica la sua approvazione o disapprovazione rispetto a ciò che un
governo, un partito, un singolo politico, promettono di fare.
Esercitare
il potere
Per i partiti politici invece, sostengono i due proponenti, acquisire il voto
favorevole dei cittadini, è l’obiettivo principale che ne legittima
la ragion d’essere e la virtù fondamentale che consente loro di
prendere il potere, esercitarlo e mantenerlo (il più a lungo possibile,
aggiungo).
L’idea di fondo è che la democrazia rappresentativa sia quella
che in modo più completo ed esauriente rappresenti veramente la volontà
popolare. Inoltre, sempre secondo questa proposta, va ricordato che gli interessi
economici degli elettori “si materializzano, fra l’altro, nella
percentuale del Pil che viene prelevata e distribuita con criteri politici anziché
di mercato… La sua distribuzione per categorie di spesa rispecchia in
gran parte gli interessi economici di quei gruppi sociali che possono meglio
garantire la maggioranza elettorale e quindi la conquista del potere politico”.
Tutto questo sarebbe una “virtù e non un vizio delle moderne democrazie”
anche se gli interessi degli elettori organizzati (le lobby) contano economicamente
e quindi anche politicamente. Ma il pregio di questa innovazione starebbe proprio
nel fatto di costituire di fatto una lobby di lungimiranza, una scommessa sul
futuro, un’ipoteca sul domani.
Il principio di eguaglianza democratica (uguali di fronte alla legge del governo
della cosa pubblica), quello insomma tutto giacobino di “una testa, un
voto”, che qui si traduce nel piano economico “un interesse personale,
un voto”, è inapplicato nel caso dei minori.
Ciò è particolarmente grave perché vi è, sempre
secondo i proponenti, una trascuratezza sociale evidente di bambini e ragazzi
che si accompagna ad una rapida riduzione della natalità.
Quindi è necessario un riequilibrio del Welfare a favore della più
giovani generazioni.
Con questa modifica costituzionale insomma “si realizza il raro risultato
di far coincidere gli interessi del rappresentante con quelli del rappresentato,
creando una competizione in cui il politico che interpreti meglio gli interessi
economici dei minori è anche quello che ha maggiori probabilità
di vincere le elezioni”.
Questa proposta si accompagna ad una precedente legge che ha istituito in circa
cinquecento città e paesi italiani i Consigli comunali dei ragazzi, eletti
secondo opposti schieramenti, ma che hanno potere consultivo.
Ecco delineato il quadro di una vera e propria educazione alla democrazia delegata.
Dopo l’introduzione nelle scuole, da parte di tutti i progetti di riforma
degli ultimi anni, di questo insegnamento, anche l’intero sistema elettorale
e ordinamentale sarebbe così completato.
A parte la legittimità, non giuridica, ma sostanziale di una tale proposta
(come può una madre votare al posto del proprio figlio adolescente rispettandone
i desideri?), ciò che mi preme mettere in rilievo è la sostanza
di tale progetto.
La crisi della rappresentanza politica è un dato di fatto, incontrovertibile,
che si manifesta non solo nell’ampliarsi dell’astensionismo elettorale,
ma anche purtroppo nell’accettazione passiva di un sistema democratico
che, attraverso la delega sempre più lontana, della rappresentanza politica,
ha permesso l’affermarsi violento e stabile dell’oligarchia espressasi
sia a livello economico che politico.
Democrazia
mass-mediatica
La nostra non è più neppure una democrazia della rappresentanza,
ma piuttosto una democrazia che si esprime nell’esercizio legittimo e
non di apparati di potere e di lobby internazionali.
È chiaro che proprio gli interessi, anche economici, che ruotano attorno
ad un mondo giovanile sempre più interlocutore di grandi businnes e di
massicce campagne pubblicitarie, trovano in questo quadro una loro nuova espressione
e interpretazione.
In una democrazia post-moderna e mass-mediatica, come la nostra, prevale la
logica della formazione del consenso rispetto ad una originaria attenzione a
garantire il dissenso. Per formare un “bravo” cittadino, un uomo
e una donna ben inseriti, in questo sistema, il passaggio attraverso una codificazione
e una istituzionalizzazione della rappresentanza politica e governativa, è
essenziale.
Dopo la famiglia, dopo la scuola, tocca ora all’intero sistema adeguarsi
alla formazione del consenso e anzi, ancor più strabiliante, ipotecarne
addirittura il futuro per delega.
La democrazia per legge, quella che si vuole anche esportare in tutto il mondo,
in realtà non consente l’espressione di una vera e libera volontà
individuale, ma solamente un’accettazione a-critica e fondamentalista,
del principio della delega come unica forma di manifestazione del proprio pensiero
e della propria agibilità.
Altre sono le forme, altri i contenuti, di una possibile partecipazione diretta
di ogni essere umano alla determinazione delle scelte di una comunità.
Si cominci allora a rendere scuole e famiglie veri luoghi di espressione della
propria autonomia, dell’uguaglianza e della responsabilità. Gli
esempi non mancano, proviamo ad estenderli. Ma soprattutto sveliamo con forza
e convinzione la perversa logica di potere che nascondono proposte come questa
che ammantandosi di una falsa verità innovatrice, nascondono in realtà
tecniche più sofisticate e attuali, più spendibili sul piano dell’immagine,
del potere.
Abbiamo sicuramente bisogno di dare voce vera e concreta ai bambini, ai loro
bisogni, alle loro aspettative, ma abbiamo il dovere il aiutarli a realizzare
i loro sogni e non ad ingannarli con queste idee che non mutano minimamente
i rapporti di potere tra gli esseri umani.
Francesco Codello
“mitologia”
Difesa di
Achille
di Carlo Oliva
Arrogante, presuntuoso, narcisista… ma non proveniva da Arcore!
Apprendo da un articolo di Eva Cantarella sul «Corriere della Sera»
del 23 marzo che a maggio potremo ammirare, in tutte le sale e multisale superstiti,
un colossal cinematografico di raro impegno produttivo, liberamente ispirato
al racconto omerico della saga troiana (in inglese si intitola, semplicemente,
Troy e chissà come se la caveranno i distributori italiani) e interpretato
nientemeno che da Brad Pitt nella parte di Achille figlio Peleo. Non me ne aspetto
– in realtà – niente di buono, ma il fatto in sé mi
sembra abbastanza inevitabile. Il cinema, per quanti capolavori abbia creato
a partire da storie private, si lascia incantare periodicamente dai grandi miti
della cultura occidentale e se Mel Gibson ha avuto l’audacia di seguire
le orme di Cecil B. De Mille trascrivendo sul grande schermo la vita di Cristo,
non vedo perché qualche suo collega non debba cimentarsi, a sua volta,
con l’Iliade e dintorni. Il compito, oltretutto, è più facile,
perché di modelli classici con cui misurarsi non ce ne sono. Se ben ricordo,
a non contare un peplum di culto come L’ira di Achille di Marino Girolami,
del ‘62, in cui i panni dell’eroe omerico erano cuciti sulle robuste
membra di Gordon Mitchell, l’unico altro tentativo di un certo spessore
ricordato dalle storie del cinema è l’Elena di Troia di Robert
Wise (1955), che, nonostante la regale presenza di Rossana Podestà e
la prima comparsa su celluloide di una giovanissima Brigitte Bardot, non è
esattamente un capolavoro.
Né bello
né simpatico
Non è questo, comunque, il problema e non intendo rubare all’amico
Felice Accame le sue competenze di critico. Neanche la Cantarella, d’altronde,
si occupa di storia o dottrina del cinema. Lei, vi sembrerà strano, ha
scritto quell’articolo perché l’idea di Brad Pitt nella parte
di Achille proprio non le va giù. I capelli biondi, lo ammette, ci sono,
ma qui si ferma qualsiasi somiglianza tra i due. Achille, per la nota studiosa,
non era né bello né simpatico (e Brad Pitt, evidentemente, sì).
Si era bruciate le labbra quando quella sconsiderata di sua madre aveva cercato
di renderlo immortale attraverso il fuoco e come si fa a definire bello chi
non è in grado di sorridere? Lei (la Cantarella, non Teti), quando a
scuola leggeva l’Iliade “stava” sempre con Ettore, come –
d’altronde – la maggior parte dei suoi compagni, pochissimi dei
quali tifavano per il figlio di Peleo. Il quale, non si può negarlo,
aveva un pessimo carattere: “a causa della sua proverbiale ira funesta”
leggo “i greci muoiono a migliaia sotto le mura di Troia” e tutto
per una “reazione a un’offesa dell’onore”, una forma
di “odio coltivato in sprezzante isolamento con totale insensibilità
alle esigenze altrui.” L’articolo ammette che nessuno degli eroi
greci può definirsi altruista, che erano in pochi, tra loro, a conoscere
la mitezza. “Ma Achille supera tutti in arroganza, in presunzione, nel
culto narcisistico della propria immagine. Di quel che accade ai suoi commilitoni,
di quel che accadrà alla Grecia ben poco gli importa.” E via dicendo.
Io, naturalmente, non so quale scuola abbia frequentato l’autrice. Visto
che siamo, più o meno, coetanei, immagino che non sarà stata molto
diversa dalla mia. E io, che allora leggevo l’Iliade nella traduzione
del Monti, che, per un ragazzo delle medie è un tantino più difficile
da decifrare dell’originale greco, ero troppo occupato a cercare di capire
cosa diavolo volesse dire il sacerdote Crise quando ricordava ad Apollo di averne
unqua adornato con serti il leggiadro delubro e di avergli arso i fianchi opimi
di tauri e giovenchi per potermi permettere il lusso di schierarmi con questo
o quell’eroe. La Cantarella aveva, evidentemente, il vantaggio di essere
figlia di un grande grecista (di cui peraltro, in seguito, avrei avuto anch’io
l’onore di essere allievo) e aveva già capito, da piccola, quello
che noi meno fortunati avremmo scoperto un decennio dopo sulle pagine dello
Snell e dello Jäger, che l’areté, la «virtù»
dell’eroe greco arcaico, ha a che fare, lo insegna l’etimologia,
solo con l’aristéuein, il «primeggiare», e che Achille
vuole solo ed esclusivamente essere il primo in qualsiasi campo, dall’ammazzare
i nemici al piangere gli amici, e del destino di chi, come Agamennone e i suoi,
gli nega la relativa investitura non potrebbe importargliene di meno. Che certo
da nostro punto di vista non è un tratto simpatico e mal si concilia
con i nostri odierni ideali di collaborazione in vista di un risultato comune.
Che le virtù “antagonistiche” degli antichi non c’entrino
una beata fava con quelle «collaborative» dei moderni, e che nel
sistema di valori dell’etica greca il concetto di responsabilità
sia piuttosto latitante, lo ha d’altronde magistralmente illustrato Arthur
W. H. Adkins in un grande saggio del 1959 ed è assunto comune che la
sua analisi resti insuperata e – forse – insuperabile.
Il più cialtrone
di tutti
Ma certo, guardandosi intorno oggi, si ha qualche motivo di dubitarne. Le virtù
collaborative saranno tipiche di noi moderni, ma in questi tempi non godono
certo di una particolare popolarità. Di villanzoni prepotenti che pensano
soltanto a se stessi e al proprio primeggiare, considerando un patetico residuo
del passato qualsiasi impegno di solidarietà, ne conosciamo, per nostra
disdetta, fin troppi. Alcuni, si sa, presiedono ai nostri destini, a partire
da colui che su tutti primeggia in ricchezza e potere mediatico, che in quanto
ad arroganza, presunzione e culto narcisistico della propria immagine non è
secondo a nessuno, e che, se a qualcuno può sembrare, per avventura,
un perfetto cialtrone, del suo essere il più cialtrone di tutti è
riuscito a fare una strategia consapevole. Achille, poveretto, non poteva farsi
fare il lifting alle labbra bruciate e, comunque, affrontava la sua parte di
pericoli, nel senso che sapeva benissimo che subito dopo quello di Ettore sarebbe
venuto il turno suo. Ma lui non si lasciava guidare, nella norma del suo agire,
da considerazioni di utile personale e questo – mi sembra – ha una
certa importanza. Perché il solidarismo, figuriamoci, è fuori
moda, preoccuparsi troppo degli altri è – dicono – contrario
alle leggi di un sano sviluppo economico, ma a furia di prendere a calci nei
denti quelli che si considerano propri inferiori si finisce per ricadere in
quella barbarie dalla quale, ai tempi di Omero, l’umanità stava
appena emergendo e che non a caso un altro pensatore di origine greca metteva
in contrapposizione, qualche decennio fa, con il socialismo.
Achille, tutto sommato, non faceva gran danno. Si limitava a far fuori, in leale
tenzone, un certo numero di parigrado non meno trucidi di lui. Non gli sarebbe
mai passata per l’anticamera del cervello l’idea di approfittare
dei più deboli, di arricchirsi a loro spese e di pretendere, per di più,
la loro ammirazione. Il continuo sgomitare di quanti oggi agiscono in base al
presupposto inespresso che per giungere in vetta e restarvi non c’è
altra via che calpestare chiunque faccia da ostacolo, produce, come sappiamo,
molte più vittime.
Carlo Oliva
sindacalismo
Un lavoro duro
ed oscuro
di Cosimo Scarinzi
La resistibile ascesa della burocrazia nel sindacalismo alternativo.
Leggendo, molti anni addietro, i taccuini di Monatte (1) mi ha colpito un appunto
sulla polemica condotta dai compagni d’orientamento antisindacale che
accusavano i sindacalisti anarchici di essere “topi che avevano trovato
il formaggio nel quale acquattarsi”. Con una punta di, comprensibile,
amarezza Monatte notava che all’età in cui egli scriveva suo padre
aveva tutti i capelli rossi mentre lui li aveva grigi anche per la durezza di
un impegno che certo non gli garantiva privilegi di alcuna specie.
Nel caso di Pierre Monatte che aveva fatto del “refus de parvenir”
la sua parola d’ordine come nel caso di molti altri militanti sindacali
di orientamento libertario la polemica astiosa ed unilaterale che alcuni settori
del movimento conducevano contro i sindacalisti era palesemente sbagliata.
Eppure, se si guarda alla stesa vicenda di Monatte non dal punto di vista della
moralità e del rigore ma da quello della deriva politica, il suo impegno
sindacale da un certo momento in poi tende a divenire totalizzante e lo allontana
dalle posizioni anarchiche dalle quali ha preso le mosse. Il sindacalismo operaio
diviene per lui, e non solo per lui, non tanto uno strumento di emancipazione
quanto un orizzonte non trascendibile. Il sindacato, del quale pure denuncia
l’integrazione, a volte la corruzione, la mancanza di radicalità,
la subordinazione ai partiti parlamentari gli sembra l’unico terreno efficace
di azione sia nel senso della costruzione del sindacato stesso che in quello
della riduzione della propria azione politica alla battaglia interna all’apparato
ed al corpo dei militanti sindacali.
Sempre nei suoi appunti, appare evidente il rimpianto per la ricchezza dell’elaborazione
dei gruppi anarchici di orientamento classista ed operaista nei quali si è
formato e la percezione del livello non eccelso della formazione generale dei
militanti sindacali.
Difesa
immediata
Una sensazione simile a quella che mi dà la lettura di vecchie carte
di questo genere la provo sovente ragionando sull’impegno degli attuali
militanti sindacali libertari impegnati in un lavoro quotidiano sovente non
facile e in un tentativo problematico di far vivere una dimensione libertaria
all’interno di strutture sindacali concentrate in un’attività
di difesa immediata dei diritti dei lavoratori e nel garantire la propria sopravvivenza
in un situazione certamente non favorevole.
In una recente lettera uno dei compagni che più seriamente si spendono
sul terreno sindacale e del quale, per evidenti motivi di discrezione non posso
fare il nome, definiva se stesso e gli altri compagni di orientamento sindacalista
come “i manovali dell’anarchismo”. Un’immagine forse
eccessiva ma che rende bene una percezione delle questioni che si affrontano.
Vi si intrecciano l’orgoglio di chi svolge un lavoro quotidiano duro ed
oscuro che ritiene essenziale come verifica della verità pratica di una
tensione rivoluzionaria che rischia di diventare astratto discorso e la percezione
dei suoi limiti e delle sue contraddizioni.
Credo, di conseguenza, che valga la pena di ragionare su una questione che,
dal punto di vista libertario, è, con ogni evidenza, centrale. Mi riferisco
al fatto che la tendenza alla burocratizzazione del sindacalismo, anche di quello
che si vuole “di base”, “alternativo”, “indipendente”
è decisamente forte. La vera domanda che è bene porsi è
se sia vero che, al di fuori di una fase storica rivoluzionaria, ogni organizzazione
stabile delle classi subalterne non possa che oscillare fra l’integrazione
e l’irrilevanza.
Non ho usato a caso il termine stabile. È, infatti, perfettamente evidente
che degli organismi di lotta che si sviluppano su questioni specifiche possono
mantenere per qualche tempo una forma organizzativa non burocratica ma il vero
problema è la tenuta nel tempo di organizzazioni costituite non da militanti
rivoluzionari ma da lavoratori, magari combattivi, ma non disponibili a dedicare
il loro tempo all’impegno sindacale e politico e più che disponibili
a delegare le funzioni organizzative ad una minoranza di funzionari e militanti.
L’esperienza italiana dell’ultimo ventennio è, da questo
punto di vista, a mio avviso interessante. Il sindacalismo alternativo, infatti,
ha raggiunto dimensioni e capacità di iniziativa non marginali ed è
presente in molte aziende, aree geografiche e categorie di lavoratori come una
forza discreta. Se ne può, di conseguenza, ragionare a partire da elementi
di giudizio tutt’altro che limitati.
Fatti
evidenti
Ora, una serie di fatti è assolutamente evidente e proverò a riassumerli
in una forma, per certi versi, brutale e persino eccessiva:
1. i militanti del sindacalismo alternativo, di norma, non hanno affatto elaborato
un’identità comparabile a quella dei sindacalisti d’azione
diretta dell’inizio del secolo scorso in particolare per quel che riguarda
la critica del parlamentarismo e del ceto politico. Si potrebbe far rilevare
che lo stesso sindacalismo d’azione diretta era, da questo punto di vista,
contraddittorio ma è bene tener presente che la visione generale della
questione sociale che caratterizza la parte più consistente dei “sindacalisti
alternativi” è, al massimo, welfarista radicale e che la rottura
con i sindacati istituzionali verte principalmente sul fatto che questi ultimi
sono completamente subalterni alle politiche statali e padronali;
2. le organizzazioni sindacali alternative che hanno tenuto bene e sono cresciute
si caratterizzano per la presenza di un numero, certo limitato in assoluto e
in proporzione rispetto ai sindacati istituzionali ma discreto, di funzionari
e distaccati. Vi è, in altri termini, una piccola ma consolidata burocrazia
che si è stabilizzata e consolidata nel tempo. Uso, in questo caso, il
termine burocrazia non in un’accezione polemica ma per indicare un dato
di fatto ed un gruppo sociale i cui membri possono essere persone di grande
onestà e capacità di lavoro ma che hanno, inevitabilmente, un
modo di affrontare i problemi che parte, in primo luogo, dalla necessità
di crescita organizzativa;
3. la stessa attività quotidiana di tutela individuale e collettiva che i sindacati alternativi garantiscono non potrebbe esservi senza questo piccola apparato. I lavoratori che si organizzano con un sindacato, con qualsiasi sindacato, si attendono, almeno, la tutela legale, la consulenza sul salario, le tasse, la previdenza, la malattia ecc. e questo lavoro, superata una certa consistenza, richiede competenze specialistiche e una disponibilità di tempo che non è facile richiedere a militanti che spendono la loro giornata in produzione. Naturalmente quanto dico non esclude che molta di questa attività possa essere garantita da lavoratori e delegati aziendali ma il volontariato in primo luogo deve esservi e deve caratterizzarsi per una certa competenza e, in secondo luogo, ha dei limiti;
4. l’apparato tende a controllare l’organizzazione che lo ha prodotto. I suoi membri possono dedicarsi a tempo pieno al lavoro sindacale, conoscono la situazione, sono in relazione con i collettivi aziendali, possono orientare la discussione e le decisioni, posseggono informazioni che non sono a disposizione degli iscritti e dei militanti.
Sulla base delle precedenti affermazioni, che potrebbero essere ampiamente documentate, sembrerebbe evidente che i militanti sindacali libertari sono condannati ad un ruolo di coscienza critica all’interno di organizzazioni sostanzialmente burocratiche ed autoritarie.
Individuare
soluzioni diverse
Se, però, partiamo dalla considerazione che la rete dei militanti sindacali
combattivi che anima il sindacalismo alternativo è un interlocutore importante
del movimento anarchico e che la burocratizzazione non si combatte con denunce
di tono moralistico ma individuando soluzioni diverse ed efficaci qui ed oggi
alle esigenze che legittimano la burocrazia, è evidente che si deve iniziare
un percorso di riflessione sui punti accennati e quindi sulla capacità
nostra di produrre una proposta politica generale capace di interessare e coinvolgere
i militanti sindacali, sui modi che si possono trovare per garantire tutela,
informazione, formazione senza costruire apparati autoperpetuantesi, sui meccanismi
organizzativi che realisticamente possono garantire circolazione dei ruoli e
delle responsabilità e decentramento delle decisioni.
Io sono convinto che un modello libertario di organizzazione sia, dal punto
di vista della lotta di classe, e non solo, il più efficace ma sono altrettanto
convinto, mi si passi il gioco di parole, che questo convincimento vada argomentato,
dimostrato, verificato sul campo.
In particolare i libertari hanno molto da dire, e da fare, sul terreno delle
forme di lotta, nella produzione di un sapere critico, nella costruzione di
reti di informazione.
Sarebbe interessante, a mio avviso, che su questi temi si sviluppasse una discussione
approfondita e senza troppi pregiudizi.
Cosimo Scarinzi
nota:
1 Sindacalista rivoluzionario francese di formazione anarchica particolarmente noto in Italia per la polemica che sostenne con Errico Malatesta al congresso anarchico di Amsterdam del 1907 appunto sul sindacalismo. Animatore di diverse ed importanti riviste quali “La Vie Ouvriere” e “La Revolution Proletarienne”.
Iraq
Tutti contro
tutti
di Antonio Cardella
Sui danni provocati alla stabilità mondiale dal texano dagli occhi bovini
e dalla sua corte.
Per misurare in ampiezza e profondità i danni provocati alla stabilità
mondiale dal texano dagli occhi bovini e dalla sua corte, basta sfogliare giorno
dopo giorno i giornali e scorrere le immagini delle televisioni. Appare sempre
più chiaro che gli attentati, le ritorsioni, i sabotaggi e gli attacchi
mirati esulano sempre di più dalle logiche di conflitti circoscrivibili
in territori specifici, per assumere le dimensioni di una grande e unica guerra
di tutti contro tutti che si sviluppa su piani diversi e trasversali.
Rozza
concezione
All’inizio del conflitto iracheno, avevo scritto su questa stessa rivista
che la destabilizzazione del mondo arabo che sarebbe derivata dalle operazioni
belliche avrebbe provocato un effetto domino molto diverso da quello che si
aspettava la Casa Bianca, la cui rozza concezione della esportabilità
della forma democratica occidentale in un mondo così diverso come quello
mediorientale, e per di più con l’uso delle armi, avrebbe invece
compattato l’intero mondo arabo contro l’Occidente, con conseguenze
catastrofiche. Non era una previsione difficile e si basava sulla conoscenza
diretta, anche se saltuaria, dei luoghi e delle popolazioni oltre che delle
condizioni specifiche dei singoli territori, certamente gestiti e strumentalizzati
dall’occidente con governi fantocci, il più delle volte inaffidabili,
ma con tessuti sociali, etnici e religiosi assai coesi, tra loro spesso in conflitto
ma sempre pronti a scendere in campo compatti per difendere la loro identità.
A noi che stiamo perdendo la nostra sembra un delirio, appare insensato che
uomini altrimenti pacifici, per poter conservare le loro tradizioni e per essere
lasciati liberi di progettare un loro modello di sviluppo, basato sull’uso
delle loro risorse, possano abbandonare le loro case e i loro paesi per combattere
una battaglia che ritengono vitale. Perché questo è l’aspetto
più singolare e preoccupante del conflitto: governi timidi, indecisi,
preoccupati di venire deposti o attaccati dalla più grande potenza mondiale
vedono i loro concittadini affluire in quelle che, con terminologia semplicistica
e consolatoria, sono definite le brigate del terrore (semplicistica perché
si fa di tutta un’erba un fascio, si mettono insieme la resistenza irachena
o quella palestinese con la rete di Bin Laden; consolatoria perché si
coltiva l’illusione che assimilando ogni forma di opposizione armata all’ideologia
del terrorismo, si possa ridurre tutto ad un problema di ordine pubblico internazionale,
occultando le vere cause che sono alla base degli attuali sommovimenti).
Conflitti
trasversali
Ma la rottura di equilibri già precari provocati dalla guerra in Iraq,
come dicevamo all’inizio, sta determinando conflitti trasversali che destabilizzano
lo stesso schieramento occidentale. Ormai il dilemma guerra sì o guerra
no è largamente superato dal fatto del tutto evidente che la guerra c’è
stata. Solo che troppo ottimisticamente la si è dichiarata conclusa vittoriosamente
per le armi della coalizione, mentre la realtà delle cose ci dice che
non solo le armi non tacciono ma che l’aver voluto risolvere con l’intervento
armato il problema Saddam Hussein ha determinato lo scatenarsi di conflitti
sopiti oltre che un diffuso senso di insicurezza e paura nell’intera regione.
Perché è bene non farsi illusioni: se il disegno coltivato dall’Occidente
è quello di istituire in Medio Oriente nuove forme di protettorato, la
prospettiva è quella di veder moltiplicata per quanti sono i paesi della
regione la situazione che si vive attualmente in Iraq. Storicamente lo hanno
già sperimentato gli inglesi che, in poco più di un cinquantennio
di permanenza in quei territori, hanno dovuto contare 85 mila morti, e si era,
in quelle plaghe, nell’era dell’arco e delle frecce o poco oltre,
del nomadismo diffuso e delle istituzioni indigene evanescenti.
Vi era inoltre un’indifferenza diffusa sulla sorte di quelle popolazioni
e il giuoco delle maggiori potenze europee era solo di carattere egemonico e
strategico-militare. Nulla a che vedere con gli interessi concreti di natura
economica e di assoggettamento politico che muovono oggi le forze trainanti
della globalizzazione. Le quali, però, proprio perché ubbidiscono
alla logica del mercato e della competizione, mostrano di avere interessi non
propriamente coincidenti. Torniamo così, esemplarmente, all’Iraq
dei nostri giorni ed ai contrasti occulti e manifesti che agitano lo schieramento
occidentale.
Le divergenze tra Europa e Stati Uniti sul futuro dell’Iraq riguardano
o, per lo meno, si dice che riguardino, aspetti di legittimità internazionale
che l’intervento unilaterale della coalizione angloamericana avrebbe posti
e che ancora adesso appaiono irrisolti. Si chiede quindi che, andata com’è
andata l’avventura bellica irachena, si ritorni all’ONU, togliendo
agli USA l’arbitrio di decidere il futuro del paese medio orientale. Ratificata
la falsità delle motivazioni che erano state addotte per legittimare
la guerra, si evidenziano le ragioni vere dell’intervento alle quali si
è dato coerentemente seguito, disegnando un progetto di privatizzazione
del territorio affidato alle lobby economiche statunitensi.
Qualche cifra e alcune annotazioni pertinenti servono a chiarire la situazione.
Il piano di intervento degli USA per il 2004/2005 prevede lo stanziamento di
circa 18,7 miliardi di dollari così destinati: 5,56 miliardi nel settore
elettrico, 4,56 miliardi, sicurezza e giustizia, 4,307 miliardi sistema idrico,
500 milioni trasporti e telecomunicazioni, 1,89 miliardi petrolio,790 milioni
edilizia e sanità, 1,046 infrastrutture: totale 18,646 miliardi. I destinatari
veri di questi soldi sono oltre alla Halliburton di Richard Cheney, vice presidente
degli Stati Uniti, la Bechtel Group, per la quale avevano lavorato George Schultz
e Gaspar Weinberger, rispettivamente segretario di stato e ministro della difesa
del governo Reagan, la Parsons Corp, la Louis Berger Group, la Fluor Group e
la Washington Group, tutte aziende che avevano finanziato la campagna repubblicana
per l’elezione di George Bush per un totale di 2,8 miliardi di dollari.
Naturalmente queste aziende costituiscono le capofila dell’operazione
ricostruzione dell’Iraq e potranno subappaltare i lavori a imprese estere,
ma solo di quei paesi che non si siano mostrati ostili alla guerra. L’ufficio
preposto all’assegnazione, supervisione e gestione dei contratti sarà
il PMO (Program Management Office) diretto dall’ammiraglio David Nash,
affiancato da due vice, di cui uno iracheno.
Strumento
di pressione
Trattandosi di stanziamenti annuali, i contratti di subappalto avranno identica
durata e sarà discrezionalità delle aziende capofila americane
rinnovarle o meno, il che potrà dipendere certamente dal grado di efficienza
delle aziende subappaltatrici, ma potrà pure trasformarsi in strumento
di pressione politica per discriminare di volta in volta quei paesi che sono
riluttanti ad allinearsi pedissequamente alle posizioni statunitensi.
E ancora. Si valuta che per riportare ad una efficienza adeguata il complesso
dei servizi pubblici iracheni, occorreranno dai 50 ai 70 miliardi di dollari
e almeno sei/sette anni di lavoro. Pertanto, almeno per tale lasso di tempo,
la vita economica e sociale dell’Iraq sarà interamente nelle mani
dell’amministrazione americana. Se si considera poi che la parte più
consistente degli stanziamenti deriverà dalla commercializzazione del
petrolio iracheno e che tale commercializzazione avrà come tramiti prevalentemente
la Exxon Mobil e la Shell (Russia e Francia attendono di conoscere la sorte
delle concessioni ottenute da Saddam Hussein) si vedrà come anche le
risorse energetiche di quel territorio saranno privatizzate e sottratte alla
gestione dell’eventuale governo autonomo che dovesse insediarsi dopo il
fatidico 30 giugno 2004.
Stabilite queste premesse resta da capire di cosa mai vanno cianciando i vari
politici europei quando invocano il ritorno dell’ONU in Iraq. Ammesso,
per un giuoco dell’assurdo, che Bush vada fuori di testa e ceda il maltolto,
non si capisce con quali mezzi e quale credibilità politica le Nazioni
Unite possano sostituirsi a questo imponente apparato economico-organizzativo
messo in campo dall’amministrazione americana. Rischiano invece di occultare,
con una copertura politica che renda possibile la partecipazione all’impresa
di nazioni che sinora se ne sono chiamate fuori, l’effettiva colonizzazione
della regione.
Guerra non
ancora conclusa
Certo non tutto fila per il verso giusto. Per il momento il territorio non è
praticabile per le imprese che dovrebbero ricostruirne le funzioni essenziali.
La guerra è ben lungi dall’essersi conclusa e l’opposizione
all’occupazione angloamericana ha anzi elevato i toni della resistenza.
Anche dal punto di vista dell’assetto politico interno, il governo provvisorio
è contestato dalla maggioranza sciita e non si vede come possa avviare
il paese ad una qualsiasi normalizzazione. In questa situazione è difficile
ipotizzare persino l’inizio di lavori, che, per la loro vastità
e complessità, richiedono livelli di sicurezza assai costosi (è
significativo che alla voce “sicurezza e giustizia” sia destinato
lo stanziamento più consistente dopo quello previsto per il settore elettrico).
Poi c’è la questione del petrolio: prima della guerra i malandati
pozzi petroliferi iracheni producevano 2,5 milioni di barili al giorno. Oggi
quale sia la loro reale capacità produttiva è difficile da sapere.
Secondo fonti americane nel 2003 dal petrolio iracheno si è avuto un
controvalore di circa 3 miliardi di dollari, nulla in confronto ai costi della
ricostruzione. E per elevare la produzione a 4/5 milioni di barili, sempre secondo
previsioni americane, occorrono cinque o sei anni di lavoro e costi altissimi
che è persino difficile valutare con adeguata approssimazione, anche
perché continuano i sabotaggi.
Infine ci sono gli inghippi di competizione internazionale. È infatti
difficile che i paesi più industrializzati dell’Occidente si rassegnino
ad avere un ruolo marginale nella colonizzazione (perché di questo si
tratta) della regione. Ci sono implicazioni di natura geopolitica nel disegno
espansionistico del Pentagono che non possono lasciare indifferenti Francia,
Germania, Russia e persino India e Cina, per citare solo i principali interlocutori
attuali degli Stati Uniti.
È prevedibile, quindi, che qualcosa nel prossimo futuro cambi. Ma finché
i popoli non si svegliano, i movimenti di contestazione non si chiariscono le
idee e scelgono una strategia d’intervento adeguata, c’è
il rischio concreto che il superamento dei conflitti interni che agitano i governi
dell’Occidente avvenga congiunturalmente all’insegna della spartizione.
Come di consueto!
Antonio Cardella
astensione
Un curioso
scrutare
di Andrea Papi
Uno sguardo alieno al teatrino elettorale.
Da diversi decenni, da quando cioè i politicanti professionisti delle
politiche istituzionali hanno raggiunto la consapevolezza che i loro messaggi
e le loro riflessioni giungono al vasto pubblico attraverso la forza della persuasione
mediatica, il linguaggio della politica ufficiale è continuamente improntato
da tensioni elettoralistiche. In altre parole è come se fossimo permanentemente
immersi in una campagna elettorale che sembra non aver fine. Le regole fondamentali
di tale linguaggio sono la costante criminalizzazione dell’avversario
ed il bisogno, indotto dagli strumenti mass-mediatici, di semplificare al massimo
i codici linguistici della trasmissione del pensiero, a scapito ovviamente della
vera comprensione che, se è tale, non può non tener conto della
complessità del reale, dei passaggi argomentativi e della vastità
delle problematiche, difficilmente rinchiudibili in slogan e frasi ad effetto,
come invece richiede la prassi consolidata della comunicazione mediatica.
L’asprezza dello scontro verboso è in costante aumento e sottrae
l’attenzione delle masse in ascolto che, invece di essere indotte a soffermarsi
e riflettere sul senso e la complessità dei problemi che ci attanagliano,
sono al contrario portate ad immergersi in una fruizione da tifo per l’una
o l’altra parte in lizza, trasportate su un piano ad effetto ricettivo
d’istinto, con l’intento programmato di deviarle dal bisogno di
capire e valutare, per il quale invece sarebbe indispensabile venissero offerti
strumenti adatti a riflettere, opposti a quelli in auge, atti ad indurre ed
intontire per essere meglio fagocitati e sottomessi ai bisogni dei poteri vigenti.
Messaggi semplici,
anzi semplicisti
Quando poi c’è una concreta campagna elettorale in atto, tutto
questo fare ed apparire della politica professionale si dilata a dismisura,
proprio per il bisogno degli imbonitori politicanti che i messaggi siano il
più possibile semplici, di fatto semplicisti ridotti all’osso,
e chiari, di fatto fruibili senza riflessione, perché debbono creare
distinzione identificativa. In una competizione che, come aveva ampiamente previsto
Schumpeter, ha sempre di più le caratteristiche della concorrenza pubblicitaria
finalizzata a lanciare prodotti sul mercato, lor signori, per sedurre gli elettori
a votarli, debbono essere accattivanti, seducenti ed apparire credibili. In
questa kermesse i prodotti che vengono lanciati sono gli stessi lor signori,
a scapito ovviamente delle idee, quelle poche quando ci sono, che invece dovrebbero
contraddistinguere la propaganda politica.
Ci avviciniamo alle elezioni europee del 2004 in corso e questa specifica teatralizzazione
mediatica ad ampio raggio è sotto gli occhi di tutti noi con grande evidenza.
Il potenziale elettore viene sommerso quotidianamente da informazioni e comunicazioni
aggressive, attraverso un ampio e sapiente uso di parole, immagini e suoni,
che, al di là delle precostituite differenze di parte, nella sostanza
è portatore di un unico messaggio di fondo: la demonizzazione dell’avversario
ed il tentativo di essere accreditati come i veri capaci risolutori delle istanze
e dei problemi quotidiani delle persone che devono essere governate. Tutta l’area
di centrosinistra, prodiana e non, accusa il governo berlusconiano in carica
di essere la causa principale dello sfascio economico e sociale che sta vivendo
il bel paese. Di rimando la coalizione di centrodestra sostiene al contrario
che tutto sta marciando per il verso giusto, mentre quelle poche cose che ancora
non funzionano sono dovute esclusivamente a problemi internazionali, di cui
quindi non si sentono responsabili, e, soprattutto, all’eredità
completamente manchevole lasciata dai precedenti governi dell’attuale
opposizione, ma, se si continuerà a darle fiducia, nel giro di qualche
anno risolveranno tutto nonostante il sabotaggio constante attuato dalla coalizione
avversaria di sinistra.
A noi, che siamo staccati osservatori non fruitori e non coinvolti emotivamente,
ma che, come ogni altro abitante di questo beneamato bel paese, siamo costretti
a subire le decisioni dell’uno o dell’altro pur non partecipando
e contro la nostra volontà, questo teatrino mediatico della politica
istituzionale nostrana ci appare alquanto caricaturale, ben farcito di contenuti
comici avulsi da ogni tipo di autoironia, drammaticamente sospeso su un provincialismo
inveterato e sulla mancanza di consapevolezza della tragicità della commedia
che stanno seriosamente recitando. Una cosa va chiarita. La nostra distanza
non è in alcun modo equidistanza dall’uno e dall’altro. Se
così fosse, in un certo senso saremmo nel mezzo, geometricamente appunto
distanti in egual modo da entrambi, quasi ironicamente e fatalmente parte del
famoso centro sociopolitico da tutti corteggiato. In realtà è
come se ci trovassimo su un altro pianeta, allegoricamente degli alieni della
politica, che scrutano curiosi i comportamenti, ai nostri occhi paradossali,
dei politicanti professionisti, senza sosta impegnati a racimolare consensi
per avere il potere di gestire, con poca soddisfazione e gran fatica, ciò
che con un eufemismo da tempo consolidato tutti continuano a chiamare bene comune.
Scannarsi per
gli stessi obiettivi
La prima cosa che notiamo è che entrambi i contendenti tendono a scannarsi
con gran fendenti usando bellamente gli stessi parametri e gli stessi riferimenti,
propugnando più o meno gli stessi obiettivi da raggiungere ed usando
lo stesso identico linguaggio. Al livello della qualità di rappresentazione
tra loro insomma non ci sono differenze, né di stile né di immagine.
Quelle che ci sono appaiono insignificanti rispetto alla differenziazione, più
o meno efficaci a seconda dei casi. Dalle ugole mediatiche dei leader in lizza,
di centrodestra o centrosinistra non ha importanza, fuoriesce continuamente
un grido univoco, scandito con ossessiva e avida insaziabilità: “Noi
vogliamo potervi governare. Il nostro programma di governo è fondato
sulla volontà di risolvere i problemi di tutti voi. Fidatevi! Abbiamo
i numeri per poterlo fare e ne siamo del tutto capaci, a differenza dei nostri
avversari.”. La volontà di pervenire al potere col consenso elettorale,
per acquisire la possibilità di esercitare legittimamente il governo
su tutto e su tutti, è il minimo e allo stesso tempo massimo comun denominatore
di entrambi.
Dal nostro osservatorio di alieni è proprio questa inveterata volontà
di governare a tutti i costi che non funziona. E non funziona per due ordini
di motivi: primo perché riteniamo impositiva, autoritaria e coattiva
ogni logica fondata sul comando dall’alto, mentre vorremmo che il decidere
ciò che riguarda tutti fosse concordemente stabilito da tutti; secondo
perché lo scopo fondamentale del loro governare è quello di governarci
per far funzionare al meglio il sistema vigente, che non ci piace ed a cui,
nolenti o volenti, non possiamo sottrarci.
Perché il presupposto principale e fondamentale accreditato per la soluzione
dei problemi della società deve avere sempre e soltanto un carattere
di decisione verticale, secondo cui spetta solo a degli addetti specializzati,
che hanno l’onere e il compito di stabilire per tutti gli altri, il come
e il quando vanno applicate norme e soluzioni che bisogna subire obbligatoriamente?
Dal punto di vista del principio ha un’importanza molto relativa che a
farlo sia un monarca o un parlamento. Si tratta sempre di qualcuno, investito
di una carica istituzionale, che ha la facoltà di decidere per tutti
e il potere di imporre le sue decisioni con la forza e la prepotenza delle armi
e dei tribunali. Eleggerli vuol dire quindi contribuire a scegliersi consensualmente
i propri padroni. È come dare un’investitura ad un monarca collettivo.
Infatti non vanno lassù con un mandato revocabile, bensì con una
vera e propria investitura di potere. Una volta lassù, fino a quando
il governo non decade, o per incapacità o per fine del mandato costituzionale,
chi ha votato non può più intervenire, ma può solo imprecare
per gli errori commessi od aspettare il prossimo turno elettorale per…
ripetere sostanzialmente lo stesso errore: delegare a dei professionisti della
politica ciò che potrebbe tentare di condividere con altri, come lui
o lei, attraverso forme di autogestione collettiva.
Andiamo a vedere che cosa poi vuol dire nei fatti. Lor signori debbono e vogliono
governarci. Per farlo definiscono quell’insieme di leggi e leggine che,
sia nei tempi sia nei modi, stabiliscono i nostri comportamenti nei luoghi di
lavoro, per la strada, nei luoghi d’incontro, quando acquistiamo qualcosa,
dovunque insomma abbiamo necessità di muoverci e di agire. Le loro decisioni
sono leggi, cioè comportamenti obbliganti cui siamo costretti ad attenerci,
che siano eque o no, che ci appaiano giuste o no, altrimenti incorriamo in sanzioni,
stabilite sempre da loro, più o meno pesanti a seconda che la trasgressione
sia giudicata più o meno grave. Alle loro decisioni non abbiamo partecipato,
se non come fruitori informati quando abbiamo la costanza e la voglia di seguirne
i complicati iter, né abbiamo potuto farlo, perché a noi spetta
soltanto il compito di dar loro il mandato di decidere, non certamente di essere
compartecipi della decisione.
Irrisolvibilità
dei problemi
Ma ciò che più conta dal nostro punto di vista è che tutto
questo meccanismo, complesso e complicato insieme, è funzionale a far
funzionare al meglio il sistema vigente. Il fatto che non ci riescano, per quanti
tentativi facciano e per quante ricette mettano in campo, riuscendo ogni volta
più che altro a dilatare l’irrisolvibilità dei problemi
che, invece di diminuire, sembrano aumentare a dismisura, la dice lunga sulla
fondatezza del senso del dover permanere in questo sistema di cose, che siano
in grado di governarlo o no. In fondo sono state sperimentate diverse ricette,
e probabilmente altre di nuove col tempo ne verranno messe in campo, per riuscire
a far si che nel mondo funzioni in modo accettabile il sistema che da troppo
tempo ci sovrasta. A suo tempo si disse anche che oramai eravamo piombati nelle
società del benessere, capaci di soddisfare i bisogni di massa, al punto
che gli individui che ne facevano parte erano alla ricerca di nuove emozioni
per trovare un senso alla propria esistenza, ormai demotivata dall’avere
tutto. La fantasia suadente degli imbonitori intellettuali aveva anche cercato
di affascinarci prefigurando futuri, che si sono poi dimostrati non futuribili,
in grado di farci vivere, più o meno tutti, in una specie di eden dei
desideri appagati, in una specie di mondo da sempre sognato dalla specie. Non
ci volle molto perché tali fantasie crollassero ignominiosamente. Al
contrario oggi vengono continuamente prefigurati paesaggi di un futuro prossimo
venturo desolanti e squallidi, che sanno di morte e distruzione, in cui noi
tutti ci troveremmo abbruttiti da costanti carenze e da livelli d’inquinamento
insopportabili, fino ad esser deprivati dell’essenziale che sottende alla
vita.
Proviamo a divertirci supponendo ciò che allo stato delle cose non può
che risultare assurdo. Che cioè lor signori, sia quelli offertici dal
teatrino mediatico sia quelli occulti che hanno un gran potere e che agiscono
nell’ombra, riescano prima o poi governando a realizzare effettivamente
tutto ciò che senza sosta ci promettono, rendendo perciò operativo
al meglio il funzionamento di questo sistema che hanno interesse a conservare
a tutti i costi. L’economia filerebbe a gonfie vele e gli investimenti
produrrebbero innovazione e prodotti competitivi, le speculazioni finanziarie
nelle borse sarebbero molto redditizie, il risparmio con i conseguenti investimenti
sarebbero alla portata di moltissime tasche, l’inflazione si troverebbe
sotto controllo e quasi nessuno sarebbe costretto a lottare quotidianamente
per far quadrare i conti, la disoccupazione sarebbe quasi inesistente e, siccome
il welfare state, lo stato sociale, sarebbe funzionante, quei pochi provvisoriamente
a spasso sarebbero assistiti dalle istituzioni e riceverebbero un congruo salario
d’assistenza, il terrorismo debellato, la criminalità in affanno,
l’opposizione sociale ridotta al lumicino. Ecco il paradiso capitalista
continuamente solo promesso e pubblicizzato, sistematicamente inesistente.
È davvero questo il mondo dove ci piacerebbe vivere? Siamo proprio sicuri
che vi troveremmo la realizzazione dei nostri sogni e dei nostri desideri? Forse,
anzi senz’altro, dei desideri indotti dal bombardamento mediatico e dalla
pubblicità mercantile.
Assoggettati e
integrati
Il fatto è che per realizzarsi e perdurare dando l’idea di diventare
una costante, perché altrimenti sarebbe solo un accadimento provvisorio
e non una caratteristica di questo tipo di sistema, un tale mondo avrebbe bisogno
che tutti noi, indistintamente, fossimo del tutto assoggettati, completamente
integrati in esso, e non ci sognassimo neppure di non essere convinti compartecipi.
Per funzionare, infatti, avrebbe bisogno che tutte le cose stessero al loro
posto, senza inghippi od alzate di testa. Coloro che hanno funzioni direttive
avrebbero bisogno di poter governare e sperimentare i loro piani senza trovare
opposizione di alcun tipo, mentre coloro, la gran massa, che parteciperebbero
all’esecuzione dovrebbero farlo, possibilmente con entusiasmo, mettendoci
tutto il loro impegno e le loro competenze, che ovviamente sarebbero premiate.
Un siffatto sistema complesso non può comprendere la non partecipazione
fattiva, mentre ha necessità di escludere la partecipazione decisionale,
in quanto è fondato su una logica completamente manageriale, quindi gerarchica,
in cui le diverse competenze ed i relativi compiti sono funzioni, componenti
integrate della complessità del funzionamento, collegate fra loro ed
interdipendenti.
La qualità della partecipazione fattiva, per la filosofia che lo sottende,
va incentivata con premi la cui entità è direttamente proporzionale
al tipo di incarico e funzione svolti. Siccome è fondato sull’utile,
il denaro ed il privilegio economico, in cima alla gerarchia i manager ed i
loro protetti si beccherebbero incentivi economici astronomici, mentre sarebbero
piccolissimi per gli esecutori delle funzioni e delle mansioni che non contano
nel livello decisionale, utili tutt’al più a far condurre una vita
decorosa con qualche eccezionale piccola soddisfazione. Il divario cioè
tra chi ha e può avere e chi può permettersi poco più oltre
il minimo indispensabile sarebbe costantemente elevatissimo, fonte di permanente
ingiustizia e strutturale sfruttamento. Ci troveremmo cioè tutti mediamente
poveri, senza allo stesso tempo essere ridotti alla miseria, quel tanto che
basta per poter assicurare livelli di consumo indispensabili alla perpetuazione
del sistema stesso. Un mondo quindi fondato sulla disuguaglianza e sul privilegio,
dove chi ha di più ha veramente tantissimo e può aspirare ad avere
sempre ed ancora di più, mentre chi ha poco al massimo può aspirare
ogni tanto in un incentivo, sempre sudatissimo, per prendersi qualche soddisfazione
non prevista.
A latere di questa normalizzazione della struttura economica, funzionale all’efficienza
del suo mantenimento, sarebbe applicato un elevato controllo sociale. Non si
tratterebbe di sostanza, ma di forma, in cui però la sostanza si manifesta
e con cui agisce. L’occidente, inteso come propensione culturale vincente
e capace di estendersi a livello globale, che dirige questo gioco, è
principe nell’invenzione e nella produzione di tecnologie informatiche,
telematiche e robotiche. Uno degli usi che ne farebbe, che in parte poi sta
già ampiamente facendo, sarebbe quello di mettere in piedi una rete altamente
complessa di strumentazioni sofisticate, atte a e in grado di esercitare un
costante controllo poliziesco e politico sui singoli esseri umani e sull’insieme
della società. Discreto e tendente ad essere invisibile, per non rischiare
di suscitare moti di ripulsa difficilmente arginabili, veglierebbe silenzioso
sulle nostre vite ignare e, classificando secondo criteri di valutazione funzionali
all’esercizio del controllo, catalogherebbe ogni nostro pensiero comunicato
ed ogni nostra manifestazione. Le informazioni sarebbero vagliate da apposite
commissioni che avrebbero il potere di giudicare la liceità del nostro
esserci e del nostro comportarci. Nel caso non fossimo giudicati consoni scatterebbero
forme di repressione adeguata.
Pianeta
insufficiente
Ma ciò che sarebbe più grave, e per molti versi già lo
è ampiamente, è che per il pianeta che ci ospita sarebbe insostenibile
l’impatto ambientale necessario a mantenere gli standard richiesti dalla
conduzione e dalla sopravvivenza del sistema. Se fosse veramente in grado di
soddisfare i bisogni indotti dalla necessità del profitto lucrativo che
ne è alla base, la terra non reggerebbe e in pochissimo tempo, molto
meno di quello che spereremmo, darebbe forfait. Già oggi, infatti, il
capitale terrestre di risorse disponibili comincia ad essere insufficiente,
in una situazione in cui solo pochissimi sono in grado di consumare per soddisfare
appieno le loro esigenze. Circa il 20% della popolazione consuma l’80%
delle risorse disponibili, per cui quell’80% maggioritario è in
una situazione di sottosviluppo. A questo ritmo, se l’intera popolazione
avesse la possibilità di raggiungere economicamente gli standard di consumo
di chi già vive il benessere, un pianeta non sarebbe più sufficiente.
Ce ne vorrebbero almeno altri due subito ed altri con l’andar del tempo.
In breve ci sarebbe il collasso e tutto sarebbe ingovernabile. Allora veramente
addio a tutto.
Il fatto è questo sistema, che lor signori dicono di voler e saper governare
portandoci tutti ad un alto grado di benessere materiale, intendendo per benessere
un elevato livello di consumo individuale diffuso in grado di arricchire senza
limiti i privilegiati che hanno in mano le sorti di tutto e di tutti, non può
essere diverso da quello che è. E quello che è si sorregge sul
privilegio, sulla corruzione, sul potere d’imposizione, sull’uso
forsennato delle risorse fossili, sulla produzione di veleni inquinanti che
depauperano e distruggono il patrimonio biologico indispensabile alla vita,
sullo sfruttamento delle masse umane a loro sottoposte, sulla speculazione finanziaria,
sul controllo militare dei territori e tecnologico dei cittadini. Volendo governarlo
al meglio, seppur animati dalle migliori intenzioni, non solo lo si conserva,
ma lo si porta ai livelli di devastazione dovuti alla insostenibilità
fisiologica della capacità terrestre.
Allora il nostro sguardo alieno, distante dalla ritualità politica che
osserva, ci porta ad essere sempre più esterrefatti per la mancanza di
consapevolezza collettiva. Ci chiediamo com’è possibile che si
continui a dar potere a lor signori per autorizzarli a conservare, addirittura
facendolo funzionare bene, ciò che al contrario andrebbe prima bloccato
e poi radicalmente cambiato nella sostanza. Senza quella consapevolezza si può
fare poco, troppo poco. Di fronte al rito delle elezioni non possiamo che limitarci
a non partecipare. Purtroppo, nonostante lo sguardo, non siamo in realtà
alieni. Non abbiamo un pianeta cui tornare per vivere nei fatti ciò che
qui, guardando lo sfascio in atto, possiamo solo desiderare e ipotizzare. Così,
indomiti al di là del destino, continuiamo ad opporci come possiamo e
ci asteniamo dal partecipare al sabba del voto politico per lor signori.
Andrea Papi
cronache
fatti & misfatti
Ricordando
Valerio Cacucci
Sabato, 13 marzo 2004, mio padre ha smesso di soffrire, al termine di una lunga
malattia. Sento di dovere molto anche a lui, per i miei ideali libertari. A
lui, metalmeccanico della Fit Ferrotubi di Sestri, che si sdraiava sui binari
all’ennesima cassa integrazione, i carabinieri a dirgli “Cacucci,
guarda che stavolta ti arrestiamo...”, fino al licenziamento per chiusura
da neoliberismo, sconfitto tutta la vita ma mai vinto.
Voglio raccontarvi un pezzetto di storia paterna.
Il 2 dicembre 1943 mio padre Valerio aveva 15 anni e si trovava nel porto di
Bari, dove faceva il garzone di bottega per un barbiere. Il contrattacco tedesco
colpì varie navi statunitensi alla fonda. Tra queste, la John Harvey,
carica di migliaia di bombe all’iprite.
Gli Usa non hanno mai dato spiegazioni del loro crimine di guerra, bombe all’iprite
messe al bando dalla convenzione di Ginevra fin dal 1925. Nessuno poteva saperlo.
Migliaia di morti per le esalazioni e le ustioni. Mio padre, come tutti, si
mise ad aiutare a tirare fuori i soldati e i pescatori da quella melma di nafta
e iprite.
La pelle dei feriti si staccava a brandelli, e toccandone i panni, ci si ustionava
le mani. Chissà come ha fatto il mio vecchio – ragazzo –
a sopravvivere. Ci ha rimediato problemi alla pelle incurabili, e un enfisema
polmonare. 75 anni. Meno 15, come dire che i successivi 60 sono stati un regalo
dell’iprite che lo risparmiò, come pochi altri, grazie solo al
vento forte da ponente a levante che spostò in mare i fumi delle esplosioni.
Ancor oggi molti di quegli ordigni giacciono in fondo all’Adriatico pugliese,
sparpagliati da un criminoso tentativo dello stato italiano di occultare la
questione, rigettando al largo tutte le bombe recuperate nella rada. L’ultimo
caso di pescatore che tirando a bordo le reti si è ustionato mani e braccia
risale a non molto tempo fa... e ne hanno registrato almeno 250 dal ’43
a oggi.
Fino a qualche anno fa me lo raccontava ancora, quel giorno di inferno nel porto
di Bari, il 2 dicembre del 1943. Io sono nato l’8 dicembre e lui era nato
il 15 dicembre. Un mese fatidico, in famiglia. Il mese che lo vide restare vivo
a dispetto dell’orrore.
In fondo, è anche per narrare la storia dei dimenticati come lui, che
hanno fatto “del proprio meglio” nei momenti di tragedia, che scrivo
i libri che scrivo.
Vi abbraccio forte
Pino Cacucci
Convegno Malatesta
A Livorno
Organizzato dalla Federazione Anarchica Livornese (aderente alla FAI), sabato
6 marzo 2004 si è svolto a Livorno un Convegno su “Anarchia e movimento
operaio. L’azione e la riflessione di Errico Malatesta a 150 anni dalla
nascita”. Come è noto, nell’arco degli ultimi mesi l’anniversario
della nascita di Malatesta (S. Maria Capua Vetere, 4 dicembre 1853 – Roma,
22 luglio 1932) ha costituito l’occasione per una serie di iniziative
editoriali e di incontri che hanno interessato diverse città italiane.
La giornata di studi di Livorno si colloca all’interno di questo ciclo
di iniziative, caratterizzandosi peraltro per un taglio suo proprio originale.
La scelta degli organizzatori, come ha chiarito nella sua breve introduzione
Tiziano Antonelli a nome della FAL, è stata infatti quella di concentrare
l’attenzione su un tema specifico ma di grande rilevanza, quale è
quello dell’influenza di Malatesta sul movimento operaio, analizzato sotto
il duplice profilo della riflessione teorica e della ricostruzione storiografica
di alcuni aspetti e momenti tra i più significativi.
La relazione introduttiva (Errico Malatesta e il movimento anarchico tra speranze
rivoluzionarie e sconfitte del movimento dei lavoratori) è stata affidata
a Giampietro “Nico” Berti, autore di una recente monumentale biografia
del più famoso anarchico italiano. Richiamandosi esplicitamente ad alcuni
temi trattati nella sua monografia, Berti ha sottolineato come in tutta la lunga
vita di Malatesta esista un nesso inscindibile – di derivazione mazziniana
– tra pensiero e azione. Studiare Malatesta vuol dire essenzialmente confrontarsi
con tutti i tentativi di dare vita a una rivoluzione socialista in Italia, dai
moti internazionalisti del 1874 e 1877 (che si innestano in una tradizione risorgimentale
mazziniana e pisacaniana) ai tentativi insurrezionali dell’ultimo decennio
dell’Ottocento, dalla “Settimana rossa” del giugno 1914 fino
al “Biennio rosso” (1919-20) nel primo dopoguerra. In riferimento
soprattutto a quest’ultimo periodo, Berti ha mosso una dura critica all’inconcludenza
dei socialisti massimalisti, che proclamando in continuazione la loro volontà
di fare una rivoluzione senza mai effettivamente prepararla e realizzarla, ottennero
il solo risultato di spaventare la borghesia favorendo così l’avvento
al potere del fascismo. Molto più concreta appare in confronto l’azione
sviluppata in quel periodo da Malatesta e dagli anarchici, rivoluzionari sul
serio ma minoritari e consapevoli della impossibilità di dare avvio al
processo rivoluzionario senza la partecipazione delle masse orientate dal PSI.
La settimana rossa
Roberto Giulianelli (La Camera del Lavoro di Ancona) ha ricostruito brillantemente
i rapporti tra Malatesta, gli anarchici e il movimento operaio nel capoluogo
marchigiano. L’arrivo del rivoluzionario campano ad Ancona nei primi mesi
del 1897 galvanizza il movimento libertario locale (in poco tempo nascono decine
di gruppi) e lo orienta su posizioni organizzatrici. L’influenza malatestiana
sul movimento anconetano si rivelerà profonda e duratura. Coadiuvato
da alcuni compagni e collaboratori di notevole spessore (Cesare Agostinelli,
Adelmo Smorti, Rodolfo Felicioli, Emidio Recchioni e altri), Malatesta dà
vita al settimanale “L’Agitazione” che proseguirà per
qualche anno anche dopo il suo arresto nel 1898. L’appello di Malatesta
affinché gli anarchici ritornino ad occuparsi delle condizioni dei lavoratori
viene raccolto in ambito locale, e i libertari partecipano alla fondazione nel
1900 della Camera del Lavoro di Ancona, alternandosi con i repubblicani per
i primi anni alla sua direzione, prima che subentrino i sindacalisti rivoluzionari.
Autonome resteranno le leghe mezzadrili della provincia, egemonizzate dai socialisti
riformisti (l’anarchismo ad Ancona si presenta come fenomeno prettamente
urbano, sostanzialmente estraneo resta il mondo delle campagne, come del resto
avviene con poche eccezioni nel resto d’Italia). La presenza di un ambiente
particolarmente favorevole spiega perché, al suo rientro in Italia nel
1913, Malatesta scelga di nuovo proprio Ancona come luogo di residenza. Nel
giugno dell’anno successivo, non a caso, il capoluogo marchigiano sarà
l’epicentro dei moti della “Settimana rossa”, in cui Malatesta
avrà un ruolo di assoluto rilievo. Dopo il nuovo esilio londinese, al
rientro in Italia nel dicembre 1919, il vecchio rivoluzionario preferirà
stabilirsi invece a Milano, anche per assumere la direzione del quotidiano “Umanità
Nova”.
Maurizio Antonioli (L’anarchismo fra socialismo e individualismo alla
fine dell’Ottocento), ha analizzato le varie tendenze dell’anarchismo
italiano dagli ultimi decenni del XIX secolo fino all’avvento del fascismo.
La corrente organizzatrice malatestiana, che aveva i suoi punti di forza soprattutto
ad Ancona e a Roma, per lungo tempo è stata costretta a competere e polemizzare
con le correnti antiorganizzatrici e poi, a partire dai primi anni del Novecento
(dopo la pubblicazione in traduzione italiana degli scritti di Max Stirner)
con varie forme di individualismo. Fondamentale in questo dibattito appare il
ruolo di Luigi Fabbri, il più attivo e culturalmente attrezzato tra i
discepoli di Malatesta, fedele interprete e diffusore del suo pensiero anche
durante gli anni in cui il maestro, esule all’estero, riduce notevolmente
i suoi interventi sulla stampa. È interessante notare come gli antiorganizzatori
e gli stessi individualisti, avversari dichiarati della organizzazione politica
degli anarchici, spesso non manifestassero alcuna preclusione nei confronti
dell’organizzazione sindacale dei lavoratori (emblematico il caso di Camillo
Signorini, individualista e dirigente di rilievo del Sindacato Ferrovieri Italiani).
In conclusione, si può sostenere con qualche plausibilità che
la corrente organizzatrice sia stata minoritaria per una lunga fase nell’anarchismo
italiano (aldilà dell’indiscutibile prestigio personale e della
autorevolezza di Malatesta), e che solo nel primo dopoguerra, con la nascita
dell’Unione Anarchica Italiana, si modifichi in modo significativo e duraturo
il peso rispettivo delle varie tendenze.
Sul sindacalismo
Guido Barroero (L’eredità di Malatesta nel secondo dopoguerra:
la presenza degli anarchici nel movimento operaio) è partito da un’analisi
delle concezioni malatestiane riguardo il sindacalismo, come emergono soprattutto
nel corso della polemica con Monatte durante il Congresso anarchico internazionale
di Amsterdam del 1907. Malatesta si mostra critico nei confronti della teoria
sindacalista rivoluzionaria che identifica la rivoluzione con lo sciopero generale,
e rifiuta anche la concezione del sindacato operaio visto come organo autosufficiente
in grado di guidare da solo il proletariato verso la trasformazione rivoluzionaria
della società. Pur auspicando un impegno dei libertari nelle lotte operaie,
Malatesta crede sempre nell’importanza fondamentale della organizzazione
specifica degli anarchici. Ritiene anzi che il sindacato sia per sua natura
sempre riformista e portato al compromesso. Non facendosi illusioni sulle potenzialità
rivoluzionarie di questo organismo,
Malatesta propende per un sindacato politicamente “neutro”, in cui
possano convivere tutti i lavoratori (anarchici, socialisti, repubblicani e
di altre tendenze), accumunati dalla necessità di difendere i medesimi
interessi. Per questa ragione sarà inizialmente contrario alla nascita
dell’USI, ritenendo più opportuna la presenza degli anarchici e
dei sindacalisti rivoluzionari nella CGdL (ci sarà per questo una divergenza
di opinioni con Armando Borghi). Dopo l’interruzione rappresentata dal
fascismo, nell’immediato secondo dopoguerra il movimento anarchico italiano
praticamente nella sua interezza (compreso lo stesso Borghi) farà proprie
le concezioni malatestiane in campo sindacale, rinunciando alla ricostituzione
dell’USI e aderendo alla CGIL unitaria. Solo dopo la rottura dell’unità
sindacale a opera dei cattolici, dei repubblicani e dei socialdemocratici, con
la nascita rispettivamente della CISL e della UIL, anche alcuni anarchici a
partire dal 1949 decideranno di riattivare l’USI. Il loro tentativo all’epoca
non avrà successo e si esaurirà nell’arco di pochi anni,
anche per il disinteresse e il mancato sostegno di gran parte del movimento
libertario.
I rapporti con Armando Borghi
Riallacciandosi almeno in parte ad alcuni temi della relazione precedente, Luigi
Di Lembo (Errico Malatesta e Armando Borghi) ha messo a confronto le concezioni
malatestiane con quelle espresse da Borghi, che per circa un quindicennio –
nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale – fu il più noto
esponente del sindacalismo anarchico in Italia. Per quanto Borghi abbia cercato
nel secondo dopoguerra (in particolare in Mezzo secolo di anarchia) di accreditare
un’immagine di sé come discepolo di Malatesta e interprete più
o meno fedele della sua concezione politica nel movimento operaio, le divergenze
ci furono e non di poco conto. Anarchico antiorganizzatore in gioventù
(come attestano il periodo di sua direzione del settimanale “L’Aurora”
di Ravenna e l’opuscolo Il nostro e l’altrui individualismo del
1907), Borghi si avvicina poi al sindacalismo “d’azione diretta”
e attraversa, soprattutto nel 1913-14, una fase che lui stesso definirà
di “empietà operaista”. Senza mai cessare di definirsi anarchico,
le sue concezioni sono in quegli anni distanti da quelle di Malatesta, col quale
polemizza in alcune occasioni, e vicine piuttosto a quelle di Pelloutier, Monatte,
Guillaume. Riscoprirà integralmente il proprio anarchismo, depurato da
ogni incrostazione sindacalista, nella battaglia politica contro l’interventismo
– a cui aderiscono molti sindacalisti rivoluzionari – e di fronte
all’esperienza traumatica della Grande guerra.
Grazie proprio alla sua netta contrapposizione ad Alceste De Ambris e agli altri
leader sindacalisti passati all’interventismo, nel settembre 1914 Borghi
viene nominato Segretario generale dell’USI, mantenendo tale incarico
fino alle sue dimissioni nel 1921. Si riavvicina in questo periodo a Malatesta,
col quale collabora strettamente per tutto il “Biennio rosso”. La
corrispondenza tra i due continuerà anche dopo l’espatrio di Borghi
alla fine del 1922, ed è anche grazie ad alcune di quelle lettere che
è possibile documentare una persistente diversità di opinioni
su questioni non trascurabili. In particolare, mentre Malatesta ritiene che
soprattutto dopo l’avvento del fascismo l’USI dovrebbe confluire
nella CGdL, Borghi continua ad attribuire ancora una valenza positiva all’esistenza
di una struttura sindacale autonoma di tendenza libertaria. Del resto, in quegli
anni Borghi è attivissimo nel promuovere l’AIT, l’internazionale
anarcosindacalista e libertaria nata al Congresso sindacalista di Berlino (25
dic. 1922 – 2 gen. 1923) in contrapposizione all’internazionale
sindacale socialdemocratica di Amsterdam e a quella comunista di Mosca.
Solo dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, avvenuto alla fine del 1926,
l’anarchico romagnolo comincerà a rivedere radicalmente le sue
posizioni, influenzato dal contatto con la realtà americana. Secondo
Di Lembo, sull’evoluzione di Borghi avrebbe pesato con molta probabilità
anche l’allarme suscitato dai diversi tentativi di revisione dell’anarchismo
divenuti oggetto di accesi dibattiti in quegli anni, sia di taglio classista
e iperorganizzatore (come la celebre “Piattaforma di Archinov”)
sia democraticisti. Fatto sta che ritornato in Italia nell’ottobre 1945,
Borghi sembra avere fatto propria la concezione del sindacato di Malatesta (morto
nel frattempo nel 1932) e si oppone a ogni tentativo di riattivazione dell’USI.
Va oltre, peraltro, lo stesso Malatesta, e dimostra un sostanziale disinteresse
per l’attività sindacale in genere. Per il Borghi della maturità
il sindacato è divenuto ormai, nel mondo contemporaneo, solo un organo
per la statalizzazione delle masse. Del resto, più in generale, tutta
l’impostazione dell’ultimo Borghi è di tipo antiorganizzatore.
Si può dire che si assiste a un suo sostanziale ritorno alle origini,
alle posizioni espresse nei primi anni del Novecento.
L’arresto di Malatesta
Di un certo interesse, ma più legati a una dimensione locale, anche i
contributi di Fabio Bertini (Anarchici livornesi e toscani nelle carte di polizia),
e di Marco Rossi (Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta). Il
primo, utilizzando anche recenti ricerche effettuate per compilare schede per
il Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, ha messo in luce la continuità
che esiste in Toscana tra la tradizione democratica e rivoluzionaria risorgimentale
e la nascita poi dei gruppi internazionalisti e anarchici. Il secondo ha ricostruito
l’episodio dello sciopero generale svoltosi a Livorno il 3 febbraio 1920
in seguito all’arresto di Malatesta (avvenuto a Tombolo il giorno prima),
inquadrandolo nelle vicende del movimento operaio della città labronica
nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
Concludendo, per la qualità delle relazioni il Convegno può essere
considerato sicuramente un successo. Complessivamente ridotta invece la presenza
del pubblico, forse scoraggiato anche dalle avverse condizioni meteorologiche.
Considerati i temi trattati e i nomi dei relatori, tra i quali vi erano alcuni
tra gli storici più autorevoli dell’anarchismo italiano affiancati
da ricercatori in qualche caso più giovani ma promettenti, ci si poteva
aspettare un’affluenza maggiore.
Gianpiero Landi
comunicati
TAM TAM
Appuntamenti
Rimini: percorsi di lettura 2004 – Con questa iniziativa, per il terzo
anno consecutivo, la Biblioteca Albert Libertad presenta alcuni libri disponibili
in consultazione e/o prestito; uscendo dallo schema “presentazione del
libro > promozione > vendita”, ci avventuriamo attraverso questi
percorsi di lettura senza alcuna velleità accademica (non siamo mica
professori...), ma con lo scopo di stimolare interesse verso temi e/o autori
spesso emarginati dalla kultura ufficiale. Gli incontri si svolgono in via Tonini
5, nel centro storico di Rimini, presso l’Istituto di Scienze dell’Uomo
(che ospita la biblioteca).
Martedì 27 aprile (ore 21) Anarchia la punk, “Io non ho voglia
di diventare uomo, non devo obbedire proprio a nessuno!”, letture da:
Federico Guglielmi, Dave Laing, Melvin Burgess, Camille de Toledo.
Martedì 4 maggio (ore 21) Silvio Corbari e la sua banda, il partigiano
romagnolo “dimenticato” dai media, letture da: Pino Cacucci, Massimo
Novelli.
Biblioteca “Albert Libertad”: libri, riviste, fanzine e video che
documentano la cultura, le idee e le lotte dei movimenti anarchici e libertari,
tutti i giovedì dalle 17 alle 19.
Info: Gruppo “Albert Libertad” – F.A.I. Rimini, c.p. 123 –
succ. 3, 47900 Rimini
e mail: libertad_fai_rimini@yahoo.it
sito: www.homestead.com/fairimini/
• Civiltà Contadina – L’8 e il 9 maggio 2004, presso
la villa comunale di Crevenna – Erba (CO), Via Ugo Foscolo 23, si terrà
la II Giornata della Civiltà Contadina “in difesa della terra”,
parole, suoni, azioni, biodiversità in erba.
Durante le giornate sarà possibile lo scambio di sementi e piante (rigorosamente
biologiche).
Per informazioni: 339 6225872 (Lombardia ovest), 328 9279887 (Lombardia est),
www.civiltacontadina.it, thermidore@yahoo.com, rossi.gb@tin.it.
Editoria
• Editoria creativa casalinga – Libri, libroidi, libelli ribelli,
scartafacci, newsletter, testi immersi in manigolde manipolazioni cartacee,
fogli figli di foglie filibustiere. Il tutto prodotto da una Società
per Azioni felici che, abbandonate le tipografie, utilizza esclusivamente carta
e materiali riusati, recuperati e riciclati. Alcuni titoli: L’irresistibile
tenerezza della spazzatura, Economie conviviali, La ballata dei libri inutili,
Veloce romanzo comico di fantaletteratura, Arte catartica, Le insolite minestre.
Per ricevere la lista delle disponibilità, delle idee, dei progetti e
delle utopie concrete inviare francobollo a: Troglodita Tribe Castel San Venanzo
33 bis 62020 Serrapetrona MC. Cell 3397678553.
• Le scarpe dei suicidi – Sul numero 297 della rivista abbiamo
pubblicato la recensione del libro di Tobia Imperato e non ci siamo accorti
che mancavano i riferimenti per potere effettuare le richieste del volume.
Il volume si può richiedere all’indirizzo e-mail: dpia@autistici.org
oppure al numero telefonico: 334/3192323 (Mimmo) che appartengono al compagno
incaricato delle spedizioni.
• Elèuthera – È uscito il volume La pena disumana.
Esperienze e proposte radicali di riforma penale scritto da Ahmed Othmani con
Sophie Bessis, prefazione di Giuliano Pisapia.
È un libro scritto a quattro mani, in cui la Bessis un po’ racconta
Othmani e molto lo fa raccontare. E ne ha da raccontare, Othmani, dalla sua
personale esperienza carceraria (dieci anni nelle galere tunisine, per motivi
politici) al suo successivo impegno instancabile per i diritti civili. Ma, soprattutto,
il libro offre un quadro planetario e una riflessione generale sul tema che
“ossessiona” da oltre vent’anni Othmani, quello delle carceri
e più in generale del sistema giudiziario e penitenziario. Una riflessione
che ovviamente si nutre delle esperienze e dei progetti fatti dalla ONG (Penal
Reform International) da lui diretta che, soprattutto nel Terzo Mondo, cerca
di introdurre elementi di umanità e di diritto nell’universo chiuso
delle prigioni.
Il libro ha 144 pagine e costa 12,00 euro.
• Galzerano Editore – Giuseppe Galzerano, Angelo Sbardellotto.
Vita, attentato, carcere e morte dell’emigrante anarchico fucilato per
l’“intenzione” di uccidere Mussolini, 2003, pag. 560 con foto,
25,00 euro.
Virgilia D’Andrea, Torce nella notte, prefazione di Giuseppe Galzerano,
2003, pag. 272, 10,00 euro.
Per richieste versare l’importo (sconto del 30% per almeno
cinque copie a titolo) suI conto corrente postale n. 16551798
intestato a Giuseppe Galzerano – 84040 Casalvelino Scalo (Sa),
tel. e fax 0974/62028, e-mail:
giuseppe.galzerano@tiscalinet.
ambiente
Abitare i
luoghi
Insediamenti, tecnologia, paesaggio in un nuovo libro del nostro collaboratore Adriano Paolella.
Nessun paese del nostro pianeta ha programmato il suo futuro nei tempi lunghi.
Ciascuno di essi ha concentrato l’interesse nella definizione delle proprie
necessità in tempi ridotti; ciascuno di essi ha pensato autonomamente
ai propri bisogni alle proprie aspirazioni, al proprio posizionamento politico,
economico, militare.
Ogni tentativo di far convergere le azioni in una strategia comune si è
risolta nella ricerca di un minimo denominatore comune spesso così minimo
da rendere gli impegni più azioni di sensibilizzazione che effettive
modificazioni delle strutture produttive, insediative e relazionali.
La risoluzione della questione ambientale, di fatto, si scontra con la gestione
del pianeta per stati e per gli interessi che li sostengono. Vi sarebbe necessità
di grandi slanci comuni, di fraternità tra i popoli, di evidenziare le
similitudini, mentre l’attuale condizione si fonda sui dissidi di potenza
e di sostanza (non ci sarebbero paesi se non ci fossero contrasti tra i paesi),
si fonda sulla sopraffazione degli interessi di un soggetto a danno di altri.
I governi e i maggiori gruppi economici hanno grandi interessi finalizzati al
mantenimento ed all’incremento dei propri benefici, grandi anche per gli
effetti negativi che comportano nel mondo, ma irrisori di fronte alle sofferenze
ed al rischio che adducono all’intera popolazione del pianeta.
Sarebbe interessante verificare fino a che punto si voglia trasformare il pianeta
e quale sia l’immagine del mondo che scaturisce da queste trasformazioni.
Il più grande nemico di una qualunque ipotesi di riequilibrio ambientale
sembra essere la mancanza di percezione da parte dell’individuo degli
effetti delle azioni proprie e degli altri.
Ragionare su
tempi lunghi
La domanda che dovrebbe essere fatta è: fino a quanto? Fino a che velocità
debbono andare gli autoveicoli? Fino a che velocità debbono andare i
treni? Quanti spostamenti deve fare un individuo annualmente? Quante auto debbono
circolare? Quanta acqua può consumare un individuo? Quanti prodotti deve
acquisire? Quanto deve mangiare? E quindi, quanti metri quadrati di abitazione,
quanti elettrodomestici, quanta energia per ottenere il benessere?
Si dovrebbe sapere non quello che si attende per quest’anno o il successivo
ma qual è l’obiettivo a cui si tende per i prossimi 500 anni e
come si attua e quali trasformazioni comporta.
Quante strade servono? E ancora dopo quante altre? Quando finirà la necessità
di costruirle? Alla fine saranno sufficienti?
Serve il legno: perché, quanto? Tutto? Bene si dica: «il programma
mondiale è l’eliminazione di tutte le foreste e la loro trasformazione
in legno».
Solo evidenziando il programma futuro, che potrebbe essere mostruoso, si potrà
uscire dalla consuetudine consolidata di continue azioni di predazione e di
trasformazione ed eliminarne l’assuefazione.
La grande capacità del modello economico e sociale è produrre
modificazioni in maniera tale che nel momento della loro constatazione non possano
che sembrare plausibili e ragionevoli divenendo così già assimilate,
già esistenti di fatto.
Nelle città contemporanee il parlare di superamento dei limiti massimi
di inquinamento appare poco allarmante in quanto il cittadino è già
abituato all’idea che si possano superare dal momento che egli ha già
vissuto tale situazione ed è sopravvissuto.
È divenuto plausibile un mondo in cui l’aria sia piena di anidride
carbonica, l’acqua non sia potabile, il rumore sia assordante. È
diventato plausibile essere costretti a rinserrarsi in casa alcuni giorni all’anno
per il troppo caldo o perché si è superata la soglia di tollerabilità
dell’inquinamento e sentire messaggi che invitano i bambini e gli anziani
a non uscire nelle ore pomeridiane; è diventato plausibile comprarsi
l’acqua in bottiglie per dissetarsi, installare le finestre fonoassorbenti
per poter parlare in casa udendosi l’un l’altro.
Nonostante siano stati intaccati i beni primari, quali l’aria e l’acqua,
nonostante sia costretto a pagare per avere ciò che per tutti dovrebbe
essere un diritto, l’individuo «occidentale» si è già
assuefatto.
La coscienza che il pianeta sia un sistema complesso all’interno del quale
l’uomo opera provocando e subendo effetti, unita alla consapevolezza del
suo profondo stato di alterazione, ha motivato un crescente interesse nel ridurre
le conseguenze negative comportate dall’attività umana attraverso
il miglioramento dell’efficienza ambientale dei prodotti e delle trasformazioni.
Si è affiancata così, all’azione del conservare aree geografiche
o specie animali attraverso la loro diretta protezione, quella di definire pratiche
in grado di riequilibrare le interazioni tra uomo e ambiente al fine di ridurre
il carico di alterazione prodotto dal primo nel secondo.
Interazioni tra
uomo e ambiente
La conoscenza delle articolate interazioni esistenti tra uomo e ambiente ha
fatto maturare l’ipotesi che la soluzione dei problemi, per quanto semplice,
dovrà comunque considerare la complessità del sistema e superare
i limiti posti dall’agire settoriale.
Il paesaggio è la forma dell’ambiente in quanto sintesi percettiva
della qualità della natura, del peso dell’azione umana, della storia,
e quindi dei caratteri delle comunità insediate.
Esso è la risultante dell’insieme delle azioni umane, per quanto
disciplinate o incontrollate possano essere, e indica principalmente le modalità
di interloquire tra attività e sistemi naturali.
Le ragioni della dequalificazione del paesaggio, nella massima parte dei casi,
non sono collegate alle scelte formali ma agli interessi economici, alla tecnica
e alla cultura che le motivano e le sostengono. Quando si percepiscono negativamente
tali interventi di fatto si rifiutano i modelli cui essi si riferiscono.
È anche per questo che elementi tradizionali costruiti nell’ambito
di economie di sussistenza e non speculative, per il benessere della comunità
e non per il profitto di qualcuno, appaiono più frequentemente qualificare
il paesaggio.
La qualità del paesaggio migliora quando si ricomponga la relazione tra
la comunità e il sistema naturale. Il paesaggio è infatti anche
il prodotto delle modalità di vita di ciascuno.
La considerazione del paesaggio quale risultante del comporsi dell’azione
umana in un contesto naturale non implica la necessità di «costruire»
il paesaggio, ma di progettarlo sistemicamente mirando al miglioramento complessivo
della condizione paesistico-ambientale attraverso l’inibizione di fenomeni
degenerativi prodotti dallo sviluppo incontrollato.
Organicità
della scelta
Con queste premesse il progetto di un qualunque oggetto, manufatto, azione non
è mai chiuso all’interno di una specifica competenza o di un determinato
luogo ma spazia attraverso le diverse competenze settoriali a ricercare l’organicità
della scelta avendo come fine la risoluzione di un problema sistemico.
Il progetto si configura come un processo temporalmente esteso in cui le fasi
ideative, realizzative, manutentive e gestionali sono congruamente connesse,
si configura come il mezzo a disposizione della società per orientare,
per correggere gli eccessi, per valutare i risultati raggiungibili e per definire
le azioni da compiere.
L’ambito operativo della progettazione è di determinare soluzioni
capaci di trascendere gli interessi immediati dei singoli e di rispondere ai
doveri più stringenti verso comunità e ambiente con soluzioni
non contingenti ma che rimandano ad una correttezza dell’agire estesa
al di là dello specifico contesto disciplinare, procedurale, normativo.
L’ambiente all’interno del processo progettuale è variabile
inalienabile nella determinazione delle scelte; il mantenimento o il miglioramento
delle condizioni del sistema naturale diviene obiettivo prioritario di qualunque
progettazione e ciò implica la considerazione della società che
con esso interagisce e quindi recupera la funzione sociale del progetto medesimo.
Ma in realtà, nella società occidentale attuale, la felicità
della comunità viene perseguita attraverso l’idea di «progresso»,
ma non vi può essere felicità in una società in progresso.
La definizione di un nuovo strumento o di una nuova situazione, anche quando
finalizzato al benessere, prevede l’assimilazione del suo uso e ciò
avviene nel tempo.
Il progresso modifica e la modifica richiede uno sforzo di adattamento che inibisce
in quel momento la soddisfazione (vi sarà forse soddisfazione nel sapere
di poter raggiungere una situazione diversa in cui si spera di poter stare meglio).
Quindi la società in continuo progresso è insoddisfatta dello
stato precedente, ovvero quello che motiva la ragione della ricerca di soluzioni
in progresso, e in attesa di soddisfazioni dallo stato successivo e dunque è
in uno stato di perenne insoddisfazione.
Questa condizione è aggravata quando l’innovazione non integra,
ma sostituisce la soluzione precedente: la non conservazione è una dispersione
di valori e di identità.
Il progresso porta innovazioni finalizzate per gran parte al lucro; esse, non
sono richieste dalla collettività, né per la necessità
né per il piacere, ma insinuano nuovi desideri.
Il ritmo di quello che viene nominato progresso risponde per gran parte all’evoluzione
del mercato e dei profitti e non a quello degli uomini, risponde alla ragione
di dover guadagnare di più, alla ragione di dover muovere sempre più
le merci e questa frenesia struttura il tempo delle città che non corrisponde
al tempo degli individui.
Una società in progresso è una società infelice e le sue
città sono luoghi che rappresentano tale stato di costante alterazione
Riduzione degli
effetti negativi
Posto come obiettivo il miglioramento delle condizioni ambientali del pianeta
e la qualità di vita degli uomini, ci si attende che la ricerca scientifica
si muova contemporaneamente nella direzione di un aumento dell’efficienza
delle trasformazioni e delle azioni dell’uomo e di una riduzione degli
effetti negativi che esse comportano, e non nella direzione di una indiscriminata
corsa verso il «progresso».
Il benessere della popolazione, il miglioramento delle condizioni di vita e
la riduzione del degrado ambientale dovrebbero essere il motore primo della
ricerca scientifica e dell’evoluzione tecnica; ma la congruità
tra i percorsi di ricerca e gli obiettivi dichiarati non sembra una costante
riscontrabile.
Le soluzioni tecniche che non siano uno strumento sociale ed ambientale sono
solo mercato e quindi sono fortemente caratterizzate nella direzione di soddisfare
gli indotti e nevrotici bisogni di quei sette, ottocento milioni di individui
viziati che costituiscono il mercato iperconsumistico e ricco.
Ignorando il sistema e la sua complessità, la ricerca è sterile
e va verso direzioni i cui benefici non rispondono ad una effettiva domanda
diffusa e ciò fa emergere quanto sia indispensabile ricomporre le relazioni
tra ricerca, finalità e progetto
Adriano Paolella
(selezione dal volume curata da Zelinda Carloni)
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BFS edizioni, pagg.143,
Collana “Rovesciare il futuro”, euro 13,00
www.bfspisa.com
Adriano Paolella (Napoli 1955), docente di Tecnologia dell’Architettura presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, esperto di progettazione ambientale, è direttore di “Attenzione”, la rivista del WWF Italia. Prefazione di Carlo Blasi, introduzione Salvatore Dierna.
dossier A
Questo dossier,
anzi questa dossiera
Pubblichiamo nelle pagine seguenti (fino a pag. 39) un dossier, anzi –
come lo definisce la curatrice Francesca Palazzi Arduini,
nota anche come “Dada Knorr” – una dossiera.
Gli interventi di Monia Andreani, di Pia Covre e della stessa curatrice affrontano
tre temi:
la legge sulla procreazione assistita,
le proposte di regolamentazione della prostituzione,
i diritti dei gay.
----BOX----
Primo di maggio
Mi chiedo: cosa mi manca tanto oggi? e ripenso a quella frase di Shura, che
diceva: quando qualcuna manca a noi è come se rischiassimo di fare un
passo indietro lungo la linea che tendiamo unite verso il futuro.
A me oggi manca una compagna, amante della vita, ...una che quando ci si lascia,
dopo un momento di lotta, di confronto, c’è sempre qualche idea,
qualche progetto, che pare che basti annaffiarlo perché tra noi da solo
cresca, con lucide foglie.
Mi manca una femminista che quello che pensa fa, e c’è sempre per
le altre, nei luoghi delle donne, in moto, in treno, in macchina, volando! una
per la quale fare politica sia bello ma non sia uno scherzo, che l’anarchia
sia splendida ma non per sfregio al mondo, anzi per desiderio e dono, mi manca
una compagna con mani forti quando c’è da fare, una guerriera senza
confini e divise, ... e una buona forchetta per i nostri sughi, ed una voce
tosta per parlare, finalmente una donna!, il primo maggio.
Mi manca penso, insomma, una persona: la Marina, Marina Padovese.
“Dada” Knorr
Corpi in franchising
di Francesca “Dada” Knorr
Un parlamento composto in maggioranza da uomini ha… partorito una serie di precetti. Obiettivo la futura cancellazione delle norme della legge 194.
La questione della proprietà dello Stato sui nostri corpi si evidenzia
nei momenti in cui lo Stato interviene per legiferare su aspetti critici della
nostra vita (la nascita, la morte, la malattia); allora è possibile notare
una sinergia d’intenti tra le forze cattoliche e la destra politica, con
contorno di altri politici più o meno moralisti-opportunisti.
Così è successo con l’approvazione del disegno di legge
1514, «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»
(PMA); dopo un iter sul tema lungo decenni1, un parlamento composto in maggioranza
da uomini ha… partorito una serie di restrizioni e precetti che servano
anche da futuro punto d’appoggio per la cancellazione delle norme sull’aborto
contenute nella legge 194, la quale fino ad oggi ha permesso la drastica riduzione
degli aborti clandestini e quindi delle morti di donne2.
La proprietà sui corpi è ribadita in nome del «P(b)ene comune»,
e vieta l’uso della PMA (ma anche tra: tecniche di riproduzione assistita)
per la risoluzione di problemi non riconosciuti come tali dal moralismo cattolico.
Così per le tecniche di fecondazione assistita (ma il testo di legge
riporta il termine «procreazione»), la L. 1514 impedisce soluzioni
quali la fecondazione con seme di donatore al di fuori della coppia «riconosciuta»
tale (eterologo), e il ricorso alla fecondazione assistita da parte di soggetti
diversi da quelli riconosciuti «dignitosi» dalla morale cattolica.
La proprietà sui corpi del resto riguarda anche gli uomini, seppure in
modo differente. Venne ribadita quando in Italia si manifestò in maniera
organizzata il ricorso alla sterilizzazione maschile come tecnica anticoncezionale
rivoluzionaria, in quanto evitava alle donne il ricorso a farmaci spesso nocivi,
e dava simbolicamente ai maschi quella responsabilità che altrimenti
restava esclusivo carico per le donne.
La proprietà sui corpi è anche riaffermata dallo Stato nel momento
in cui si erogano servizi sanitari, ponendo sotto tutela grazie alla classe
medica la persona che deve «affidarsi» alla struttura di dominio,
quasi privandola della maggiore età.
La proprietà sui corpi, nello specifico dedicato al sesso ed alla riproduzione
è:
– proprietà sull’embrione e quindi sul corpo delle donne,
– proprietà sul seme maschile e quindi sul seme come «brand»,
marchio
– proprietà sulla sessualità e sulle scelte demografiche
della popolazione.
Usucapione
dell’embrione
Eh sì, sembra che sia la rivendicazione dell’usucapione la sola
possibilità rimasta a noi donne per mantenere il controllo del nostro
corpo. Già dal lavorio all’interno del Comitato nazionale di bioetica
(56 membri, di cui solo 1/4 donne), organo responsabile delle indicazioni fornite
al governo per legiferare su questi temi, si capiva che esisteva l’intenzione
di fare in modo di forzare il Comitato a presentare dell’embrione come
persona, sin dalla fecondazione. Anche se la manovra è solo in parte
riuscita, grazie alla dissociazione di alcuni membri del Comitato3, sta di fatto
che l’embrione è stato modellato e presentato come nuovo soggetto
portatore di diritti alla stregua di una persona a se stante, sin dal «concepimento».
L’interesse principale è quello alla creazione di un soggetto di
proprietà dello Stato all’interno del corpo delle donne, anzi,
alla rivendicazione da parte dello Stato della proprietà su cellule contenute
all’interno del corpo di una donna «fecondata», in quanto
bene sociale. Queste cellule, questo progetto di persona «non ancora nata»
che va sviluppandosi nel corpo femminile da un ovulo fecondato, vede il vanto
della proprietà dell’Uomo in quanto soggetto fecondatore e quindi
proprietario di diritti sul prodotto. In fondo si tratta di una mera questione
di proprietà, appunto, voluta dallo Stato come portavoce del maschile-retrivo,
sul corpo delle donne in quanto produttrici. Il maschio cattolico fatti i suoi
conti, insomma, vuole essere proprietario del brand, del marchio di fabbrica,
del capitale investito e pure della fabbrica. «Sin dal momento del concepimento»,
recitano infatti i testi sacri, sia quelli vaticani che quelli del parlamento:
dal momento che una donna è fecondata, è fottuta, scusate il termine.
Quel processo di costituzione di un nuovo patrimonio genetico chiamato embrione
è una persona, anzi un «uomo». E su questo «uomo»,
anche se costituito da poche cellule, nostre, noi donne non abbiamo più
diritto di scelta4.
Rapina, rapimento,
“rape”
Se il discorso sul «bene sociale» vi ha ricordato gli stupri cosiddetti
«etnici», non è colpa mia…
Lo stupro (rape) simbolico sul corpo delle donne, ammantato da verità
scientifica, ha avuto di recente, con la scoperta da parte del clero dell’esistenza
della genetica, un momento di estasi: si è scoperto che si poteva lavorare
sul concetto di «progetto», di persona in potenza, affermare cioè
che la persona umana esiste in quanto tale sin dall’unione dei due patrimoni
genetici nella fecondazione, e che quindi chiunque volesse interrompere questo
progetto di vita fosse un omicida. Mentre in precedenza i teorici antiabortisti
avevano da combattere contro le teorie sull’infusione dell’anima
che non li favoriva certamente e che anzi spesso, come nel caso di Tommaso d’Aquino
che teorizzava la «animazione» del nascituro tra il 30° o 40°
giorno, li contrastava. Non solo, la
S. Genetica è stata usata anche per sabotare l’uscita nelle farmacie
della cosiddetta «pillola del giorno dopo», definita «abortiva»
e verso la quale è stata invocata l’obiezione di coscienza da parte
di medici e farmacisti cattolici. I primi del resto, praticano già l’obiezione
all’aborto, e sono, congiuntamente alla mancanza di consultori funzionanti
nelle ASL, anche i principali sabotatori di ogni valida tecnica contraccettiva.
Se il clero è interessato alla scienza solo in quanto materiale manipolabile
per farne impasto da opinione, così nel momento in cui il papa proclamò
il dogma dell’immacolata concezione affermando quindi che la «vergine
Maria» era stata concepita «senza peccato», la genetica viene
abusata per dimostrare come sin dal concepimento (e quindi nel momento stesso
dell’atto sessuale etero) si presenti un essere umano in tutto portatore
di diritti, in questo modo l’atto sessuale eterosessuale è giustificato
in quanto produttore di «valore». Il problema resta comunque il
«peccato», quel concetto che fa sì che nella cultura pseudo-laica
italiana aleggi ancora come fiato sul collo di ogni relazione sessuale il sospetto
che non sia «sana», che non sia «dignitosa», che sia
«viziosa», in quanto non ha dato come risultato il prodotto-figlio
ma solo (!) piacere e amore4.
Mono-culture
In una società nella quale non vi è libertà di autogoverno
del proprio corpo, il gesto patriarcale del seminare fonda la proprietà
sul terreno. Ed è il patriarca, come medico, teologo, politico, che prescrive
alla donna le sensazioni da provare (concepimento), e le emozioni da sentire
(stupro: ricordate la discussione sulla legge nel 1996?), tramite le norme.
Esse regolano la proprietà sulla donna in quanto madre e moglie. Non
è prevista Serie A per i soggetti-donna che non sono né l’una
né l’altra, se non come conseguenza corollario a leggi e norme
volute fortemente dalle donne (vedi ad es. Il Nuovo Diritto di famiglia, 1975).
Le donne «sole», le donne «omosessuali», le donne senza
una relazione «duratura» (come se il matrimonio la garantisse, sic!),
non sono interessanti per i maschi che fanno le leggi.
Chi semina decide: ed in un parlamento nel quale vi sono, alla Camera, 79 donne
su 592 persone (al Senato 27 su 320), è chiaro chi decide.
Passando al seme, valore-virile: esso è tutelato dallo Stato come simbolo.
Solo grazie alla L. 194/1978 la sterilizzazione volontaria ha cessato di essere
considerata reato, e non senza problemi. Una battaglia senza esclusione di colpi
fu posta in atto per impedire l’attuazione con mezzi pubblici della sterilizzazione
volontaria. Ricordiamo il processo allo sfortunato ginecologo-simbolo della
sterilizzazione, Giorgio Conciani: l’articolo del codice penale (art.
583) nel quale era incluso il divieto di sterilizzarsi, benché abrogato
dalla legge 194, non bastò ad evitargli la condanna per aver praticato
la sterilizzazione volontaria. Sostenuto dall’ASSTER e dall’AIED,
che aveva già presentato centinaia di autodenunce di sterilizzazione,
venne assolto nel 1982 ma rimesso sotto accusa nel 1985 dalla Corte d’Appello.
Solo successivamente si ebbero le prime sentenze favorevoli.
Il «primato» del seme maschile è tale che mai i legislatori
hanno preso in considerazione la possibilità di sterilità maschile
– vedi la tranquillità con cui è stato introdotto dalla
l.1514 il divieto di inseminazione «eterologa». E per questo è
stato addirittura prescritto l’impianto obbligatorio nell’utero
femminile degli embrioni «creati»6.
La donna-banca
Bianca
I soggetti maschi bianchi di origine italiana che si sentono minacciati nella
loro supremazia economica e culturale, si aspettano dalle «loro donne»
che producano bambini in misura maggiore della concorrenza. Il problema demografico
sventolato da tanti cattolici, la «crescita zero», va visto in questo
senso: le donne fanno pochi figli, pochi cioè in rapporto a quelli prodotti…
dalla concorrenza. Quindi anche questo problema nulla ha a che fare con la sopravvivenza
dell’umanità, delle culture, ecc. ecc.: è un falso problema,
semmai accorpato ad un discorso di convenienza economica del surplus di bambini
rispetto agli anziani, minori consumatori di beni.
La donna-banca è un soggetto privilegiato della sperimentazione e della
medicalizzazione. Il suo corpo viene sperimentato in tutta la serie di combinazioni
ormonali adatte a sedarlo-regolarlo-fertilizzarlo, e non c’è mai
la sicurezza della non nocività di ciò. Questa è un’altra
faccia della proprietà della Terra santa.
Il «progetto», l’occupazione, la trattativa, riguardano l’embrione-uomo,
il cittadino-bambino, il futuro della LORO salute, la presenza della LORO dignità,
la LORO cittadinanza, e non la salute delle donne. Non è previsto che
la donna-banca possa intuire, sentire, sapere di sé, del suo corpo, della
sua salute: il meglio per lei lo sa la classe medica, che prescrive. La donna-banca
possiede un contenitore che non è più «utile»? Va
buttato: gli ultimi dati? Quasi 70mila isterectomie nel 1998. 7
I signori
degli anelli
Così come i produttori di norme, anche i produttori di «senso»
si attivano per quel che riguarda la definizione di «unione» tra
due persone. Il clero fa del mercato dei matrimoni una delle sue maggiori fonti
di prestigio, che difende strenuamente. Già con il referendum sul divorzio
(1974) gli oltranzisti avevano tentato la negazione di una realtà di
fatto, cioè che le persone spesso non trovano giusto vivere sempre indissolubilmente
unite. Fallito il tentativo Attak, continua la celebrazione di matrimoni in
pompa magna, eventi che quasi sempre sono finalizzati ad esprimere uno status
sociale e a finire in grandi abbuffate, al di là del tentativo clericale
di predicare sulle finalità dell’unione dei due sposi, che comunque
trova buon gioco.
«La fecondità o procreazione dovrà ritrovarsi come l’espressione
di un amore VERO delle due persone…»
(E. Sgreccia), non si sente già un po’ di incertezza, di astio,
in questo incipit che richiama al dovere coniugale di procreare senza sosta?
Ed i signori degli anelli quanto veleno stanno sputando sulla legittimazione
delle «unioni di fatto» anche tra persone dello stesso sesso: ancor
più di ogni matrimonio civile, questi minano la loro jus primae noctis,
l’esclusiva su di una certificazione ritenuta centrale nella vita di molti.
E l’attuale governo estromette dall’Osservatorio nazionale sulla
Famiglia Chiara Saraceno e Marzio Barbagli, rei d’avere compiuto studi
sulle famiglie gay e lesbiche!
Il mercato
degli infetti
Sabotando ogni tecnica contraccettiva che non sia quella da essi stessi giudicata
«naturale» (ebbene sì, abbiamo la scopata biologica senza
l’impiego di mezzi chimici…), cioè il metodo Billings basato
sull’osservazione dei periodi fertili, i catto-sessuomani fanno continuo
sabotaggio di tutte le pratiche contraccettive più efficaci, ed anche
della ricerca su di esse (ed anche in questa per ora hanno il primato i maschi,
che guarda caso però somministrano a donne). Ma il fatto tragico ed evidente
è che il Vaticano è la prima organizzazione nel mondo ad opporsi
all’uso del profilattico, e dunque anche la prima organizzazione mondiale
responsabile del mancato impiego di questo mezzo per la protezione da malattie
a trasmissione sessuale, prima fra tutti l’AIDS, che miete milioni di
morti. Il problema: solo nell’Africa subsahariana l’UNAIDS stima
nel 2003 due milioni e mezzo di morti.
Non occorre citare la grave pressione antiprofilattico sviluppata dalla Chiesa
Cattolica durante la conferenza internazionale sulla demografia a Il Cairo (1994),
basta citare la conferenza internazionale sull’AIDS svoltasi in Sudafrica
nel 2000, dalla quale si levarono alte le grida di denuncia contro le manovre
anti-profilattico del Vaticano. Oltre a pregiudizi maschilisti ovviamente tramutati
in «tradizione», e alla povertà, è la Chiesa cattolica
l’organizzazione umanitaria che, mentre vuol farsi carico del mercato
degli infetti, fa in modo che il profilattico non venga usato ed anzi venga
presentato (e qui la pseudoscienza del clero è favola) come inefficace,
insicuro, e ovviamente simbolo di vizio ecc., facendo leva anche sulla disinformazione
e la povertà delle popolazioni.
Chi semina
vento…
Di fronte a considerazioni che sottolineano i pregiudizi e la cecità,
diciamo pure spirituale, che reggono il governo dei corpi, quale agire è
opportuno da parte delle donne? Ci si aspettava, al momento in cui scrivo, inizi
marzo 2004, una grande manifestazione nazionale di tutte le donne laiche contro
l’approvata legge sulla PMA. Ma le donne laiche che hanno gli strumenti
per indire una grande manifestazione nazionale, donne dei partiti di sinistra
e dei sindacati, detentrici di potere organizzativo, sono impegnate in una eterna
campagna elettorale, legate quindi alle esigenze di trattativa sia coi maschi
dei loro partiti che con il centro cattolico di questo paese.
Non possono rischiare un flop, né il lancio di slogan che dividerebbero
ancor più l’elettorato in due parti: laico e femminista da laico
ma cattolico.
Ancora una volta, mentre i meccanismi della rappresentanza politica si divorano
all’interno dei «palazzi» (con scarso rilievo esterno, come
dice il ministro Gasparri, anche le proteste «in Aula» delle poche
deputate), la politica e la cultura aspettano città per città,
situazione per situazione, che noi donne si abbia la forza per organizzare diversamente
la realtà. Cosa decidono, da chi sono composti i comitati di bioetica
nelle ASL? Dove e come funzionano i consultori? Quali strumenti abbiamo per
migliorare la nostra salute? Nei Comuni nei quali abitiamo, come è gestita
l’informazione sulla sessualità nelle scuole? Abbiamo il compito
di continuare a sviluppare la voglia e l’etica del far politica femminista,
senza la quale la nostra tempesta non potrà essere risposta a chi semina
vento.
Francesca “Dada” Knorr
note:
1 Proposte di divieto
di inseminazione artificiale, connesse con il moralismo cattolico contrario
al “disordine” portato nella coppia dall’uso di seme diverso
da quello del partner sposato, iniziano nel 1958. Nel 1983 nasce in Italia la
prima bambina ottenuta con fecondazione in vitro. Nel 1985 viene istituita una
Commissione governativa. Le proposte di legge si susseguono all’insegna
del moralismo (Degan, 1988), ricordiamo però una proposta (C.3490, 1988)
che vedeva come firmatario anche Rutelli, ora pro 1514, e che consentiva invece
l’accesso alla fecondazione assistita anche alle donne nubili! Del 1988
il famoso testo unificato presentato da Marida Bolognesi, che venne poi ulteriormente
storpiato.
In Italia, già regolamentati dalla circolare Degan (1985) esistono 328
centri attivi ove è possibile praticare la PMA, e dove per ora (perché
la legge poi non lo consentirà) sono crioconservati oltre 24.000 embrioni.
2 La diffusione delle tecniche contraccettive sta facendo sì che ogni
anno diminuisca il numero di aborti effettuati in Italia. “Il trend evidenzia
una netta progressiva diminuzione dell’IVG dal 1980” – ISTAT,
2000. Modelli matematici stimavano il numero di aborti clandestini praticati
in Italia prima del 1978 tra i 200.000 e i… 600.000. Attualmente si stima
la presenza di IVG effettuate al di fuori di strutture sanitarie, soprattutto
nell’Italia meridionale e peninsulare, di circa 50.000 casi, con tendenza
alla diminuzione. La crescita, in alcune strutture, del numero delle IVG, e
la diminuzione in altre è spesso dovuta alla “migrazione”
di donne da altri centri dove l’IVG non è praticata da medici antiabortisti.
3 “Il Comitato è pervenuto unanimemente a riconoscere il dovere
morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i
criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui
umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone, e ciò
a prescindere dal fatto che all’embrione venga attribuita sin dall’inizio
con certezza la caratteristica di persona nel suo senso tecnicamente filosofico,
…”, documento “Identità e statuto dell’embrione
umano”, datato giugno 1996, del Comitato naz. di bioetica. Vedi per le
dissociazioni il Manifesto di Bioetica laica, giugno 1996, Sole 24 Ore, firmato
Flamigni, Massarenti, Mori, Petroni.
4 Dal sito del Movimento per la vita, citiamo un comunicato stampa di Carlo
Casini dell’aprile 2003, a proposito della legge 1514: “…è
chiaro che sarebbe nettamente migliore una legge che vietasse ogni forma di
fecondazione artificiale.”, dice il difensore della vita, affermando poi
che comunque la legge sarà utile perché sarà “più
facile essere creduti nelle scuole e nella cultura in generale quando si afferma
che la vita comincia dal concepimento”.
5 “La sessualità umana ha una struttura di carattere complementare
e si presenta come capacità di apertura di tutto l’essere alla
coniugalità…”. Cosa vuole dirci monsignor Sgreccia, membro
del comitato naz. di Bioetica, con questa affermazione tratta dal suo manuale
di bioetica? Che ogni costruzione individuale, sociale, culturale della sessualità
deve basarsi obbligatoriamente sulla fisiologia, da lui interpretata, che ritiene
non morali le forme di erotismo: 1) sul proprio stesso corpo, 2) tra corpi non
complementari fisiologicamente secondo la sua visione 3) tra corpi che non possano
mettere in atto “naturalmente” un concepimento. E. Sgreccia, Bioetica.
Manuale per medici e biologi, Milano, 1986.
6 La legge 1514 rende obbligatorio l’impianto degli embrioni ottenuti
con PMA. Informata, su sua richiesta, dello stato di salute dell’embrione,
la donna può decidere successivamente un aborto terapeutico (finché
gli sarà concesso dalla L.194…). Non solo, sono escluse dall’accesso
dalla PMA coppie non sterili, però portatrici di geni a rischio di generare
malformazioni anche gravi, che volessero servirsi della PMA per monitorare l’embrione
prima di decidere di mettere al mondo un figlio gravemente leso. No comment.
7 Citiamo di nuovo il volume a cura di Maria Rosa dalla Costa, Isterectomia,
il problema sociale di un abuso contro le donne, ed. F. Angeli, 1998.
Una chimera fatta legge
di Monia Andreani 1
Note sulla procreazione medicalmente assistita.
«La sessualità viene allora accuratamente rinchiusa. Mette casa.
La famiglia coniugale la confisca e l’assorbe tutta nella serietà
della funzione riproduttiva. La coppia, legittima e procreatrice, detta legge;
s’impone come modello, rende efficace la norma, detiene la verità,
conserva il diritto di parlare riservandosi la prerogativa del segreto. (...)
E ciò che è sterile, se insiste e si mostra troppo si trasforma
in anormale: ne riceverà lo statuto e dovrà pagarne le sanzioni»
(2).
Michel Foucault
Noialtri vittoriani. Così inizia la storia della sessualità di
Michel Foucault, e noi vittoriani lo siamo ritornati davvero, per mano dei legislatori,
di un parlamento che ha approvato dopo un iter lunghissimo, la legge sulla procreazione
medicalmente assistita nel dicembre del 2003. La visione del mondo secondo cui
la riproduzione è procreazione ovvero creazione in funzione di qualcos’altro
sia dal punto di vista simbolico sia dal punto di vista fisico e corporeo, per
cui i figli si fanno in virtù di qualcosa che trascende il consorzio
umano, una visione del mondo rigidamente religiosa e creazionista, ha determinato
le linee della nuova legge, a partire dal nome: «Norme in materia di procreazione
assistita».
Le tecniche di fecondazione assistita dal 1978 ad oggi hanno aiutato qualche
centinaia di migliaia di bambini a nascere, figli di persone con problemi di
sterilità appartenenti al primo mondo. Queste pratiche sono comunque
regolate da limitazioni tecniche e scientifiche e da disposizioni deontologiche
per cui è lecito domandarsi il perché di tanto accanimento per
far approvare una legge che, invece di controllare con maggiore cura l’operato
dei centri che si occupano di questi interventi in Italia (così come
accade in Francia dove c’è una legge dal 1994), va a colpire direttamente
i soggetti che intendono accedere alle tecniche di fecondazione assistita. Da
indagini dell’Istituto Superiore di Sanità3 emerge che la situazione
nel nostro paese non era fuori controllo ma anzi che i rapporti con i Centri
erano stati istituiti già da anni. Anzi, una discussa circolare del Ministro
della Sanità on. Degan (1985) che restringeva l’accesso alle tecniche
omologhe solo alle strutture pubbliche mentre lasciava la possibilità
di quelle eterologhe alle strutture private, circolare non ovunque recepita
a livello territoriale, già forniva maggiore opportunità al libero
mercato penalizzando il servizio pubblico. Ora si apre alla migliore offerta
sul libero mercato dell’Europa unita visto che l’Italia nazionalista
e purista intende attenersi alla omologia, e anche alla sterilità in
alcuni casi, della famiglia eterosessuale. Non crediamo che la fecondazione
artificiale sia una passeggiata che ciascuno vuole compiere amabilmente cercando
un figlio su misura. L’invasività delle tecniche sul corpo della
donna e sulla psicologia della donna e del suo compagno sono sottovalutate,
o solamente ignorate nel nostro immaginario per cui il bello è che sembra
che si possa avere un figlio su ordinazione, mentre su ordinazione non c’è
niente se non una trafila estenuante e la speranza di riuscire ad avere una
gravidanza anche dopo anni di attesa. Perché questa legge?
Spiegazioni
nascoste
Cerchiamo di analizzare, decostruire alcuni punti nevralgici del testo approvato
per poter risalire a spiegazioni nascoste, quasi sepolte sotto l’apparente
naturalità della piana e sterile sintassi del legislatore. Tra le finalità
della legge vi è quella di assicurare diritti a tutti i «soggetti
coinvolti, compreso il concepito». Nell’articolo 5 in cui si esplicano
i «Requisiti soggettivi» di chi potrà accedere alle tecniche
si parla espressamente e solo di «coppie di maggiorenni di sesso diverso,
coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».
Chi sono i soggetti a cui questa legge assicura i diritti? Un soggetto che non
è un soggetto individuale, ma una coppia, da un lato e dall’altro
un soggetto che non è tale, che non ha una sua materialità, un
soggetto che non parla, che non si muove, che solo dispute teologiche possono
decidere quando diviene soggetto, se ora o tra mezz’ora o quattro giorni.
Questa legge detta le disposizioni di diritto in cui devono avvenire una serie
di operazioni molto materiali, che hanno a che fare con i corpi fisici e con
la fisiologia e la psicologia di soggetti capaci giuridicamente e dotati di
diritti civili, ma che al momento di sottoporsi a queste tecniche per lo Stato
italiano spariscono nella loro individualità e materialità in
favore di qualcosa che trascende la loro vita individuale e la loro libera scelta.
Se la sterilità è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità come malattia che colpisce uomini e donne, perché
la possibilità di fare figli con aiuto esterno viene data alla coppia
e non ai singoli affetti da questa malattia, ed è la coppia che deve
essere soggetto titolare di diritto in questo ambito di intervento medico? Infatti
sia uomini che donne non sono quasi mai nominati nel testo, in particolare la
donna – sul corpo della quale avviene la quasi totalità delle pratiche
connesse alla riproduzione assistita – non viene mai presa in considerazione
prima del Capo VI dedicato alle «Misure di tutela dell’embrione»
il cui articolo 14 tratta dei «Limiti all’applicazione delle tecniche
sugli embrioni». A questo punto risultava difficile non nominare la donna
e allora i parchi legislatori si limitano a prenderla in considerazione, ma
come? Le tecniche sono rivolte ad un corpo dal quale occorre prendere gli ovociti,
dopo averlo sottoposto a dovute stimolazioni ormonali, ma gli ovociti che devono
essere fecondati non possono essere più di tre perché poi gli
embrioni non siano più di tre, ma non tutti gli ovociti sono uguali e
adatti alla fecondazione, come non tutte le cellule che si aggregano in vitro
sono di qualità tale da sviluppare un embrione. Inoltre non tutti i cosiddetti
embrioni sono di buona qualità per annidarsi nell’utero (la percentuale
di successo è al 24% ora che la legge non è ancora applicata,
tenderà probabilmente a scendere viste le limitazioni). I vincoli posti
da questa legge sono sulla gestione del corpo della donna che viene scomposto,
destrutturato in organi atti alla riproduzione, mentre di lei come soggetto
– che è il corpo di cui si tratta – il testo tratta solo
per chiarire che il trasferimento contemporaneo degli embrioni nell’utero
può essere bloccato solo a causa di «grave e documentata causa
di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile
al momento della fecondazione». Ma se la fecondazione avviene esternamente
al corpo della donna e in vitro, quando dovrebbe essere previsto il suo stato
di salute? E si può parlare di salute in relazione ad una persona che
viene bombardata da cicli ormonali e che è esasperata psicologicamente
dalla lunga trafila in cui si esplica la medicalizzazione riproduttiva del suo
corpo?
Corpo
oggettivato
Chi deve documentare lo stato di salute della donna è il medico. Ed è
il medico che deve decidere della salute della donna per il reimpianto degli
embrioni, che non possono essere crioconservati. Tutto si gioca su un corpo
che è oggettivato, che non ha la dignità di un soggetto che può
mantenere la libertà di scelta, quella che gli è propria in altri
settori della vita. Ma perché?
È lecito a questo proposito non scandalizzarsi o reclinare il capo ma
cercare una spiegazione che si trova nella secolare espressione della biopolitica,
di quella serie di provvedimenti che vengono a rispondere alla necessità
di avere ed esercitare potere sulla gestione della vita individuale e sociale.
Il concetto di biopolitica è stato sviluppato da Michel Foucault e precisamente
spiega il cambiamento di prospettiva epistemologica che avviene nel XVIII secolo
quando al potere sovrano che decide quando il suddito deve morire, che ha il
privilegio di dare la morte, si sostituisce una organizzazione di politiche
atte alla gestione della vita sociale ma anche individuale (in questo periodo
si organizzano gli ospedali e nasce la scientificità della classificazione,
della distribuzione dei soggetti, della loro impiegabilità disciplinata
nel sociale). Lo Stato borghese ha avuto un grande ruolo nello sviluppo delle
politiche rivolte alla gestione della vita, e la questione della riproduzione
della vita è sempre stata un punto focale di questo settore della politica.
Non limitiamoci a pensare che questa legge sia solo uno degli esempi di biopolitica
mettendoci il cuore in pace, infatti si farebbe un errore di miopia. Occorre
invece fare uno sforzo per approfondire la questione e chiedersi perché
proprio un settore così marginale come la fecondazione assistita meriti
per il nostro parlamento una legge così, invece di regolamenti specifici
più tecnici e per gli addetti ai lavori, proprio quelli che mancano a
questo testo troppo generalizzato per alcuni aspetti e molto rigido per altri.
Infatti la posta in gioco non è tanto la fecondazione assistita quanto
il dare una chiara indicazione di disciplina dei corpi, di negazione della soggettività
politica e giuridica dei cittadini e di mettere ancora una volta sotto scacco
le donne e le loro libertà. La potenzialità di creazione delle
donne è ancora il cruccio di tutte le ramificazioni del patriarcato,
da quelle cattoliche integraliste che mirano a sottomettere la soggettività
della donna alla potenza creatrice di una divinità che trascende l’umana
vita, a quelle scientifico-mediche che ancora non hanno la possibilità
di accaparrare dal corpo della donna, fatto a pezzi dall’immaginario e
dalla pratica medica, il donare la vita.
Teratologia
scientifica
Una espressione privilegiata della biopolitica è stata sin dal XVIII
secolo la creazione di un potere/sapere medico e giuridico che investe il corpo
femminile riproduttivo per patologizzarlo. Quindi se da un lato alla donna comincia
ad essere riconosciuto il legame indissolubile con il feto (messo in discussione
dalla supposta neutralità del feto rispetto al corpo della madre delle
prospettive scientifiche precedenti) dall’altro tutta l’organizzazione
dell’ostetricia e della letteratura scientifica e divulgativa fatta di
divieti e imperativi e consigli alla donna durante la gravidanza fa trasparire
il ruolo nascosto della teratologia scientifica. Se la donna aveva una funzione
attiva nella riproduzione allora era lei che doveva essere disciplinata perché
la possibilità che generasse mostri riposava nella sua indisciplina corporea
e immaginativa5. La donna che rimaneva impressionata in negativo o che immaginava
in positivo qualcosa di mostruoso/estraneo, conduceva emozioni che potevano
creare un mostro6. A questi discorsi si è intrecciato da sempre il discorso
razzista per cui è su questo corpo che occorre porre una normazione tale
che da questo corpo non nasca un bambino impuro, non omologo. Tutte le politiche
razziste e nazionaliste si sono occupate in maniera scientifica di costruire
apparati culturali e giuridici per tutelare la donna come il contenitore di
una discendenza pura fino a giungere alle espressioni più violente della
biopolitica nelle recenti guerre balcaniche e del continente africano fatte
di stupri e di considerazione simbolica del corpo della donna come di una terra,
di un confine da difendere o di cui impossessarsi. Ma non occorre uscire dal
territorio italiano per vedere che dal punto di vista giuridico il corpo della
donna è inteso in senso oggettivante. Infatti nel nostro ordinamento
permane la concezione della libertà dell’habeas corpus come senso
del possedere, dell’avere proprietà di un corpo che si esprime
nella mancanza di limitazioni (libertà negativa) e che potenzialmente
può promuovere la libertà positiva (autodeterminazione). Nel nostro
ordinamento non è ancora stata iscritta l’inviolabilità
del corpo della donna, perché la questione dell’autodeterminazione
cozza con quella del possedere/detenere. In particolare per quello che concerne
il corpo della donna occorre stabilire la proprietà della sua potenzialità
riproduttiva anzi procreativa. Non è funzionale alla biopolitica infatti
che la donna abbia la possibilità di vivere il proprio corpo, di essere
il proprio corpo in un senso che supera quello della proprietà e del
detenere, e che questo sia riconosciuto come autodeterminazione, perché
la donna permane un contenitore per altro, e su questo contenitore è
necessario ribadire la proprietà.
Altro problema da non sottovalutare è quello della sterilità che
può colpire gli individui e che in quanto malattia può essere
aggirata con l’escamotage della fecondazione assistita. La sessualità
simbolicamente sterile, quella che non è finalizzata alla procreazione
e al ‘donna partorirai con dolore’ di biblica e dogmatica memoria,
è sempre stata un problema per il biopotere nell’occidente cristiano
e in particolare nella tradizione cattolica. Anche per questo è stata
approvata una legge che nasconde – restringendo le possibilità
di accesso alle tecniche – i corpi sterili fisiologicamente e quelli sterili
simbolicamente (lesbiche, donne sole, omosessuali), una legge che classifica,
che divide e che orienta il nuovo corso della biopolitica italiana.
Monia Andreani
note:
1 Dottoranda di Ricerca in Antropologia Filosofica e Fondamenti delle Scienze
presso l’Università degli Studi di Urbino, studiosa di filosofia
politica e di pensiero femminista, fa parte del gruppo di lavoro sulle questioni
di genere della FdCA (Federazione dei Comunisti Anarchici, NdR).
2 La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 9 – 10.
3 Cfr. Indagine sull’attività di procreazione medicalmente assistita
in Italia, Rapporti ISTISAN n. 03/14, Istituto Superiore di Sanità, 2003,
www.iss.it/pubblicazioni
4 IL significato di omologo ed eterologo viene del tutto stravolto nel testo
della legge sulla procreazione assistita (ancora DDL. 1514). Infatti il significato
di eterologo è relativo a qualcosa che appartiene ad altra specie, mentre
questa legge, con malcelato intento razzista, interpreta come eterologo un gamete
maschile o femminile esterno alla coppia che intende accedere alle tecniche
di fecondazione assistita.
5 Cfr. Rosi Braidotti, Madri, mostri e macchine, Roma, Manifestolibri, 1996.
6 Echi di queste paure infatti si trovano nella specificazione del legislatore
che vieta espressamente: «la fecondazione di un gamete umano con un gamete
di specie diversa e la produzione di ibridi o di chimere». Dalla singolarità
immaginifica di questa affermazione deriva il titolo di questo articolo.
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Come si fa un comitato nazionale di Bioetica. Un esempio.
Membri:
Giuseppe Provettazzo (ordinario di diritto dell’embrione), Giovanni Spiritazzo
(ordinario di ginecologia), Maria Bonadomo (associata), Aldo Incapazzo (ordinario
diritto fallimentare), Mario Strazzo (ordinario medicina e chirurgia), Paolo
Paolazzo (biblista), Maria Annuncionomo (associata), Giuseppe Invidiazzo (giurista),
Giovanni Consigliazzo (rappr. Chiese monoteiste unite), Joaquin Navarro Fals
(rappr. vaticano), Bugia Annunciata (rappr. mezzi di com. di massa), Luca Verbazzo
(ordinario filosofia teoretica), Maria Monacomo (rappr. mov. femminili), Giuseppe
Azzo (ordinario filosofia del diritto).
Presidente:
Giuseppe Polo Abortazzo (psicologo)
Raccomandazioni del costituito nuovo Comitato nazionale di bioetica.
In accordo con le maggiori società di produzione di salse per alimentazione
umana, il Comitato, dopo la costituzione di un gruppo di lavoro congiunto e
il confronto, durato circa due mesi, sul tema “quali diete per il rispetto
della persona in embrione”, ritiene di poter fornire le indicazioni necessarie
al Governo per la stesura degli opportuni provvedimenti di legge atti a preservare
l’embrione umano da attacchi gastronomici contrari al mantenimento del
suo naturale equilibrio.
In questi mesi molte sono state le tappe durante le quali ci si è dovuti
prodigare per l’appianamento delle ovvie differenze di visione onto-teologica-gastronomica.
Si vedrà come, in appendice, si sia dato conto del parere dei prof. Paolazzo
e Fals, i quali ritengono che sia assolutamente opportuno che l’uomo possessore
di un embrione porti la donna portatrice sana non solo ai ristoranti consigliati
ma anche a farsi benedire con una frequenza di almeno due volte al mese.
Vi sono stati poi pareri divergenti circa la gravidanza di donne sole, sfornite
di tutela; il prof. Verbazzo ha già reso nota la sua opinione, non condivisa
dagli altri, secondo la quale la donna in questione sarebbe libera di assaggiare
panini alla maionese tonna
ta in luoghi pubblici anche durante la vera e propria gestazione, quando cioè
l’embrione abbia già assaporato le salse consigliate, ma solo nel
caso il soggetto non voglia o non debba essere sottoposto a taglio cesareo.
[La differenza tra bisogno organico e volontà non è stata presa
in considerazione, trattandosi di donne sole, il cui utero, parimenti a donne
omosessuali, non era stato preso in considerazione come buono (fruttifero dello
Stato, v. relazione Incapazzo)].
Azzo e Consigliazzo poi, hanno attirato l’attenzione sull’opportunità
di proteggere comunque la donna da assaporamenti impropri e pericolosi per la
futura persona-embrione (crauti, chili, tabasco, senape, mostarda e similari),
e questo, a loro parere, sin dal compimento dei dieci anni della donna futura-gestante.
Essi hanno raccomandato l’opportunità, per un miglior sviluppo
degli embrioni italiani ed il rispetto della loro personalità, di far
sì che la naturale relazione uomo-donna a loro avviso necessaria per
la fecondazione, venga altresì sviluppata all’interno di ambienti
parrocchiali.
La problematica del contratto tradizionale di matrimonio per soggetti-donne
non ancora adolescenti, usanza tradizionale che, ripristinata, garantirebbe
in effetti un’alimentazione più corretta dell’embrione e
del suo contenitore naturale sin dalla stria primitiva, questa problematica
dunque, verrà comunque presa in considerazione attraverso la formazione
di un nuovo gruppo di lavoro, composto da Provettazzo, Annuncionomo, Invidiazzo,
e Incapazzo, quest’ultimo si occuperà di relazionare in particolare
sul problema della proprietà da parte dell’embrione di beni mobili
e immobili appartenenti al suo clan di origine (legge Berluschembrioni).
Strategie
di
resistenze
di Pia Covre
Le riflessioni del Comitato per i Diritti Civili
delle Prostitute nell’esposizione
della sua portavoce.
Certo, «resistenze» – al Plurale – può restituire
al nostro presente la complessità di un movimento che l’agiografia
ufficiale ha oggettivamente appiattito e impoverito negli ultimi decenni ma,
più obiettivamente, è per me, portavoce del Comitato per i Diritti
Civili delle Prostitute, l’occasione per spiegare che cosa il nostro Comitato
si è proposto sin dalla sua nascita nell’82. In questa ricostruzione
ritroviamo tutte le categorie del pensiero politico occidentale e le luci e
le ombre di una pratica politica che per molti versi è stata ed è
di resistenza. A viverla, qualche volta a promuoverla, è quella moltitudine
di donne prostitute alle quali ci sentiamo vicine.
Realtà prostituzionale
composita
Noi prostitute dobbiamo ogni giorno misurarci con lo Stato, meglio con i suoi
apparati ideologici e di repressione: leggi, circolari che interpretano le leggi,
codici e codicilli e poi prefetti, sindaci, assessori, poliziotti, preti, giornalisti,
pubblica opinione. Un politico di destra chiama questo mondo il teatrino della
politica salvo poi candidarsi a suo regista e burattinaio. Più correttamente
e più seriamente il filosofo Debord ha parlato in tempi non sospetti
di «società dello spettacolo», metafora viva per dire il
pieno dispiegarsi della società borghese, il suo pervenire a maturità
sul piano simbolico, economico e politico.
Questo stato, è utile ribadirlo, è liberaldemocratico, rappresentativo
e di diritto ed è nato dall’unità d’azione fra tutte
le forze antifasciste, indipendentemente dalla loro base di classe.
È stata una peculiarità della nostra resistenza, infatti, l’aver
messo in secondo piano l’aspetto di classe della lotta contro il nazifascismo
per esaltare invece l’aspetto nazionale.
Questa osservazione ci spinge a definire la qualità del soggetto in cui
ci riconosciamo. È l’unico modo per evitare i tanti luoghi comuni
sulla prostituzione, soprattutto la sua riduzione entro lo spazio della marginalizzazione
e della devianza.
Qui da noi in Italia la realtà prostituzionale è composita: ci
sono le prostitute autoctone il cui profilo di sex worker le avvicina alle nuove
figure del lavoro postfordista e ci sono le prostitute immigrate, tendenzialmente
in calo le prime (coprono a stento il 5% della prostituzione di strada), in
costante aumento le seconde (25.000). Immigrate e migranti, sempre clandestine,
giovani e giovanissime, per queste ultime l’Europa e l’Italia si
presentano come una fortezza inespugnabile con le sue frontiere di ferro e di
cristallo e la sua legislazione speciale (il sistema Schengen e la legge 40)
che abolisce di fatto il diritto d’asilo.
Per costoro la categoria di sex worker è riduttiva perché altre
variabili entrano in gioco, in primis la questione dei diritti.
Quando la prostituta è la donna migrante, non è sufficiente l’analisi
del contenuto del suo lavoro, del suo spazio, del suo tempo, della forma della
sua retribuzione, della sua identità professionale, del mercato entro
cui viene a collocarsi.
Sono anni che il nostro Comitato tenta di proporre un diverso paradigma concettuale
per dislocare l’analisi sul terreno minato del rapporto con lo Stato.
Le osservazioni che seguono sono punti irrinunciabili della nostra riflessione
Fitta rete
di controllo
La prostituta migrante non trova rappresentazione alcuna nello Stato: bollata
come clandestina, per lo Stato e la sua amministrazione non esiste. Questa condizione
non contraddice la sua realtà lavorativa: è sulla strada, esposta
e visibile e contata come tale. L’appartenenza alla società –
appartenenza che non è inclusione – deriva alla prostituta immigrante
dalla sua esposizione. La sua appartenenza suscita inquietudine e preoccupazione.
È questo il motivo per cui viene ricondotta entro una fitta rete di controllo
e di repressione. È la stessa situazione in cui sono immersi i profughi,
gli apolidi, tutti gli immigrati extraeuropei ai quali non vengono riconosciuti
i diritti degli autoctoni e per i quali vale una sola legge: essere fuori legge.
• Extra legem: questa condizione è prodotta e voluta dal potere
sovrano. È lo Stato a decidere la messa al bando di questa figura di
migrante per la quale solo la categoria di “nuda vita” è
adeguata. Infatti la vita senza diritti è nuda perché solamente
il godimento dei diritti e in – primo luogo quello di cittadinanza –
offre la garanzia di inclusione in una qualche comunità entro cui la
vita prende forma. Parlandoci dello schiavo, Aristotele sottolinea che un suo
tratto peculiare è il difetto di parola, la sua incapacità o impossibilità
a dire e a comunicare. Nell’agorà non ci sono schiavi ma solo cittadini
ai quali il potere sovrano riconosce intelletto e logos. Lo schiavo invece è
muto, irrapresentabile ed invisibile: semplice corpo. Il corpo, cui la nuda
vita è consegnata è così sottratto alla presa del diritto
e reso disponibile ad ogni forma di violenza, di manipolazione, di mutilazione,
di segregazione, di negazione. Corpo sacro, dunque, nel significato che Agamben
assegna a questo aggettivo. L’insignificanza della nuda vita procede dalla
sanzione legale dell’esclusione.
• Paradossalmente nella situazione di solitudine e di abiezione in cui
versa, la prostituta migrante finisce per consegnarsi al potere sovrano alla
sua convocazione, alla sua sentenza; si tratta di una disponibilità senza
contropartita: denuncia il tuo sfruttatore, abbandona la strada, redimiti e
si vedrà.
• È possibile sciogliere diversamente questo nodo gordiano di nuda
vita e sovranità? È pensabile liberare la prostituta migrante
aprendole una qualche via al di là del suo abbandono alla legge? A quale
pensiero politico fare appello per cercare ed eventualmente trovare una risposta
che sia all’altezza della situazione? La grande costellazione concettuale
che da Aristotele arriva fino a Marx non è granché utile al nostro
scopo perché finalizzata a teorizzare un potere sovrano che decide del
bando, dell’esclusione come dell’inclusione. Per questo motivo le
teorie politiche classiche sono teorie della relazione: suddito-Stato; società
civile-Stato; classe-Stato. Noi invece avvertiamo l’urgenza di un pensiero
impolitico che pensi ad una politica sciolta da ogni bando e di una pratica
politica di rottura della relazione. All’abbandono alla legge che, come
chiarisce il racconto di Kafka, è sempre un esporsi impotente davanti
ad essa, vorremo opporre un diverso e più salutare contegno: la defezione,
l’esodo.
• Negli anni ‘70 l’Italia è stato il laboratorio eccezionale
di pratiche politiche sovversive spesso incomunicabili tra loro. Da una parte
la galassia variegata dei gruppi di estrema sinistra che ha cercato il rapporto
con lo Stato in un’ottica neoleninista e neoresitenziale di confronto-scontro
diretto fino al suo esito terroristico; dall’altra parte il movimento
delle donne, decentrato privo di leaders e di autorità centrali. Non
ammaliato dal fascino del potere sovrano né afflitto dal risentimento
e dall’odio nei suoi confronti, il movimento delle donne è stato
capace di strappargli divorzio e aborto assistito nonché un generale
avanzamento sul terreno della legislazione sul lavoro. La sua pratica ha evitato
il furore giacobino della P38 come l’opportunismo parlamentare, ossia
la tentazione a costituirsi in rappresentanza politica di interessi sociali.
La nostra tesi è che in quegli anni difficili e fecondi solo il movimento
delle donne ha riproposto in termini nuovi la questione della democrazia: come
far sì che lo Stato si limiti a sanzionare l’universalità
di ciò che un’esperienza propriamente politica (nella fattispecie
quella delle donne) rende possibile, senza che questa esperienza miri a sostituirsi
allo Stato. La distanza tra questa pratica politica e lo Stato è comunque
incolmabile: la democrazia misura tale distanza.
Carattere
di universalità
Il nostro Comitato si batte, dobbiamo ricordarlo, per i diritti civili delle
donne che si prostituiscono, immigrate ed autoctone. Pensiamo di restare fedeli
alla lotta delle donne restituendo alla categoria di legge l’imprescindibile
carattere di universalità che le spetta. Non crediamo che una legge sia
tale solo perché chi la promulga o la convalida ha una forza più
o meno costituzionalmente legittimata per renderla cogente. La legge sul divorzio,
quella sull’aborto, lo statuto dei lavoratori e delle lavoratrici hanno
avuto un carattere di universalità tale da trascendere l’autorità
di questo o quell’esecutivo. La stessa valutazione diamo della legge Merlin
che ha cancellato la vergogna di Stato delle case chiuse. Oggi grazie a questa
legge le autoctone che scelgono di prostituirsi possono farlo, almeno formalmente.
Il nostro Comitato difende questo spazio di libertà contro i tentativi
ricorrenti di azzerare i diritti acquisiti. Ma bisogna andare oltre: la depenalizzazione
deve essere autentica, tale da garantire il libero scambio di sesso con denaro
quando i soggetti sono consenzienti. E poi tutti devono essere uguali di fronte
la legge e la legge deve essere uguale per tutti. Le donne migranti che scelgono
di prostituirsi e scelgono di lavorare nel nostro paese devono poterlo fare
con gli stessi diritti delle italiane.
Pia Covre
bibliografia
Debord Guy, Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco Edizioni,
1990
Agamben Giorgio, Homo Sacer, Einaudi, Torino 1995
Aristotele, Politica, editori Laterza, 1996
Ravera C., Breve storia del movimento femminile in Italia, Editori Riuniti,
Roma 1978
Braidotti Rosy, Dissonanze. Le donne e la filosofa contemporanea, La Tartaruga,
Milano 1994
Derive Approdi Settantasette, Castelvecchi, Roma 1997
Kafka F. Il Processo, Thema Edizioni, 1992
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Giungla del sesso in Parlamento
Le più recenti proposte di legge sulla prostituzione
Non ci si muove facilmente nell’intricata selva di proposte per la regolamentazione
dell’esercizio della prostituzione in Italia. Si parte da una situazione
di fatto: l’applicazione della cosiddetta legge Merlin (20 febbraio 1958,
n.75) che ha chiuso le case di tolleranza vietando l’esercizio della prostituzione
in luoghi chiusi, e che penalizza le prostitute che lavorano all’aperto
ritenendo illegale l’adescamento; la legge Merlin ha comunque impedito
l’introduzione di misure come la schedatura obbligatoria e il trattamento
sanitario obbligatorio, che invece rispuntano fuori in recenti proposte di legge.
Tralasciamo la descrizione della famosa proposta Pittelli (Forza Italia), approvata
dal Consiglio dei ministri (dic. 2002) e quindi giunta alla discussione alla
Camera (Commissione giustizia) come A/C 3826 a firma Fini, Bossi, Prestigiacomo,
Castelli, Pisanu, Tremonti, della quale parla Pia Covre nel suo articolo.
Consideriamo invece le proposte precedenti, fonte di informazioni sulla mentalità
dei “nostri” parlamentari. La protezione della salute del cliente,
soggetto principe, è uno dei punti centrali di molte proposte di legge:
la prostituta viene presentata come portatrice di pericolosità sociale
in quanto possibile veicolo di infezione per clienti forse inesperti, frettolosi,
o cretini. Inutile dire quindi che sono le proposte del centrodestra italiano
che insistono maggiormente su questo punto: la proposta C.2359 (Lega Nord) prevedeva
la schedatura sanitaria obbligatoria per le persone sulle quali esistesse “il
fondato motivo che esercitino la prostituzione”. Il trattamento sanitario
qui si prevede obbligatorio anche per il cliente ma solo se colto “sulla
strada”.
La clausola del TSO è comune a molte proposte di legge, come questa,
che prevedono la liceità dell’esercizio della prostituzione ma
solo in luoghi chiusi e “non esposti al pubblico”. Così la
proposta Mussolini C.407 prevede l’esercizio della prostituzione in luoghi
privati, e con schedatura obbligatoria. Anche la proposta Buontempo (AN) C.1136
prevedeva che le persone esercitanti la prostituzione tenessero con diligenza
una scheda sanitaria, esigibile dal cliente, ove fossero annotati tutti gli
accertamenti previsti a scadenza regolare dalle autorità sanitarie. Non
solo, la pena prevista per chi non accetti il TSO, cioè nel caso gli
venisse riconosciuta una malattia sessuale trasmissibile, è altissima:
sino a sei anni! Più di quella prevista per chi non regolarizza il “mestiere”.
Segno che il ...diritto alla salute del cliente viene considerata da AN un bene
tra i più preziosi da preservare, al contrario di altri diritti. Non
è previsto ad esempio che i soggetti possano pubblicizzare la propria
attività, e che possano esercitare in luoghi neanche “visibili”.
La prostituzione deve essere: invisibile, pulita, numerata...e deve pagare le
tasse (come “lavoratori autonomi”).
Quanto alla libertà di lavorare di questi “lavoratori autonomi”,
al chiuso e nella invisibilità di case (“condomini d’accordo”,
come anche previsto nell’ultimo DDL), molti progetti prevedono comunque
che vengano pagate le tasse sul reddito.... La proposta Buontempo prevedeva
il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, la proposta Mussolini prevedeva
la pubblicità solo a mezzo stampa (?). Riguardo alla proibizione del
“passeggio”, segnaliamo la verbosità del progetto Foti, C.1355
(AN), che vietava “qualsiasi atto di libertinaggio prodromico alla prostituzione”.
Anche la proposta Valpiana vieta nella sua proposta forme di pubblicità
“contrarie alla pubblica decenza” (?).
I politici nostrani insomma vogliono che un soggetto paghi le tasse ma viva
recluso. Una specie di via di mezzo ipocrita con altre leggi più permissive
che hanno introdotto la figura di “sex worker”, in Olanda e Germania.
Insomma, comunque la si rigiri, la storia di quest’ultimo disegno di legge
sulla prostituzione è affiancata da progetti di legge innumerevoli e
fatti a misura dei clienti di varia appartenenza politica. Tra questi clienti
anche le associazioni del terzo settore che, secondo vari progetti, avrebbero
dovuto occuparsi di recuperare i soggetti in questione: si fa dal “settore
no profit” della proposta C.386 Volontè-Buttiglione (UDC), alle
associazioni del volontariato sociale del progetto Belillo C.2385. È
ovvio che anche il “recupero” va gestito come un mercato possibile
fonte di guadagno. In un caso, il parlamentare si spinge sino a chiedere che
vengano rimosse la “cause di carattere psicologico” che inducono
le persone a prostituirsi (C.1614, Soda, DS).
Solo in alcuni casi i progetti citano, come lecitamente presente nei momenti
in cui le comunità locali dovranno decidere ad esempio dei luoghi della
prostituzione, le prostitute: il C.222 presentato da L. Zanella, la proposta
Turco-Finocchiaro C.2150, la proposta K. Belillo C.2385, proposte quindi le
cui relatrici sono donne.
Per quel che riguarda la definizione di “prostituzione”, abbiamo
in questo caso anche una interessante “nuance” da segnalare tra
le proposte C.2358 (relatrice la Valpiana) e C.2150 (Turco-Finocchiaro): la
prima definisce: “fornire prestazioni sessuali dietro pagamento di un
corrispettivo in denaro”, la seconda “mettere a disposizione di
terze persone ed a fine di lucro il proprio corpo per il compimento di atti
sessuali”. A voi un parere.
F.P.A.
Il «vizio» controllato
di Pia Covre
In merito al testo:
Disposizione in materia di prostituzione.
Decisamente si intuisce che la stesura si è avvalsa di due orientamenti,
fra loro nettamente contrapposti, l’orientamento proibizionista e quello
regolamentista.
Il relatore1, non volendo scontentare nessuno, ha soddisfatto i proibizionisti
comminando svariati anni di galera alle prostitute, ma naturalmente senza vietare
la prostituzione.
A tal proposito sottolineiamo che in nessun paese dell’Unione Europea
si manda in galera chi lavora fuori dai luoghi consentiti. Tale violazione viene
sanzionata con multe, come qui si vorrebbe fare con i clienti, infatti. Nella
proposta non si trattano in maniera paritaria le prostitute e i loro clienti.
(Immagino che in commissione come in parlamento i maschi “potenziali clienti”
siano in maggioranza).
Gli articoli 2, 3, 5 (che prevedono la registrazione di polizia e sanitaria,
gli obblighi fiscali) sono fortemente regolamentisti. Ma non s’ispirano
al neoregolamentarismo che alcuni paesi dell’Unione stanno applicando
nell’intento di riconoscere i diritti delle sex worker, bensì al
modello che ispirava le leggi negli anni a cavallo fra il XVIII e XIX secolo.
Per dirla in breve lo Stato garantiva che “il vizio” si potesse
esercitare ma in maniera controllata, soprattutto per evitare la diffusione
delle malattie sessuali di cui le prostitute venivano considerate il veicolo
principale.
Cosa si può dire di una simile regolamentazione oltre a notare che sembra
ispirata dal Regolamento Cavour (1860) che a sua volta riproponeva i regolamenti
napoleonici. Già nella legge del 27 luglio 1905 si separava il regime
di polizia da quello sanitario nel rispetto della libertà personale delle
meretrici. Tale Regolamento iscritto nel TU delle leggi sanitarie prevedeva
oltre alle cure gratuite l’abolizione delle misure coatte2.
Si dovranno veramente ampliare le carceri femminili se faranno una simile legge,
se poi si sommassero più infrazioni, art. 1 comma 5 con art.2 comma 5
e/o 7 (ognuna di queste violazioni prevede tre anni di carcere) che si farà?
Una vita in galera?
Dobbiamo appellarci alla OMS per quanto concerne i controlli sanitari obbligatori,
ci sono delle direttive che li biasimano. Inoltre svariati studi ne dimostrano
l’inefficacia.
Art.1 comma 3 (di fatto autorizzano piccole strutture/bordelli privati, salvo
poi considerarli pubblici per le norme igienico/sanitarie). Cosa intendono “fuori
dei casi di agevolazione, favoreggiamento…” il favoreggiamento non
deve essere punito, già nella legge attuale ciò si è dimostrato
un errore che favorisce l’isolamento e lo sfruttamento.
Solo ammende,
non galera
Se proprio ci tengono a colpire lo sfruttamento dicano qualcosa sui profitti
di chi affitta i locali che devono essere equi. E poi cosa ci diranno dei luoghi
dove si troveranno le private abitazioni? Si sono dimenticati questo particolare!
Commi 5.6.7 (divieto di prostituirsi in strada e in luoghi pubblici pena tre
anni di carcere per le prostitute e solo ammenda per i clienti) dovrebbero essere
reati solo amministrativi e le punizioni dovrebbero essere solo ammende. Tenete
conto che chi andrà per strada saranno in gran parte le più sfigate
che non hanno mezzi e possibilità di avere un alloggio per esercitare.
(Perfino nella Svezia proibizionista non arrestano e non multano le prostitute
ma solo i clienti)
Nel merito dell’art. 2. 2b non mi pare che si possa ammettere che la prostituzione
si può fare in locali privati e poi si debba certificarne l’idoneità,
inoltre se le prostitute volessero andare a fare la prestazione a casa dei clienti?
Una potrebbe farlo sempre senza avere un proprio locale.
Art. 5, se intendono imporre un onere previdenziale di fatto in base ai principi
dell’ordinamento giuridico trattano il fatto alla stregua di una professione.
Allora la questione cambia, si deve parlare di lavoro e di diritti.
Art. 6 (divieto di pubblicità), dover pagare le tasse (come prevede l’art.
5) come si concilia con il fatto che per guadagnare bisogna farsi conoscere?
Per pubblicità si intendono anche le pagine gialle e gli elenchi telefonici?
Questi non sono interdetti neppure ai notai!
Art. 7 , eccoci arrivati, tutto quello che non dice questa legge lo diranno
loro!!! I 4 Ministri: lavoro e affari sociali, interno e salute.
Non si deve consentire che liquidino la questione demandando ai Ministri di
fare le regole, dentro questo schema potrebbero fare qualunque cosa. Anche demandare
alle Regioni di decidere quello che vogliono. Forse non sanno come venir fuori
da tanta complicazione e lasciano ad altri di decidere.
La proposta non ha nemmeno un comma che garantisca la persona prostituta nella
sua dignità e nel rispetto dei diritti civili, dovremmo credere che chi
è disposto a varare una simile legge dà per scontato tale rispetto?
Cosa è una legge quadro? Delega al Governo? Se è così sarà
un metodo poco democratico di fare.
Predisporremo una strategia per opporci a un simile disegno!
Pia Covre
per il Comitato per i diritti delle Prostitute
note:
1 Disposizioni in materia di prostituzione, proposta di legge del relatore
in Commissione Giustizia della Camera.
2 In Emilio Franzina, Casini di guerra. Paolo Gaspari Editore, 1999 Udine, p.
166 e p.167
Gayrights and copyrights
di Francesca “Dada” Knorr
Sulle «Considerazioni circa i
progetti di riconoscimento legale
delle unioni tra persone omosessuali»
del Cardinal Ratzinger & Co.
«Educare il target a non concepire nient’altro al di fuori della fede nel prodotto, favorire le unioni, le abitudini, i comportamenti ‘leciti’ fra persone che condividono questa fede, è una strategia che va ben oltre le tecniche di feedback e di misurazione della consumer satisfaction. Di più: le precede. Inoltre, la Chiesa è formata dai suoi stessi consumatori e quindi auto-determina le proprie esigenze di consumo e le soddisfa in tempo reale. Nessuna marca è mai arrivata a tanto».
Bruno Ballardini, Gesù lava più bianco. Ovvero: come la Chiesa inventò il marketing, ed. minimumfax, Roma, 2000.
Un documento, «Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale
delle unioni tra persone omosessuali», prodotto dalla Congregazione per
la dottrina della fede nel luglio dello scorso anno, tiene fede a quanto citato
sopra in maniera così disperatamente ostinata da risultare meschina,
volgare. Si tratta di difendere il Mercato da attacchi che svilirebbero la natura
unica del prodotto venduto, il matrimonio non-plus-ultra cattolico, quello indissolubile,
… già intaccato dalla realtà dei fatti, e da quel mattacchione
di Milingo che ne ha, diciamo, un po’ appesantito i tratti ultraterreni.
Si tratta anzi di convincere i fedeli, e «di illuminare l’attività
degli uomini politici cattolici», che l’altro prodotto ( la legalizzazione
delle unioni di fatto) è assolutamente nocivo!
Ma se la etero-sessualità ritenuta dalla Congregazione «quella
VERA», va fatta ad ogni costo primeggiare, congiuntamente al RITO di formalizzazione
di fronte alla società della coppia, quali pericoli la minacciano? Praticamente
nessuno, visto che l’introduzione del rito civile e del divorzio non impedisce
ai cattolici di sposarsi in Chiesa. Sono le squallide, volgari, infime esigenze
di mercato che obbligano il clero a voler sabotare ad ogni costo la possibilità
per gli/le altre a volersi sposare o quantomeno a voler legalizzare la propria
unione civilmente. Civilmente e non in Chiesa.
Evidentemente però, visti i toni, la Chiesa cattolica intende difendere
un presunto controllo totale del parco-clienti, apponendo anche un marchio di
fabbrica sul matrimonio, un brevetto tale che nessuno possa osare nemmeno nominare
le parole «unione di una coppia», nonostante, per il suo significato,
una «coppia» sia già «unita» nei fatti!
Questa multinazionale vuole il monopolio, e vende peggio della Microsoft!
Sappiamo tutti benissimo infatti, come nel testo che gira da anni in internet
su «da Fidanzata 1.6 a Moglie 1.0», che le unioni tra le persone,
per loro stessa natura, non sono sempre solide e imperiture; è quindi
lo stesso modello venduto dalla Chiesa, il –sacro vincolo del matrimonio-,
che fa acqua da tutte le parti, pur «essendo stato fondato dal Creatore».
Meglio non attardarsi qui a considerazioni critiche sulla strumentalizzazione
dei testi (in questo caso il Libro della Genesi) da parte della Chiesa, che
ormai, pur di dimostrare le proprie affermazioni, non fa più distinzione
tra citazioni dalla Bibbia, da Encicliche, da commentari, depliant, ecc....
rivestendo tutto di un’aura di sacralità e infallibilità.
Il Verbo.
Zoccolo
molle
Ma in questo caso soprattutto il Verbo segregare, perché la legalizzazione
delle unioni di fatto, e Ratzinger si riferisce a quelle tra persone dello stesso
sesso, è presentata come un gesto delinquenziale, e la richiesta universale
(ma sì, usiamo un termine loro) di queste coppie ad avere dei diritti
civili «è un fenomeno inquietante» che minerebbe... le basi
stesse della società! Come una realtà che già esiste possa
minare, se legalizzata, le basi stesse della società, è un mistero,…
a meno che... a meno che non si intenda per «basi della società»
quello zoccolo molle di eterosessuali sessuofobi che preferiscono pensare che,
in fondo, se il loro matrimonio è uno schifo, però per fortuna
è benedetto dalla Chiesa, che lo ritiene sacro e virtuoso... non come
«quelli là».
Razzismo, incitamento a gesti di intolleranza: il politico cattolico «deve
opporsi in tutti i modi possibili» anche a eventuali leggi già
in vigore che diano finalmente la possibilità alle persone di unirsi
civilmente per vedere riconosciuta la scelta fatta (come coniugi, compagni di
vita, conviventi o semplicemente persone legate da un reciproco contratto).
La Chiesa si spinge sino a definire assenti addirittura gli «elementi
antropologici» dalle unioni omosessuali, elementi che possano caratterizzare
queste unioni come famiglie. Antropologa, sessuologa, portavoce di dio: nei
suoi prestidigitatori ruoli la Congregazione per la Dottrina della fede si spinge
con agio all’infamare, a definire «i compiti per i quali il matrimonio
e la famiglia meritano un riconoscimento specifico e qualificato» incentrandoli
sulla procreazione, e affermando come conseguenza che «le unioni omosessuali
non svolgono neppure in senso analogico e remoto» questi compiti.
Insomma, un documento scritto con l’acqua alla gola e quindi urlato, su
di un problema che è tale solo per chi ha ancora ansie da copyright.
Chi vive più a contatto con la realtà e l’umanità
delle persone, può solo considerare queste calunnie con indignazione
e, collateralmente, pietà (ma sì, usiamo un termine loro).
Francesca “Dada” Knorr
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I PACS in pillole:
PACS, proposta di legge “Patto civile di solidarietà e unione
di fatto” presentata dall’onorevole Franco Grillini.
Il 14 febbraio 2004 si è tenuta a Roma, a Piazza Farnese, promossa dall’Arcigay
nazionale, la manifestazione “Kiss2PACS”, volta a sensibilizzare
l’opinione pubblica, ad informare e a sostenere la proposta di legge in
questione. (www.unpacsavanti.it)
A chi è rivolta la proposta di legge:
– patto civile di solidarietà è l’accordo tra due
persone di sesso diverso o dello stesso sesso, volto a regolare i rapporti personali
e patrimoniali relativi alla loro vita in comune.
– unione di fatto è la convivenza stabile e continuativa tra due
persone, di sesso diverso o dello stesso sesso, che “conducono una vita
di coppia.”
Le possibilità offerte dai PACS:
– aiuto mutuo e materiale garantito a vicenda dai due contraenti
– diritto all’assistenza ospedaliera e carceraria in quanto familiari
– decisione sanitarie e successive alla morte spettanti di diritto all’altro/a
contraente il PACS
– subentro nel contratto di locazione
– diritto all’eredità
– diritto del partner straniero ad acquisire la cittadinanza
– diritto ad usufruire delle agevolazioni previdenziali, fiscali, ed assicurative
in quanto appartenente al nucleo familiare.
– diritto al lavoro (disoccupazione, pubblici concorsi, equiparazione
a coppia sposata)
– diritto ad astenersi dal deporre in caso di imputazione dell’altro
contraente
– iscrizione all’anagrafe come famiglia e diritto alla casa
- possibilità di sciogliere il patto mediante atto scritto anche non
congiunto.
spazio-dibattito
Violenza
e nonviolenza
di Paolo Soragna
Un contributo al
dibattito in corso in
gran parte della sinistra.
Questo scritto si propone di costituire un piccolo contributo al dibattito
che si sta svolgendo in gran parte della sinistra radicale ed alternativa sui
temi della violenza e della non violenza. Esso si presenta solamente come il
punto di vista, la semplice opinione (anche per quanto riguarda le definizioni
adottate), di una individualità che si riconosce, anche se non acriticamente,
nel poderoso e variegato movimento che in questi anni ha posto all’ordine
del giorno la costruzione di un mondo diverso dall’attuale, basato sulla
libertà, la fratellanza, l’uguaglianza nelle relazioni tra tutti
gli esseri umani e tra questi e la natura.
Non ha l’ambizione di essere “la Verità”, ma spera
di comunicare altri spunti di riflessione e arricchire, quindi, il dibattito
già in corso, così utile specialmente nell’attuale realtà
che sembra dominata dal binomio guerra – terrorismo.
Significato della
parola «violenza»
La «violenza» è il «violare» qualcosa o qualcuno,
imporre, cioè, il proprio volere a chi, senza questa imposizione, non
lo accetterebbe.
Tale imposizione e costrizione può avvenire mediante la forza fisica
(costrizione fisica) o anche mediante altri mezzi, per esempio il ricatto, la
menzogna, la promessa di un «premio» che poi, una volta ottenuto
lo scopo che ci si era prefissati, non si elargirà più.
Lo scopo della violenza è quello di sottomettere l’altro, di utilizzarlo
per i propri
fini senza il suo consenso che deriva da
una mente pienamente cosciente, di tra
sformarne la personalità, di opprimerlo, per soddisfare determinati interessi.
Da ciò deriva che tutte le forme di potere sono violenza, proprio perché
chi esercita il potere impedisce a chi il potere lo subisce di esprimere in
pienezza la sua personalità, di essere, quindi, libero.
Per esempio, il potere statale (potere politico) impedisce ai cittadini di autogestirsi
senza delegare ad altri la cura dei propri interessi e costringe i cittadini
stessi ad obbedire a delle leggi che possono essere, nel migliore dei casi,
una ripetizione distorta di principi morali che ciascuno può trovare
in se stesso, senza essere costretto a seguirli, oppure codici che possono arrivare
addirittura alla schiavitù dei cittadini, come nel caso della leva militare
e del servizio civile obbligatori.
Un altro esempio è il potere religioso (potere morale), che promette
una vita beata futura a chi segue acriticamente i sui dogmi e la sua gerarchia,
distorcendo anche gli insegnamenti di colui al quale si afferma di ispirarsi,
per esempio Gesù Cristo nel caso della gerarchia ecclesiastica.
Infine, si può ricordare il potere capitalista (potere economico), che
costringe le persone a vivere per lavorare, soddisfacendo in primo luogo tale
potere, e non il contrario, impedendo a chi lavora di essere se stesso anche
nel lavoro, non valorizzando la sua opera che, essendo opera di essere umano,
non ha prezzo. Il lavoratore che non si piega a tale potere rischia di essere
ancor più emarginato, vessato, sopraffatto (mobbing) dal potere stesso.
Si può, quindi, affermare che la violenza è presente dovunque
esiste una gerarchia nella quale «chi sta sopra» opprime «chi
sta sotto» impedendogli di essere pienamente se stesso.
Nel vasto panorama dei casi di violenza esiste anche una violenza che «a
fin di bene» è esercitata da genitori nei confronti dei figli,
quando, ad esempio, si costringe un figlio ad intraprendere la stessa professione
del padre, mentre il figlio, avendo una personalità sua propria, può
avere aspirazioni e interessi diversi.
È indubbio, comunque, che la violenza più eclatante è quella
fisica, che offende la persona nella sua fisicità, nel suo corpo: per
esempio l’aggressione, il ferimento, la tortura, lo stupro, ecc., fino
ad arrivare al culmine della violenza fisica: l’uccisione, di cui la pena
di morte costituisce la sua versione statale, cioè legale.
D’altra parte, si può notare che tutte le leggi dello Stato, ed
anche tutto il suo apparato repressivo, nel corso della storia non hanno mai
impedito e sradicato la violenza e, quindi, il suo culmine, l’uccisione.
Significato della
parola «anarchia»
«Anarchia» significa assenza di governo.
Possiamo includere nella parola «governo» tutte le forme di potere
esercitato dall’uomo sull’uomo. Anarchia significa, conseguentemente,
forma di convivenza sociale basata sull’assenza di ogni forma di potere
e, quindi, di oppressione che impedisce il libero sviluppo delle capacità
e, quindi, della personalità di ogni individuo: in altre parole, assenza
di violenza, completa libertà.
Ciò presuppone che i rapporti sociali (rapporti tra gli individui) nell’anarchia
siano basati sul riconoscimento reciproco delle diversità e l’azione
comune degli individui sia fondata su una coincidenza di interessi, valori,
caratteri, ecc., che può essere anche non permanente: il libero accordo,
su cui inevitabilmente si basano i rapporti personali in una società
anarchica, presuppone il suo scioglimento ogni qualvolta uno dei contraenti
non si riconosce più nell’accordo stesso.
Si può obbiettare che l’anarchia non è altro che una condizione
di disordine della società, perché ogni individuo per sua natura
è portato a salvaguardare il suo proprio interesse e non quello della
collettività. Ma questo è innanzitutto il tratto peculiare delle
nostre società, dove chi ha il potere lo esercita principalmente per
i propri interessi e impedisce a chi il potere lo subisce di avere altri interessi
e aspirazioni. Viceversa, lasciando le varie individualità libere dai
lacci del potere esercitato o subito, si dà ad esse l’opportunità
di potenziare le proprie capacità con la condivisione delle personalità
che si attua con la libera unione ed associazione.
Confronto tra
«violenza» ed «anarchia»
Da tutto ciò si deduce che i termini «violenza» ed «anarchia»
sono tra loro antitetici e, quindi, inconciliabili, perché l’una
presuppone la mancanza dell’altra e viceversa.
Per esempio, la violenza del potere statale (politico) trova la sua antitesi
nel libero accordo tra le individualità. In questo caso, le decisioni
prese a maggioranza in condizioni di democrazia diretta, cioè con la
partecipazione di tutte le individualità, non vincolano in nessun modo
chi non accetta tali decisioni, che può sperimentale da solo, se vuole,
se il suo punto di vista è giusto o si scontra contraddittoriamente con
la realtà oggettiva.
Anche il potere religioso (morale) esercitato da una gerarchia verrebbe meno
in una società anarchica, in quanto ciascuna individualità potrebbe
adorare Dio «in Spirito e Verità» (Giovanni 4, 23) nella
sua infinita purezza, senza condizionamenti, unendosi con autenticità
con chi condivide questa sua fede e vivendo in accordo con i principi morali
che trova in se stesso.
Infine, il potere capitalista (economico) sfruttatore verrebbe sostituito dall’associazione
dei produttori legati tra loro e con i consumatori (di prodotti materiali, servizi,
prodotti spirituali, cioè artistici, ecc.) da vincoli non gerarchici
e autoritari, ma ispirati al principio del mutuo appoggio, dove ciascuno sia
realmente se stesso, cioè possa esprimere veramente e liberamente le
proprie capacità, eventualmente con l’aiuto degli altri.
In ogni caso, la violenza si basa su rapporti gerarchici, cioè autoritari,
incentrati sulla mancanza di un rispetto pieno della personalità di ciascuno,
mentre l’anarchia, al contrario, cancellando ogni forma di oppressione
e sfruttamento, si basa sul pieno, cioè libero, sviluppo di ciascuna
persona nel rispetto e nel concorso di ogni individualità.
Se la violenza è in palese contraddizione con l’anarchia, occorre,
tuttavia, distinguere tra l’uso della violenza e l’utilizzo della
forza, anche fisica, per impedire o rimuovere un atto di violenza, cioè
per legittima difesa.
Penso che chiunque sia di animo nobile non possa non reagire alla vista di un’azione
di violenza che si stia commettendo nei confronti di una persona inerme e faccia
di tutto per respingere con energia gli aggressori.
Anche se per neutralizzare i violenti si dovesse non intenzionalmente ucciderli,
ciò non costituirebbe un atto di violenza.
Anche l’utilizzo della forza da parte degli oppressi per rimuovere una
struttura violenta, cioè una qualsiasi forma di potere, non costituirebbe
di per sé un’azione di violenza, ma di legittima difesa della propria
libertà.
La forza si trasforma in violenza quando si spinge al di là di tutto
ciò, quando cioè si trasforma da difesa a offesa della dignità
della persona che si neutralizza, cioè in vendetta.
Tuttavia, l’uso della forza per rimuovere una situazione di ingiustizia
non va confuso con le guerre promosse da governi per scopi «umanitari»,
per portare cioè «la democrazia» in paesi retti da dittature.
Lascio al lettore giudicare se bombardamenti che colpiscono gente innocente
ed inerme costituiscano un buon esempio di utilizzo della forza per la legittima
difesa di quei popoli stessi o, invece, di uso della violenza, che per difendere
ed estendere il potere di caste politiche ed economico-finanziarie, non si ferma
neanche di fronte alla dignità ed alla vita dell’essere umano più
indifeso.
Coerenza tra
fini e mezzi
Errico Malatesta scrisse, senza per questo volere ridurre ad uno slogan il suo
articolato pensiero in proposito: «Anarchia vuol dire non-violenza»
(«Pensiero e Volontà», 1 settembre 1924).
Conseguentemente, si pone per gli anarchici il problema della coerenza tra fini
e mezzi.
Infatti, chi utilizza la violenza per combattere il potere si trasforma egli
stesso in oppressore, perché la violenza, corrompendolo e distogliendolo
dai fini che si era proposto, gli impone lo stesso carattere, la stessa personalità
dell’oppressore che aveva intenzione di combattere.
Basti pensare, ad esempio, alle rivoluzioni più importanti della storia
dell’umanità: la Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione
Russa del Novembre 1917. Nel primo caso, l’utilizzo del terrore portò
il governo rivoluzionario più conseguente, quello giacobino, a Termidoro
e poi all’imperialismo napoleonico. La Rivoluzione Bolscevica, che aveva
l’intenzione di costruire una coerente società socialista, portò
invece, ad un regime che represse, come nella Grande Rivoluzione, i suoi stessi
figli.
Dopo tanti fallimenti storici e tanti lutti non resta che considerare la possibilità
concreta di far coincidere tra loro mezzi e fini: la costruzione di una società
libertaria. Creare, cioè, dal basso, a partire da noi stessi, relazioni
non gerarchiche, non autoritarie, cioè non violente, in ogni ambito del
nostro agire: da ogni forma di associazionismo, dal volontariato, dalle vere
cooperative di produzione, di consumo e di servizi, non quelle false che in
realtà sono imprese capitalistiche dietro le quali si nascondono forme
di sfruttamento tra le peggiori, dalle nostre famiglie e dai nostri rapporti
di amicizia, che possono nascere anche in un ambiente altamente oppressivo,
come quello lavorativo, fino ad investire tutta la società umana nel
suo complesso.
E quando, eventualmente, qualche struttura oppressiva, qualche potere gerarchico
si opporrà a tutto ciò, sarà nostro compito difenderci,
difendere cioè le nostre relazioni personali, le nostre capacità
individuali, la nostra libertà, anche con l’uso della forza, se
necessario, ma sempre considerando l’altro, anche se ci opprime, come
una persona, non solo da rispettare nella sua unicità, ma da conquistare
con il nostro amore.
È la lotta per questo nostro obbiettivo che dà senso alla nostra
vita.
Paolo Soragna
canzone d’autore
e
compagnia
cantante
a cura di Alessio Lega
Il “giardiniere della lingua” Julos Beaucarne.
la poesia non è solo bella
lei è ribelle
ci sono fontane di silenzio che assassinano per secoli e secoli
le nostre orecchie sono i testimoni che devono tenerci svegli.
In Italia sarebbe davvero impensabile per la sua totale inclassificabilità.
Un filosofo. Un poeta. Uno scultore. Un militante dell’ecologia e della
pace.
Un agitatore di mille movimenti, spesso inventati con la complicità di
un pugno d’amici: il “Fronte di liberazione degli alberi da frutto”,
il “Fronte di liberazione dell’orecchio”, ecc….
Per quel che ci interessa specificamente, un giardiniere che coltiva con strumenti
musicali le sue piantagioni di linguaggio.
Julos è un fantasista dell’anima, non banalmente un artista eclettico,
come ce ne sono tanti, più o meno bravi a fare una o più cose,
piuttosto il paziente elaboratore di un progetto dai confini incerti ma dal
sapore chiarissimo: rifondare il cuore umano in armonia con la natura interna
ed esterna, cogliere l’indefinibilità delle evoluzioni dello stare
con gli altri e dello stare con sé, dello stare col mondo tutt’assieme
e dell’ascoltare i movimenti del proprio cuore, i voli della propria fantasia.
Di tutto ciò Julos ha fatto dei bei libri, che non si capisce se siano
in versi o in prosa, degli spettacoli, che non si capisce se siano teatrali
o musicali, se siano d’avanguardia o se ripercorrono i moduli dei trovieri
medievali, delle animazioni radiofoniche e televisive, sempre occupando canali
autonomi e autogestiti fuori dallo show-business, delle opere plastiche partendo
da materiali abbandonati, come la famose e gigantesche pagode postindustriali.
Soprattutto però Julos ha fatto dei dischi, dei dischi superbi, tanti
e tutti legati fra di loro.
Nessuno di questi dischi si configura come una raccolta di canzoni, ma su ognuno
di essi si alternano con maggiore o minore frequenza canzoni propriamente dette,
brani solo musicali, poesie musicate, monologhi, aforismi di gusto surreale,
in un’alternanza che costruisce sempre delle opere di circa mezz’ora
che non trovano possibili definizioni precostituite. E non solo… di disco
in disco egli riprende forme e temi, mescolandoli continuamente: non è
raro trovare un testo in prosa che vent’anni dopo è incredibilmente
divenuto una canzone, brani musicali che, l’anno successivo alla loro
prima uscita, calzano come guanti a poesie di cent’anni fa. Quest’uomo
insomma, continuamente attraversato da mille stimoli, è plurale come
un poeta e solo come una foresta.
Ma forse la cosa straordinaria di questi dischi è che, presi tutti assieme,
rappresentano un’“opera concept”, la riuscita fotografia di
uno degli artisti più profondi partoriti negli ultimi cento anni da questo
strano paese, questo piccolo regno inventato e messo lì come cuscinetto
fra le grandi potenze, il Belgio, che nella sua artificiosa unione di caratteri
opposti, valloni e fiamminghi, ha prodotto due temperamenti unici e, verrebbe
da dire complementari, quali Jacques Brel e, appunto, Julos Beaucarne.
La leggenda vuole che al tempo in cui era solo un professore di letteratura
francese e un teatrante a tempo perso, Julos si trovasse, durante una vacanza
in Francia, improvvisamente in panne con la sua auto in uno sperduto villaggio
e senza un soldo per pagarsi le riparazioni necessarie; giocoforza si trasformò,
per raggranellare qualche spicciolo, in giullare, in artista girovago: cominciò
a cantare di piazza in piazza, torno torno dove si trovava, e davvero intorno
a lui sentì svilupparsi l’attenzione che secoli prima era dedicata
ai nostri antenati trovatori. Quest’episodio fu per lui la rivelazione
di una vocazione, di un interesse, di una traiettoria.
Io canto per voi, non ve ne dispiaccia
Malgrado l’imbrunare, le tempeste e le piogge
Su tutte le strade, anche grandinanti
Io porto il mio passo fino al fondo dei tempi.
Per smettere il gioco bisogna che muoia
Il filo è fragile, se un giorno si rompe
Saprete allora che faccio sciopero
Che si è chiuso il cerchio di tutti i miei amori
Io canto per voi i canti più teneri
Ragazzine dolci, dal collo di panna
E anche per voi bimbi settembrini (…)
Finché i poveri uomini avranno orecchie
Esorcizzerò i fantasmi della notte
Sulla strada, enunciata nella canzone qua sopra, Julos continua tutt’oggi
a muoversi con un’opera ormai imponente che consta di 26 cd, una ventina
di libri, e un’infinità di spettacoli. Ovviamente mi manca lo spazio,
non solo per analizzarli compiutamente, ma anche per darne notizia; faccio quindi
la più che arbitraria mossa di entrare nello specifico di uno dei suoi
dischi più imprescindibili e struggenti.
La vita è l’arte di Julos sono passate attraverso un’immensa
tragedia, di cui non ha cessato di portare i segni.
Nella notte fra il 2 e il 3 febbraio 1975 la sua compagna di vita e d’arte,
la madre dei suoi due figli, viene assassinata a pugnalate da un folle. Con
l’animo in fondo a un pozzo di carbone, Julos scrive uno dei grandi capolavori
della storia della canzone di tutti i tempi, un disco straziante, di incontenibile
tenerezza; un disco friabile e densissimo, un capolavoro in cui il dolore non
ottunde la leggerezza di uno degli animi più belli che abbiano mai trovato
la via del canto. Appunto: Candelora ‘75.
Tutto incentrato sull’immensa perdita, il disco è incorniciato
da due canzoni sublimi. Eccone qualche verso:
Si comincia sempre con: c’era una volta / La fata della tua vita se ne
va / Senza guardarsi indietro
Gli occhi blu hanno virato al nero / La terra si veste di lutto / Addio, mia
bella
e
Di memoria di Rosa ho visto morire un giardiniere / Nient’altro che una
pausa può bastare, signora, lascia
Il vento distendersi e senza maledirlo, aspetta / Lasciati scivolare nel vento
leggero, pazienza, pazienta…
Se l’amore fugge, non ti flagellare / Hai marinato la scuola, per il letto
del re
Se la sua vela bianca ora è solo nebbia / Non t’impiccare al ramo
quando farà scuro
Fra queste due canzoni si avanza, per citazioni da Saint Exupéry, per frammenti poetici e musicali, per altre canzoni che compongono uno dei più onesti e al contempo pudichi poemi del dolore che mi sia capitato di conoscere. La sincerità di quest’album è abbacinante, la sua trasparenza quasi insostenibile; si tratta di un’opera preziosa, di un cristallo che si incide un percorso sideralmente profondo nell’animo dell’ascoltatore. Julos, dopo aver raggiunto l’apice del suo personalissimo lutto, con un guizzo poetico, sa riportare tutto a un discorso universale, le sue ferite diventano quelle stesse di un mondo senza pace, giustizia o libertà: “l’uomo e la donna sono capolavori in pericolo / in Belgio, in Cile, in Brasile / la legge del più forte è sempre la legge del minor sforzo…” dice, e a sostenerlo canta la sua
Lettera a Kissinger
Voglio raccontarti signor Kissinger la storia di un mio amico
Il suo nome non ti dirà nulla, faceva il cantante in Cile.
Tutto successe in un grande stadio dove c’era un tavolo
Il mio amico si chiamava Jara e fu portato là.
Gli fecero mettere la mano sul tavolo e un ufficiale
Con un solo colpo d’ascia le dita della sinistra tagliò
Con un altro colpo sezionò le dita della destra di Jara
Il sangue è sgorgato, seimila prigionieri gridarono.
L’ufficiale posò l’ascia (forse si chiamava Kissinger)
Prese a calci Victor Jara “canta – gli disse – ora che sei
meno orgoglioso”
Alzando le mani senza dita, che ancora ieri carezzavano la chitarra,
Jara si alzò lentamente per obbedire al comandante
Ed intonò l’inno di lotta di Unidad Popular
Col coro delle seimila voci dei prigionieri di quell’inferno.
Una raffica di mitra abbatté allora il mio amico
(Quello che puntò l’arma forse si chiamava Kissinger).
Questa storia che ti ho raccontato, Kissinger, non è avvenuta
Nel ’42, ma ieri nel settembre ’73.
È un momento altissimo in cui personale e politico si fondono in un brivido che testimonia come un grande artista e una bella persona alla fine sappia sempre distillare gocce di luce dalla miseria dell’esistenza, senza retorica, senza voler insegnare niente a nessuno, ma con la semplice grandezza di chi può svolgere le pieghe nascoste del linguaggio di tutti i giorni e svelarcene la poesia.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
De Andre’
mille papaveri rossi
A distanza di pochi mesi dalla sua uscita, il doppio Cd “mille papaveri
rossi” viene ristampato, ma non solo. Mentre l’originaria edizione
curata da Marco Pandin si poneva aldifuori del “mercato”, ora “mille
papaveri rossi” diventa il quarto titolo della nostra etichetta Eda –
dopo il Cd “ed avevamo gli occhi troppo belli”, la cassetta VHS
“S’era tutti sovversivi” (in coedizione con la BFS) e il Dvd
“ma la divisa di un altro colore”. All’originaria confezione
essenziale di Marco, con un libretto di 16 pagine, si sostituisce ora questa
analoga a quelle del Cd e del Dvd, cioè con un libretto di oltre 70 pagine.
Nella sua nuova veste “mille papaveri rossi” costa 20,00 euro, con
i consueti sconti per chi ce ne ordina più copie. Chi ne ordina almeno
20 copie, per esempio, lo paga 15,00 euro l’uno. Oltre che direttamente
a noi (e in questo caso, come per gli altri nostri prodotti, le spese di spedizione
postale sono tutte a nostro carico, per chi paga anticipatamente), il doppio
Cd può essere acquistato a partire da venerdì 7 maggio in alcune
librerie, presso tutti i punti-vendita della rete Feltrinelli/Ricordi, in numerosi
negozi di dischi/cd/musica (l’esclusiva per questa tipologia di punti-vendita
è di Wide).
Ricordiamo che “mille papaveri rossi” è composto da due Cd,
con 37 brani per un totale di 2 ore e 23 minuti d’ascolto.
Riportiamo qui di seguito il primo articolo del libretto, una sorta di presentazione del “prodotto” firmata dalla nostra redazione.
I papaveri di Fabrizio(e di Marco)
Un altro libretto per riflettere su Fabrizio. E sull’importanza del suo
pensiero.
Il senso più profondo, la cifra dell’operazione culturale che stiamo
portando avanti da quando Fabrizio ci ha lasciati, è duplice: sottolineare
la rilevanza del suo contributo intellettuale e, in quest’ambito, l’imprescindibilità
del suo sguardo anarchico.
Ricordate il libretto che accompagna il Cd ed avevamo gli occhi troppo belli?
C’era, tra l’altro, la drammatica testimonianza di una zingara tedesca
reclusa ad Auschwitz e scampata alla “Zigeunernacht”, la strage
che nella notte del 31 luglio 1944 portò alla soppressione di tutti i
Rom e Sinti (circa 4.500) rinchiusi in quel lager. Nella presentazione editoriale
spiegavamo che solo apparentemente quella testimonianza non c’entrava
con Fabrizio: in realtà, era parte integrante della passione e dell’attenzione
dedicata dal cantautore genovese alla storia dei Rom, come testimoniato sia
dalla toccante canzone contenuta in Anime salve sia dalle parole da lui pronunciate
durante un concerto e riportate in quel nostro cd.
Quegli antifascisti
al confino
Lo stesso vale per la testimonianza dell’anarchico Alfonso Failla, relativa
alle lotte portate avanti da alcune centinaia di antifascisti confinati alle
isole Tremiti e in altri luoghi di confino, tra il 1937 e il 1940. Questi uomini
pagarono un duro prezzo per non alzare a comando il braccio destro: erano isolati
dal resto della società e non avevano alcuna possibilità di “pubblicizzare”
il loro gesto. Il buon senso comune potrebbe suggerire la domanda “Ma
chi gliel’ha fatto fare?”. Che senso aveva lasciar prolungare e
peggiorare la propria detenzione solo per non ottemperare a uno stupido ordine?
Chi non si è limitato ad ascoltare la voce e le musiche di Fabrizio ma
lo ha “letto” sa quanto gli stessero a cuore la dignità umana,
la capacità di reagire alle angherie e alla stupidità del potere
costituito. In Fabrizio c’era non solo quella sconfinata pietas che lo
portava istintivamente a schierarsi dalla parte dei “dannati della terra”,
a sottolinearne le sofferenze, il dolore, il senso di ingiustizia, ma anche
un’altrettanto forte solidarietà con chi cercava di reagire a questo
stato di cose, di affermare la propria dignità, di ribellarsi.
Non è un caso, dunque, che questa testimonianza su una lotta poco conosciuta,
originariamente intitolata dall’autore “Ricordi dal confino”,
sia stata da noi fatta precedere qui da un nuovo titolo, il deandreiano In direzione
ostinata e contraria.
Il fatto che la scelta, tra le tante possibili, sia caduta proprio su un momento
della più generale lotta antifascista, ha un suo preciso significato:
in un’epoca sempre più condizionata dalle ondate revisioniste e
negazioniste, riprendere i fili della memoria antifascista e legarli al presente
ha un suo preciso valore.
Farlo nel contesto di un’iniziativa come questa, legata a Fabrizio, vuol
dire riaffermare il senso del nostro omaggio all’amico e al compagno.
“Irriducibile a qualsiasi recupero buonista – scriveva Paolo Finzi
nel suo scritto nel libretto di ma la divisa di un altro colore – Fabrizio
è stato per tutta la sua vita un intellettuale “contro”,
che ha remato – spesso in solitudine – in direzione ostinata e contraria.
In una parola, un anarchico.”
Ecco allora il senso della presenza, in questo libretto, anche di alcune stimolanti
riflessioni di Luce Fabbri, un’anarchica romana costretta in giovane età
all’esilio, a causa delle persecuzioni fasciste contro suo padre, Luigi
Fabbri, intimo collaboratore di Errico Malatesta e a sua volta una delle figure
più belle dell’anarchismo internazionale a cavallo tra ’800
e ’900. I Fabbri emigrarono in Uruguay e qui, pochi anni fa, si è
spenta, più che novantenne, Luce. Con lei se n’è andata
una delle voci più originali e prestigiose del pensiero libertario, una
donna che, seppur geneticamente legata alla storia del movimento anarchico,
ha saputo allungare il proprio sguardo fino a cercare di comprendere appieno
il senso delle tragedie dello scorso secolo, da Auschwitz a Hiroshima, dalla
degenerazione autoritaria del socialismo all’apparente affievolirsi di
ogni speranza di vera trasformazione sociale.
Ecco allora che le testimonianze storiche proposteci da Giovanna Boursier su
Ansa, la zingara tedesca scampata al lager, da Marina Padovese sulle violenze
contro le donne (e in particolare sugli stupri) nello scorso decennio in ex
Yugoslavia, di Alfonso Failla sulle lotte al confino si legano alle riflessioni
teoriche degli anarchici Errico Malatesta, Emile Armand, Luce Fabbri, e anche
alle interviste di Fabrizio al periodico antimilitarista libertario “Senzapatria”
(1991) e alla rivista trimestrale anarchica “Volontà” (1993).
E poi le interviste a Gianna Nannini, Alessandro Gennari, Mauro Pagani si accompagnano
alla testimonianza di Teresa Sarti sull’incontro tra Dori e Fabrizio da
una parte, i fondatori di Emergency dall’altra – e proprio al Centro
Chirurgico di Goderich in Sierra Leone, Centro fondato e gestito da Emergency,
va la metà dell’utile di una delle nostre iniziative.
E poi gli scritti di Mariano Brustio su Georges Brassens, di Mauro Macario su
Riccardo Mannerini, e ancora di Mariano Brustio sul parallelo antimilitarismo
di Fabrizio e di Leonard Cohen.
Tutte cose da noi pubblicate in questi anni, insieme ad altre qui non citate,
nei nostri “prodotti” legati a Fabrizio: prodotti, appunto, atipici,
fuori dal coro, perché tesi non a “celebrare” il cantante
e il poeta, ma a stimolare la riflessione sui temi umani e sociali che erano
cari a lui, come lo sono sempre stati a noi anarchici.
Il nero degli anarchici
la ruota dei Rom
A Gabriele Bramante, lontane origini nel punk degli anni ‘80 e un pluriennale
impegno non solo professionale nella distribuzione discografica indipendente,
abbiamo chiesto un sintetico contributo sull’influenza della musica di
Fabrizio nel panorama “alternativo” nostrano.
Dal libretto di 16 pagine curato da Marco Pandin per l’edizione originaria
dei mille papaveri rossi riproduciamo lo scritto di Marco Sommariva, anarchico
e genovese, giovane scrittore: uno scritto curioso, formato com’è
da centinaia di parole e brevi frasi riprese dalle poesie di Fabrizio.
Per le illustrazioni interne abbiamo attinto da due “pozzi” tra
loro molto diversi. Se nella seconda parte (e in una delle ante) utilizziamo
le belle e calde foto scattate nei primi anni ‘80 dal nostro caro amico
e compagno Reinhold “Denny” Kohl (che anche di Fabrizio fu caro
amico e compagno), nella prima parte del libretto diamo spazio alle bandiere
anarchiche, zingare, “filosofiche” di Luca Vitone, anarchico e genovese
(anche lui!), riprese da una sua recente mostra milanese. Vorremmo soffermarci
sulla prima di queste bandiere, inventata da Luca: non sappiamo che rapporto
avesse Fabrizio con le bandiere, ma pensiamo che potrebbe essergli piaciuta
questa riprodotta a pag. 4, la bandiera nera dell’anarchia con al centro
la ruota di un carro, simbolo del nomadismo Rom.
Profonda sensibilità
e freschezza
Con questo 2Cd siamo così giunti al quarto “prodotto” legato
a Fabrizio: nel 2000 il dossier Signora libertà, signorina anarchia (che
riprendeva e arricchiva l’originario dossier interno al n. 272 di “A”,
il primo dopo la morte di Fabrizio), nel 2001 il Cd ed avevamo gli occhi troppo
belli, nel 2003 il Dvd ma la divisa di un altro colore.
Questa che hai tra le mani, in effetti, non è una vera e propria novità.
La scorsa estate, dopo due anni di intenso impegno, Marco Pandin – con
la sua non-etichetta Stella*Nera – ha partorito una prima versione di
questi mille papaveri rossi: i brani musicali erano esattamente gli stessi di
questa nuova edizione, ma diversi erano la confezione, il libretto, le modalità
di vendita (anzi, di non-vendita).
Con il suo bravo bollino Siae “omaggio”, infatti, quell’edizione
si dichiarava immediatamente e deliberatamente fuori dal mercato: non era in
vendita, si poteva ottenerla solo versando una sottoscrizione di almeno 15,00
euro a favore della rivista anarchica “A”. Non poteva essere acquistata
nei negozi né altrove. Una scelta precisa e significativa, che si è
però “scontrata” con l’altissimo numero di richieste
pervenute a Marco e in redazione.
Le prime due tirature sono andate presto esaurite e così, d’accordo
con Marco, si è deciso di inserire i mille papaveri rossi nell’etichetta
Eda, cioè nella linea di produzione e di distribuzione della rivista
in cui finora sono usciti il Cd ed avevamo gli occhi troppo belli, la videocassetta
S’era tutti sovversivi (dedicata a Franco Serantini e realizzata con la
BFS nel 2002) e il Dvd ma la divisa di un altro colore.
Ed è proprio con un ringraziamento a Marco Pandin che vogliamo chiudere
queste note introduttive. Il testo che lui ha scritto per la versione primigenia
di questo 2Cd (e che riproduciamo nelle due pagine seguenti) dà appieno
il senso del suo approccio al mondo della musica e a questo “prodotto”
in particolare.
Vorremmo davvero che questa nostra riedizione, pensata anche per permettere
una maggiore diffusione del suo lavoro, riesca a conservare quella profonda
sensibilità e quella freschezza che traspaiono dalle sue parole e sono
il segno più vero del suo impegno. Al punto che questi 37 papaveri rossi,
queste 37 cover, oltre che a Fabrizio e ai loro singoli interpreti, ci pare
appartengano in qualche modo anche a lui.
la redazione di A
cultura
rassegna
libertaria
Asce di
Guerra
Sarà pur vero che “le storie non sono che asce di guerra da disseppellire”
(Vitaliano Ravagli, Wu Ming, Asce di guerra. In cerca del vietcong romagnolo,
Marco Tropea Editore, Milano 2000, pp. 384, € 14,98); pure quelle che hanno
il filo per tagliare sono ben poche. Nemmeno in grado di scalfire, figuriamoci
recidere. Capita, però a volte di ascoltarne, leggerne, alcune. Purtroppo,
o non si ha tempo per prestar loro un’adeguata attenzione, o ci si accorge
che chi ci sta raccontando una storia – una storia vera – fa tante
storie, usando imbrogliare, imbrogliandosi.
Sì, la storia di Vitaliano Ravagli, il “vietcong romagnolo”,
è una storia da disseppellire, che è bene disseppellire, perché
ci aiuta a comprendere molti aspetti di un passato prossimo in procinto di esser
riscritto, affogandolo nel buonismo/perdonismo caratteristico del pensiero politically-correct
contemporaneo. Ciò che non funziona – l’imbroglio –
è l’utilizzo pro domo mea, il voler ascrivere a tutti i costi l’esperienza
di una vita (che raggruma, ovviamente, più esperienze e più vite)
nell’alveo di un presente percorso politico italiano (il PRC), sottolineandone
la sola, unica, veridicità rispetto al passato.
Perché, altrimenti, il sapore che permane in bocca al termine di una
lettura che si è sciorinata in oltre 380 pagine (alcune piacevoli ed
anche emozionanti, altre stucchevoli per il loro puerile tecnicismo da “scuola
di scrittura”), è soltanto quello di aver letto un libro di propaganda
politica, il cui impegno nell’aver ripreso l’ascia di guerra –
raccontando vere storie di partigiani romagnoli – è stato volto
unicamente al fine di far brillare di luce impropria Rifondazione Comunista,
le Tute Bianche e tutti i sinceri democratici di sinistra.
Sia chiaro: se questo era il preciso intento degli scrittori, esso è
stato pienamente raggiunto. Ma si sarebbe potuto raggiungerlo con meno sforzo,
meno impegno, ma soprattutto meno supponenza. Forse perché non è
più il tempo dei compendi di storia, atti a spiegare, indottrinando,
le lotte di liberazione nel Terzo Mondo, che la ricostruzione della guerra in
Indocina (fra Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam) più che far da sfondo
alle motivazioni politiche di Vitaliano Ravagli – militante comunista,
renitente alla leva e volontario nella guerra in Laos nella seconda metà
degli anni cinquanta – appare un pretesto per “spiegare” l’importanza
dell’internazionalismo comunista di matrice staliniana.
Certo: quando gli statunitensi hanno voluto raccontare la guerra del Vietnam,
hanno raccontato il loro Vietnam, anche quando – sotto un attento e critico
sguardo – hanno voluto descrivere le miserie, le paure, le atrocità.
Ma erano le loro miserie, le loro paure, le loro (subite) atrocità. Del
Vietnam e dei vietnamiti, niente o poco più che un nome: Charlie. Però,
raccontando la verità, stando “dalla parte di…”, per
giustificare tutto e tutti, volutamente si commette il medesimo errore e si
finisce per glorificare le gesta di un Ho Chi Minh, di un Giap, come un tempo
si glorificava l’aiuto di uno Stalin nella Spagna del ’36.
Che poi la guerra partigiana e gli espatri clandestini nell’Est Europa
siano ben altra cosa, gli stessi autori/Wu Ming paiono esserne consapevoli.
Non per nulla la parte più riuscita del libro risulta essere quella riguardante
il secondo dopoguerra in Italia, quando la vittoria sul fascismo si trasformò
– dovette trasformarsi – in una resa nei confronti delle truppe
nord-americane e l’appena conquistata libertà di un popolo fu consegnata
nelle mani dei suoi liberatori a stelle e strisce.
Sono queste le pagine del libro in cui si respira a pieni polmoni la polvere
della storia; quella polvere che ricopre l’edulcorata Italia povera, ma
bella, da sempre tradotta nella farsesca e nauseabonda “dolce vita”
di felliniana memoria, che si compiace dell’ingegno e della produttività
degli italiani, sempre pronti ad appassionarsi agli eroi del pallone e a dividersi
in due “partiti” – chi con il laico Coppi, chi invece con
il cattolicissimo Bartali –, ma uniti nell’evitare che l’attentato
a Togliatti possa guastare la festa per la vittoria del Tour de France del 1948.
È questa una polvere che viene scossa dagli avvenimenti internazionali
(la “guerra fredda”) e offusca con il suo pulviscolo un paesaggio
che pur avendo i contorni e gli idiomi di Brescello – il paese di Peppone
e Don Camillo – mantiene invece nitide e chiare le differenze fra gli
aguzzini, i torturatori, e i partigiani; quei partigiani che anche dopo la festa
della Liberazione hanno continuato a far la festa ai fascisti, strafottendosi
dell’ordine di consegnare le armi, dell’amnistia togliattiana, del
non dover rispondere colpo su colpo al “nuovo regime” nato dalla
Resistenza.
Così la storia dei combattenti partigiani “Mirko”, “Drago”,
“Sole”, “E Fator” e di tanti altri che hanno fatto la
Resistenza ad Imola e nella Romagna sono asce di guerra che ci consentono di
comprendere perché a quelle latitudini l’antifascismo non è
mai morto e molti partigiani “Soviet” hanno continuato a farsi giustizia
nel cosiddetto Triangolo della Morte. Ma per cortesia, signori Wu Ming, non
confondiamo il diavolo con l’acquasanta: se proprio vogliamo attribuire
ai Casarini, ai Caruso, un ruolo nella storia contemporanea diamogli perlomeno
quello che a loro spetta. E siamo poi così sicuri che sia quello dei
“nuovi partigiani”?
Suvvia, se “scavare nel cuore oscuro di vicende dimenticate o mai raccontate
è un oltraggio al presente”, non vi sembra – signori Wu Ming
– che il nostro presente non necessiti altri oltraggi che non riportare
alla memoria uomini e donne dimenticati perché hanno sempre preferito
vivere la loro storia, senza mai raccontarsi “storie”?
Benjamin Atman
etologia
Scimmie
e SELVAGGI
di Vinciane Despret
In natura esistono anche forme di mutuo appoggio.
a Didier Demorcy
Prima di tutto inquadriamo il contesto in cui Kropotkin interroga le teorie
darwiniane. Nel suo libro del 1902, Il mutuo appoggio, l’autore racconta
che cercando con entusiasmo, nel proprio campo, le prove dell’evoluzione
e della selezione, si è stupito della differenza fra le sue osservazioni
e quelle che fondano la teoria della selezione.
Quando esplorai la regione del Vitim, in compagnia di quel compiuto zoologo
che era il mio amico Poliakoff [...] cercammo invano delle prove dell’aspra
concorrenza tra gli animali della stessa specie che la lettura dell’opera
di Darwin ci aveva preparato a trovare [...]. Ma anche nelle regioni dell’Amúr
e dell’Ussuri, ove pullula la vita animale, non potei che molto di rado,
nonostante l’attenzione che vi prestavo, notare dei fatti di una reale
concorrenza, di una vera lotta tra gli animali superiori di una stessa specie.
La stessa impressione si ha dalle opere della maggior parte degli zoologi russi.
Al contrario, scrive, ho visto soltanto prove di mutuo appoggio, di amicizia
e di solidarietà: nutrire lo straniero, adottare l’orfano, aiutare
l’altro in difficoltà talvolta a rischio della propria vita, ecco
come si comportano gli animali. Non ho visto da nessuna parte quella lotta di
tutti contro tutti, quella competizione feroce per le risorse. Gli animali non
solo evitano la lotta, ma si aiutano a vicenda. Lo stesso problema della sovrappopolazione
trova una soluzione originale, che non le fa affatto perdere la sua funzione
di motore dell’evoluzione, perché in quelle condizioni gli animali
alla lotta preferiscono il cambiamento di nicchia ecologica, sotto forma di
migrazioni o di adattamenti diversi. Quando i castori sono troppo numerosi in
un punto del fiume, il gruppo si divide: alcuni risalgono a monte, altri discendono
a valle.
Mutuo
appoggio
Se Rousseau ha commesso l’errore di sopprimere dalla sua concezione la
lotta tutta «zanne e artigli», Huxley ha commesso l’errore
opposto; ma né l’ottimismo di Rousseau, né il pessimismo
di Huxley possono essere accettati come un’imparziale interpretazione
della natura. Quando studiamo gli animali, non soltanto nei laboratori e nei
musei, ma nelle foreste e nella prateria, nelle steppe e sulla montagna, ci
accorgiamo subito che, benché vi sia nella natura una somma enorme di
guerra fra le specie diverse, e soprattutto fra le differenti classi di animali,
vi è altrettanto, o fors’anche più, del mutuo appoggio,
dell’aiuto reciproco e della mutua difesa tra gli animali appartenenti
alla medesima specie o, almeno, alla stessa società.
I primati non smentiscono questo modello. Benché siano caratterizzati da una grandissima varietà di specie, si può affermare che la socievolezza, l’azione in comune, la protezione reciproca e l’alto sviluppo dei sentimenti, che sono un risultato naturale della vita sociale, sono propri alla maggioranza delle specie delle scimmie. La maggior parte di esse, spiega Kropotkin, diventano molto infelici quando sono in solitudine, e le grida di dolore di una di loro fanno immediatamente accorrere l’intero branco. Sempre in branchi saccheggiano i nostri campi, mentre le scimmie più anziane si prendono cura della sicurezza della comunità.
Le piccole ti-tis, la dolce figura delle quali colpì tanto Humboldt, s’abbracciano e si proteggono vicendevolmente quando piove [...]. Parecchie specie mostrano la massima sollecitudine per i loro feriti, e non abbandonano una compagna ferita durante la ritirata, fino a che non si sono accertate che è morta e che sono impotenti a richiamarla in vita. James Forbes narra nelle sue Memorie d’Oriente che alcune di queste scimmie mostrarono una tale perseveranza nel reclamare dai suoi compagni cacciatori il cadavere d’una femmina, che si comprende bene perché “i testimoni di questa scena straordinaria risolvessero di mai più tirare sopra nessuna specie di scimmia”.
Le amadriadi fanno appostare delle sentinelle, e il loro coraggio è
quasi leggendario, come testimoniano le spedizioni che si sono trovate ad affrontarlo.
L’attaccamento reciproco che regna nelle famiglie degli scimpanzé,
sostiene Kropotkin, è noto a tutti i lettori.
Qui, accanto al vecchio babbuino eroico già messo in scena da Darwin,
non compaiono né il padrone geloso né il concorrente battagliero
che coesistevano nel sistema darwiniano. Al contrario, Kropotkin mette esplicitamente
in discussione la loro esistenza: secondo lui, quelle scimmie non sono che rare
eccezioni, e la loro testimonianza non vale, nella misura in cui “sono
sottoposte a vincoli che sanciscono la loro degenerazione”. L’ipotesi
che permetteva a Darwin di riportare il suo selvaggio nella continuità
viene ora a escludere la sua scimmia originaria. Per Kropotkin, infatti, il
selvaggio non ha alcun bisogno di essere oggetto di una costruzione tanto complicata.
Al contrario, in un certo senso egli favorisce la scomparsa dalla scena del
padrone geloso e battagliero – restituendogli del resto il complimento:
il degenerato è lui.
Tuttavia, i nostri due autori sono entrambi d’accordo su un punto: la
nostra socialità e la nostra intelligenza sono un prodotto dell’evoluzione,
ed è del tutto legittimo chiamare il selvaggio a testimoniare. Il loro
accordo si limita a questo: tutti gli schemi esplicativi delle tracce dell’evoluzione,
osserva Kropotkin, sono inficiati da un doppio errore. Il primo è dovuto
ai modelli animali di cui si avvalgono, il secondo alla scarsa comprensione
dei popoli primitivi. Cominciamo dal secondo, che permetterà di spiegare
il primo.
Informazioni
da cestinare
Secondo Kropotkin, se le osservazioni degli antropologi possono aiutarci a comprendere
l’origine dell’uomo, soprattutto perché i primitivi hanno
conservato tracce e vestigia delle istituzioni più antiche, le informazioni
che la maggior parte di questi ricercatori ci ha riportato sono in genere da
cestinare: sono stati totalmente incapaci di comprendere i primitivi. Infatti,
questi ultimi sono quasi sempre descritti come selvaggi sanguinari. Tuttavia,
continua Kropotkin, alcuni autori hanno creduto opportuno sostenere che i primitivi
fossero esemplari degeneri di un’umanità che un tempo avrebbe conosciuto
un più alto livello di civiltà. Ma tutte le osservazioni contraddicono
la teoria della degenerazione. In realtà, questa teoria deve la sua esistenza
a un’unica causa: la disastrosa qualità del lavoro degli antropologi
che non hanno capito niente dei primitivi, e ancor meno degli animali. L’allusione
è chiara, la critica senza appello.
In primo luogo, osserva Kropotkin, queste osservazioni sono tutte inquadrate
in schemi esplicativi che le falsano. È vero che “nel XVIII secolo
il selvaggio e la sua vita ‘allo stato di natura’ furono idealizzati”.
Ma oggi, “i dotti si sono portati all’estremo opposto, particolarmente
dacché alcuni di essi, desiderosi di mostrare l’origine animale
dell’uomo, ma non avendo familiari gli aspetti sociali della vita animale,
si sono messi a caricare il selvaggio di tutti i caratteri ‘bestiali’
immaginabili”. Viene così chiaramente denunciata una duplice villania:
quella che consiste nello screditare l’animale per meglio denigrare i
selvaggi. Attribuire la bestialità ai primitivi dimostra unicamente la
potenza strategica di quella che oggi potremmo chiamare una «ignoranza
interessata», che autorizza la bestializzazione dell’altro. Si tratta
appunto di una doppia ignoranza. Tutte le cose orribili riferite sui primitivi
testimoniano soltanto dei pregiudizi degli osservatori, e in particolare delle
condizioni in cui le osservazioni sono state effettuate.
In effetti, la maggior parte di quelle che ci sono state riportate dai missionari
e dai viaggiatori sono del tutto improbabili. I Boscimani, per esempio, sono
stati descritti da quegli stessi che li hanno sterminati. Inoltre, quando gli
europei incontrano un’etnia primitiva cominciano generalmente col fare
una caricatura dei suoi costumi. Ci sono così pervenute una quantità
di osservazioni assurde che del primitivo danno l’immagine più
orribile e superficiale. Il problema nasce dalla nostra mancanza di interesse
e soprattutto dalla nostra incapacità di comprenderli. Citando Rink,
Kropotkin riassume con chiarezza le due fonti della difficoltà: i pregiudizi
e l’etnocentrismo che guidano le osservazioni.
Gli europei allevati nel rispetto del diritto romano sono raramente capaci
di comprendere la forza dell’autorità della tribù. Infatti,
non è affatto un’eccezione, bensì la regola, che gli uomini
bianchi [...] se ne tornino a casa senz’aver niente appreso sulle idee
tradizionali che formano la base dello stato sociale degli indigeni. L’uomo
bianco, che sia missionario o commerciante, ha ben salda l’opinione dogmatica
che il più volgare europeo sia superiore all’indigeno più
distinto.
Tuttavia, spiega Kropotkin, ci si accorge che se l’osservatore è
intelligente, e soprattutto se resta più a lungo con i primitivi, allora
li descrive «come la migliore o la più dolce razza della terra.
Gli stessi termini sono stati applicati agli Ostiachi, ai Samoiedi, agli Esquimesi,
ai Daiachi, agli Aleutini, ai Papuasi, ecc.». Così, gli Ottentotti
sono stati descritti da Lubbock come «i più sudici animali»,
e infatti, riconosce Kropotkin, sono sudici; «tuttavia coloro che li hanno
visti da vicino lodano grandemente la loro socievolezza e la loro premura nell’aiutarsi
reciprocamente. Se si dà qualche cosa a un Ottentotto, egli lo divide
immediatamente con tutti quelli che sono presenti». Gli stessi Fuegini,
che avevano tanto colpito Darwin, nonostante “una reputazione così
cattiva, appaiono sotto una luce molto migliore quando cominciano a essere conosciuti
meglio”.
Amore per
i figli
L’infanticidio e l’abbandono dei feriti che avevano urtato Darwin
ricevono qui una spiegazione e permettono una critica sferzante del nostro sistema
sociale. Anzitutto, osserva Kropotkin, tutte le testimonianze concordano nell’affermare
in modo unanime l’incredibile amore che i genitori provano per i loro
figli. E non si deve pensare che i selvaggi si moltiplichino senza alcuna restrizione:
al contrario prendono ogni sorta di misure per diminuire le nascite. «Tutta
una serie di restrizioni, che gli europei troveranno certamente stravaganti,
sono imposte a tale effetto, e vi si ubbidisce strettamente ma, in onta a tutto,
i primitivi non riescono ad allevare tutti i loro bambini». Tuttavia,
continua Kropotkin, a dimostrazione che gli infanticidi non sono un semplice
effetto di costumi selvaggi o insensati, si è notato che, se riescono
a incrementare i loro mezzi di sussistenza, l’infanticidio cessa immediatamente.
I missionari, che li subissano di sermoni per moralizzarli, farebbero meglio
a seguire l’esempio di Veniaminoff: questo prete russo ortodosso (che,
dopo la sua canonizzazione, conosciamo con il nome di Innocenzo III), missionario
in Alaska all’inizio del XIX secolo, sfidava regolarmente tutti i pericoli
del mare per rifornire gli indigeni di pane e strumenti da pesca, e in questo
modo riusciva a sopprimere completamente l’infanticidio. Inoltre, non
si può negare che per i primitivi l’infanticidio sia un atto grave,
che essi compiono di malavoglia e che tentano sempre di evitare. La consuetudine
di inventare i giorni di nascita felici e infelici, per risparmiare i bambini
nati nei giorni felici, lo spiega in modo esemplare, come ha dimostrato Élie
Reclus. In altre circostanze, i genitori cercano di differire la sentenza e
finiscono così per non eseguirla, perché se il piccino ha vissuto
un giorno, deve vivere tutta la sua vita naturale.
Quanto all’abbandono dei feriti o dei vecchi, non deve essere interpretato
come un abbandono da parte della tribù, spiega Kropotkin, ma va inteso
nel senso proprio anche alle usanze praticate in Russia, dove i vecchi contadini
dicono al tramonto della loro vita: «Vivo la vita degli altri, è
tempo di ritirarmi». Il vecchio stesso chiede di morire, e insiste su
quest’ultimo dovere verso la comunità. Ottenuto il consenso della
tribù, organizza egli stesso la sua dipartita. Ma questo, continua l’autore,
i nostri studiosi occidentali non possono capirlo, perché non riescono
a immaginare la coesistenza della moralità con queste pratiche che sembrano
loro del tutto estranee. Ma se dicessimo a un selvaggio che «delle genti
estremamente amabili, teneramente affezionate ai loro figli, e così impressionabili
che piangono quando vedono una disgrazia simulata sulla scena, vivono in Europa
a qualche passo da tuguri dove i fanciulli muoiono letteralmente di fame, a
sua volta il selvaggio non li comprenderebbe».
A questa critica radicale dell’etnocentrismo e della singolare parzialità
degli occidentali quando si tratta di morale, si aggiunge un’altra critica:
queste storie dell’origine in cui coinvolgiamo gli animali e i selvaggi
sono segnate dal modo in cui ricostruiamo la storia in generale. Si inquadrano
per lo più negli schemi che privilegiamo quando scriviamo o pensiamo
la storia: gli schemi della guerra e dei conflitti. Ma questo modo di fare storia,
scrive Kropotkin, si interessa soltanto alle guerre e ai conflitti di alcuni,
cancellando completamente dalla scena migliaia di persone che vivono relazioni
di pace e di cooperazione. «Vi sono sempre stati scrittori che hanno giudicato
con pessimismo il genere umano. Essi lo conoscono più o meno superficialmente
nei limiti della loro esperienza; essi sanno della Storia ciò che dicono
gli analisti. Sempre attenti alle guerre, alle crudeltà, all’oppressione,
e a non altro, ne concludono [qui Kropotkin allude alla teoria del filosofo
inglese Hobbes] che l’umano genere non è altro che una fluttuante
aggregazione di individui, sempre pronti a battersi l’un contro l’altro
e trattenuti dal far questo unicamente per l’intervento di qualche autorità».
La scimmia
bellicosa
Di conseguenza, la storia dell’origine non sarà mai altro che un
mito ricostruito a partire da qualche scritto di filosofi pessimisti: un mito
in cui un selvaggio viene coinvolto da antropologi incapaci, e in cui è
chiamato a testimoniare un animale degenerato, accuratamente selezionato, quasi
sempre prodotto da studi nei musei o da opere di compilazione.
È a questo punto che la scimmia bellicosa di Darwin, quella che diventerà
il totem di Freud e dell’Occidente, riceve da Kropotkin le motivazioni
della sua condanna. Il primo errore di Hobbes, spiega l’autore, fu di
pensare che l’umanità sia cominciata sotto la forma di piccole
famiglie isolate, un po’ simili alle famiglie limitate e temporanee dei
grandi carnivori. Le osservazioni di alcune specie scelte di primati sembrano
confermare questa ipotesi. In realtà, tutto questo si basa su una totale
ignoranza dei primati. Poiché, a parte alcune specie di scimmie, «la
decadenza delle quali è indubitabile» – decadenza che spiega
l’organizzazione eccezionale che incontriamo presso l’orango e il
gorilla – nessun gruppo di scimmie vive in piccole famiglie isolate erranti
nei boschi. Al contrario, esse vivono in branchi molto socializzati. E la struttura
stessa di tali branchi, dice Kropotkin, rende molto improbabile l’esistenza
di un «maschio forte e geloso». In primo luogo, la logica ci indica
che questi branchi non possono essere poligami, perché il numero dei
maschi è troppo rilevante. Inoltre, possiamo seriamente dubitare della
validità dell’estensione a tutte le scimmie delle osservazioni
condotte su alcune specie selezionate.
Certi antropologi che hanno tentato di trovarci un’origine nei primati,
continua Kropotkin, ammettono un po’ troppo facilmente che le scimmie
vivono in famiglie poligame, sotto la guida di un «maschio forte e geloso».
Ma queste osservazioni non sono risolutive: la maggior parte di esse si fonda
su uno stesso studio, quello di Brehm, La vita degli animali; anzi, su un solo
brano di questo libro! Il brano al quale gli autori si riferiscono riguarda
una descrizione generale delle scimmie, in un certo senso un modello, “ma
le sue descrizioni più particolareggiate delle specie separate non lo
confermano oppure lo contraddicono”. La dimostrazione è esemplare:
fra tutte le scimmie possibili, per rispondere alle domande sull’origine
sarà scelta quella che può raccontare una storia presente negli
schemi disponibili per pensarla.
Si potrebbe affermare che i termini essenziali del confronto che proponevo fra
Darwin e Kropotkin in ultima analisi consistano in questo: entrambi hanno fatto
appello ai primati in progetti tutto sommato abbastanza diversi. La rivalità
che costituiva una soluzione per il primo si rivela, per il secondo, un semplice
effetto di pregiudizi. In un caso come nell’altro, il primitivo è
coinvolto. E questo cambia molte cose: i selvaggi che tanto hanno spaventato
Darwin sono riusciti a mobilitare Kropotkin in un progetto del tutto diverso,
quello di esigere un modo garbato di porsi nei loro confronti, di rivolgere
loro le domande giuste, che non sono necessariamente le nostre.
Tuttavia, la riuscita di questo coinvolgimento non compete soltanto a Kropotkin.
Sono passati trent’anni, e questi trent’anni hanno la loro importanza:
i selvaggi non sono più gli stessi. Le pratiche si sono modificate. Anche
Kropotkin, che accompagna sempre la sua analisi con la questione delle condizioni
che permettono di conoscere, dice che le ricerche degli ultimi quarant’anni
hanno contribuito a cambiare l’idea che ci si faceva del mondo primitivo.
Così, il lavoro del suo amico geografo, Élie Reclus (Les Primitifs,
1885), esemplificativo di queste nuove pratiche, era a disposizione di Kropotkin,
ma non poteva essere conosciuto da Darwin. Certo, Élie Reclus è
amico di Kropotkin ed essendo entrambi anarchici condividono un ideale comune.
Gli interrogativi di Kropotkin trovano dunque nel suo lavoro un’articolazione
privilegiata. Ma il fatto che Kropotkin possa richiedere maniere diverse di
interrogare gli autoctoni esula ampiamente dall’ambito dei suoi rapporti
amicali o politici. Infatti, nello stesso periodo sono stati pubblicati altri
studi che sviluppano una nuova prospettiva. Basta guardare i testi cui Kropotkin
fa riferimento quando commenta le nuove osservazioni con un «ora che li
conosciamo meglio»: il saggio di Rink del 1887, quello di Post del 1890
e quello di Lewis Morgan del 1877; tutte date posteriori alla pubblicazione
degli studi di Darwin.
Ostaggi delle
nostre domande
Per Kropotkin, non si tratta semplicemente di coinvolgere i primitivi nella
dimostrazione di un «buon» racconto dell’origine, si tratta
anche di trovare un racconto che non li insulti, che non li renda bestiali,
e che non li trasformi in ostaggi delle nostre domande e dei nostri problemi.
Quando analizza il modo in cui sono cambiati i popoli non occidentali, quando
descrive la maniera in cui hanno coinvolto i loro antropologi in nuovi quesiti,
e come tali quesiti a loro volta abbiano attivato nuove storie, Kropotkin dà
prova di un vero talento scientifico: quello di accettare l’impegno a
«parlare per», quello di tener conto delle esigenze del «fare
conoscenza». Non si tratta soltanto di imparare a «parlare correttamente
di», si tratta di sottoporsi ai vincoli del «parlare correttamente
per». Ricordiamoci che uno dei rimproveri rivolti al lavoro degli antropologi
riguardava il modo di intendere le pratiche: quando l’osservatore è
intelligente, e soprattutto quando resta più a lungo con i primitivi,
scrive, ci si accorge allora che li descrive «come la migliore o la più
mansueta razza della terra». La critica è appena dissimulata: come
si può pretendere di spiegare coloro che non ci si prende la briga di
conoscere e di comprendere? Come possiamo pretendere di interessarci a coloro
cui non diamo alcuna possibilità di coinvolgerci? Come sperare di costruire
un sapere attendibile nei confronti di coloro cui non viene data alcuna possibilità
di stupire, di sconcertare, di «decentrare» colui che si rivolge
a loro, e di raccontare dunque una storia diversa?
Significa allora che le scimmie dell’origine sono diverse da quelle di
Darwin perché è diverso il modo in cui Kropotkin è stato
coinvolto dai primitivi? Devo confessare che questa versione è abbastanza
affascinante, ma temo che sia troppo semplice. Certo, Kropotkin rende possibile
una nuova versione dell’origine, in cui i selvaggi hanno un ruolo completamente
diverso da svolgere. Ma questi ultimi non sono l’unica parte in causa.
Le scimmie cui Darwin chiedeva di fornire le prove dell’evoluzione e della
selezione naturale in Kropotkin danno il proprio sostegno a un altro progetto:
quello di dimostrare l’evoluzione della natura, ma questa volta rompendo
con il sistema della competizione. Come, a seconda dei tempi e delle ricerche,
i primitivi sembrano richiedere un diverso modo di conoscerli, così la
natura coinvolge Kropotkin in una storia diversa.
Certo, rileggendo le critiche che Kropotkin rivolge alla teoria della selezione,
e in particolare la sua critica della competizione e della lotta tutta «zanne
e artigli», potremmo ricollegare questa nuova versione della teoria dell’evoluzione
al suo progetto politico: quello di creare piccole comunità anarchiche
organizzate sui principi della solidarietà. In questa prospettiva, non
sarebbe quindi strano che Kropotkin cercasse nella natura le prove dell’esistenza
di quella solidarietà e le condizioni che la rendono possibile. Sottoporremo
così Kropotkin alla stessa critica che Marx rivolgeva a Darwin: nella
natura vede soltanto ciò che la sua società (in questo caso utopica)
lo induce a vedere. Ma una tale critica sarebbe di nuovo troppo semplice, e
soprattutto ingiusta: così come, per comprendere le scelte di Darwin,
ho invitato a procedere più cautamente, a rendere le cose più
complicate, a prendere in considerazione un maggior numero di fatti e di questioni
tecniche, di selvaggi vittoriani e di pratiche antropologiche, di abitudini
degli animali e di testimonianze di quanti se ne interessano, seguendo Kropotkin
dobbiamo esplorare anche ciò che ha reso possibile la versione di una
diversa «natura». E fra le cose che hanno reso possibile questa
versione dobbiamo annoverare la natura stessa. Infatti, come il periodo degli
antropologi ha permesso una diversa testimonianza nei confronti degli autoctoni,
così gli spazi della terra russa hanno richiesto per la natura una storia
diversa. I selvaggi non sono gli stessi, e neppure gli animali.
Naturalisti
da scrivania
Per capire bene come questi animali abbiano potuto condurre Kropotkin a proporre
una nuova versione, dobbiamo innanzi tutto notare una coincidenza: le critiche
che egli formula contro l’antropologia trovano un preciso equivalente
in quelle che rivolge ai teorici della natura. Ricordiamoci che quando chiede
alla natura di testimoniare, Kropotkin descrive delle spedizioni. E proprio
quelle spedizioni sono alla base della sua critica contro i naturalisti da scrivania:
soltanto «quando studiamo gli animali, non nei laboratori e nei musei,
ma nelle foreste e nella prateria, nelle steppe e sulla montagna» possiamo
avere la possibilità di vedere, nella natura, qualcosa di diverso da
ciò che la teoria, la storia o la filosofia ci hanno insegnato a vedere.
Soltanto in questa situazione potremo vedere qualcosa di diverso da combattimenti,
rivalità e competizione. Kropotkin racconta la storia singolare dell’incontro
con l’ambiente, l’impressione che gli suscita il mondo animale della
regione del Vatim in Siberia, la specificità delle vallate dell’Amúr
e dell’Ussuri, dove pullula la vita animale... Inoltre, al termine di
quelle osservazioni che lo disorientano perché non trova l’aspra
concorrenza cui la lettura di Darwin l’aveva preparato, precisa che la
stessa impressione si coglie nella maggior parte delle opere degli zoologi russi.
Bisogna forse essere russi per vedere nella natura modalità di selezione
differenti? A questo punto, prima di rispondere, dobbiamo soffermarci su un
particolare sufficientemente importante perché Kropotkin lo citi. Non
soltanto fa delle spedizioni, ma indica anche il luogo di tali spedizioni. Ovviamente,
come preannunciava la sua critica, non le fa nei musei o nei giardini zoologici,
ma neanche in qualche isola, vero e proprio laboratorio circoscritto, o negli
esuberanti Tropici, e neppure nei boschi dell’Inghilterra; le fa nelle
immense pianure della Russia.
Kropotkin sa che il terreno delle sue ricerche non è lo stesso di Darwin,
perché a quell’epoca è la rarità della vita, lo spopolamento,
e non l’eccessiva popolazione, il tratto caratteristico di quella immensa
parte del globo che chiamiamo Asia settentrionale. Ne è tanto più
consapevole in quanto il suo esilio gli offre tutti i termini di paragone: ha
passato buona parte della sua vita in Russia, prima che le sue idee politiche
lo costringessero a chiedere asilo all’Inghilterra. La terra di Russia
non è per nulla simile a quella con cui si confronta Darwin, e di conseguenza
coloro che la abitano non possono comportarsi come le persone di cui parla quest’ultimo.
L’ethos degli organismi che vivono in pianure immense e ricche, i loro
modi di essere e di vivere con gli altri non possono non essere profondamente
diversi. Queste osservazioni inducono quindi Kropotkin a dubitare non della
competizione, ma dell’importanza che le era stata attribuita. E se egli
ha posto una domanda particolare al suo terreno di ricerca e ai suoi animali,
è innanzi tutto perché la specificità stessa di quel terreno
e dei suoi animali richiedeva quel genere di domande.
Certo, bisognava essere russo per lasciarsi sollecitare da questi dubbi. A condizione
di comprendere bene che cosa significhi il fatto di essere russo. Da una parte,
Kropotkin può essere definito un naturalista russo nel senso che è
stato sensibilizzato, da una tradizione politica e come buona parte dei suoi
colleghi russi, alla pertinenza di certe domande o alla ridiscussione di alcuni
modelli fondati sulla concorrenza. Dall’altra, Kropotkin è anche
un naturalista russo nel senso che ha imparato a essere naturalista in una natura
particolare, una natura la cui singolare manifestazione impone certe domande;
una natura nella quale i percorsi intrapresi dall’evoluzione non sono
gli stessi nelle pianure della Siberia o nelle valli dell’Amúr.
Il fatto di appartenere a quella tradizione politica, di essersi sensibilizzato,
con l’esilio, alla diversità delle nature, o ancora il fatto di
essere diventato critico grazie ai più recenti studi di antropologia,
costituiscono altrettanti motivi che hanno incoraggiato Kropotkin a dubitare,
e più in specifico a dubitare delle generalizzazioni, che sono spesso
infondate o poco plausibili. La natura dei musei, dei filosofi o delle teorie,
la visione del selvaggio derivata da pratiche etnocentriche, proprio come la
versione dei primati ereditata dagli antropologi che li conoscono soltanto attraverso
libri e modelli, non dimostrano forse tutte che non abbiamo imparato a pensare
le domande che quegli esseri e quelle nature richiedono? Infatti, queste «nature»
dimostrano la pluralità delle modalità di riuscita: una è
la cooperazione, un’altra è data dalle trasformazioni mediante
gli effetti della competizione. Le condizioni di riuscita del ricercatore sono
quindi subordinate al modo di trovare le domande giuste, gli accessi pertinenti
per comprendere e celebrare la riuscita di ciò che interroga.
Relegato nel
dimenticatoio
Tuttavia, che questo terreno singolare abbia potuto coinvolgere Kropotkin e
pretendere nuove domande che testimoniano della sua riuscita non costituisce
una garanzia della stabilità di queste ultime e delle risposte che suscitano.
Ne è prova il fatto che egli fu a lungo relegato nel dimenticatoio della
storia naturale. Eppure, sorprendentemente, tutti i dubbi di Kropotkin e le
condizioni che li hanno provocati si ritroveranno presenti e articolati in modo
molto simile circa settant’anni dopo, quando sarà contestato il
ruolo che, nella storia della nostra origine, veniva attribuito a quel babbuino
aggressivo e geloso: la critica dell’ideologia che impronta i miti dell’origine;
il ruolo decisivo di una nuova antropologia nella modalità di interrogarne
gli attori; la generalizzazione a partire da alcune specie selezionate di primati;
l’esigenza di un modo diverso di porre le domande in una prospettiva caratterizzata
dalla coscienza politica. Avrebbe potuto essere considerato un precursore. Ma
non fu così. Kropotkin fu dimenticato. In genere è stato citato
come il contrario dello scienziato, «uno di quei pensatori sciocchi e
confusi, che lasciano entrare l’emotività e le speranze personali
nel rigore dell’analisi», come spiega Stephen Jay Gould nella bella
apologia che gli ha dedicato. Certo, Kropotkin era un anarchico che confidava
nella realizzazione di un progetto di società secondo il quale delle
piccole comunità avrebbero stabilito consensualmente le loro regole a
beneficio di tutti, eliminando il bisogno di ricorrere a un governo centrale.
Per i suoi contemporanei inglesi, che l’avevano accolto durante l’esilio,
professava delle strane idee politiche derivate dal contesto della sua giovinezza.
Ma la sua biologia assomigliava davvero troppo al suo progetto sociale, e sembrava
chiedere esageratamente alla natura di fornire le condizioni di un’esistenza
pacifica fondata sulla solidarietà. Fu quindi relegata nel novero delle
invenzioni ideologiche fantasiose. La biologia di Kropotkin era troppo somigliante
alle sue idee politiche ed entrambe, agli occhi dei suoi contemporanei inglesi,
apparivano esotiche.
Ma quello che, in una tradizione mononaturalistica come la nostra, doveva apparire
ancora più esotico, era la strana idea secondo la quale potrebbe esserci
una molteplicità di nature, senza che, per spiegarne la diversità,
ci si debba rifare all’evidente molteplicità delle culture. Si
dimenticava che se possiamo effettivamente mobilitare la natura nelle nostre
storie, nei nostri progetti e nelle nostre domande, anche le nature e coloro
che le abitano, appena gliene diamo la possibilità, possono coinvolgerci
nelle loro storie e nelle loro domande, nelle loro abitudini e nei loro problemi.
È evidente che la forza di questi coinvolgimenti non dipende né
dalle sole nature né dagli umani che le interrogano. Ne è prova
il relativo oblio nel quale furono a lungo lasciate le domande, i dubbi e le
osservazioni di Kropotkin. Nonché l’oblio di tutte le scimmie candidate
al ruolo di primate dell’origine, che ci proponevano un modo diverso di
fare storia. Furono in molte a dover attendere dietro le quinte che qualcuno
le evocasse di nuovo, peraltro spesso per motivi diversi da quelli di una candidatura
un po’ ingombrante.
Pratica delle
trasformazioni
Eppure, poco prima della pubblicazione del primo lavoro di Darwin, e per tutt’altre
ragioni, qualcuno si era già accinto a farle sussistere. Infatti, il
naturalista creazionista inglese Edward Pett Thompson si era impegnato nel considerevole
compito di far conoscere meglio gli animali ai suoi contemporanei.
Nella sua terza e ultima opera, The Passion of Animals, pubblicata nel 1851,
le scimmie ne saranno gli attori privilegiati. La loro presenza dimostra benissimo
quanto fossero disponibili già all’epoca in cui Darwin decise la
scelta del nostro progenitore. E tuttavia sono coinvolte in un progetto del
tutto diverso.
Il nome di Edward Pett Thompson è oggi completamente dimenticato, benché
alcune delle sue osservazioni siano riscontrabili nei libri di Romanes, l’allievo
di Darwin, e io abbia potuto trovare un riferimento a lui in Darwin stesso.
Bisogna dire che fu sfortunato: essere creazionista e pubblicare proprio otto
anni prima de L’origine dell’uomo di Darwin per un naturalista non
costituiva sicuramente la migliore delle opportunità. Ma qui non si tratta
di correggere un oblio della storia, bensì di imparare a pensare con
lui delle inedite possibilità di cambiamento, con e nella pratica. Perché
Thompson farà di quella che qualche tempo dopo diventerà l’etologia
una pratica delle trasformazioni.
Per certi aspetti, e malgrado l’abbandono delle teorie che orientano le
sue interpretazioni, nel complesso Thompson mi pare molto vicino agli etologi
contemporanei, e in particolare a quanti, negli ultimi anni, hanno attivamente
integrato al loro lavoro la questione della responsabilità nei confronti
delle trasformazioni che proponiamo agli animali, o di quelle che rifiutiamo
loro. Il progetto di Thompson si riassume in poche parole: voleva trasformare
gli animali. E per farlo, ha pensato che fosse meglio cominciare trasformando
gli umani!
Vinciane Despret
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Vinciane Despret
QUANDO IL LUPO
VIVRÀ CON L’AGNELLO
sguardo umano e comportamenti animali
232 pp. / euro 18,00
Vinciane Despret insegna Filosofia della psicologia nell’Università di Liegi ed Etologia delle società animali nell’Università di Bruxelles. Questo è il suo secondo libro che si rivolge anche a un pubblico di non-specialisti dopo Naissance d’une théorie éthologique, la danse du cratérope écaillé (Seuil 1996). Presso Elèuthera è già uscito il titolo Le emozioni, etnopsicologia dell’autenticità (2003) e presso Seuil sta per uscire Clever Hans: le cheval qui savait compter (2004).
anarchici
Ritratti
in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura
a cura di Massimo Ortalli
Bruma sul ponte
Non conosciutissimo in Italia (anche se ultimamente molti suoi romanzi sono
stati pubblicati da Fazi Editore), ma ammirato quasi al pari di Simenon in Francia,
il giallista Léo Malet (Montpellier 1909-Parigi 1996), personaggio singolare
nel panorama letterario d’oltralpe, fu assiduo frequentatore degli ambienti
anarchici parigini e, anche se le sue peripezie lo allontanarono, negli anni
della maturità, dalle amicizie giovanili, il suo distacco dal mondo e,
soprattutto, dal pensiero libertario, non fu mai totale. Di modeste origini
e uomo dai mille mestieri (lavabottiglie, fattorino, chansonnier, operaio, impiegato,
scaricatore, strillone), quella di Malet è una biografia ricca e movimentata.
Negli anni venti e trenta, dopo un breve periodo trascorso in carcere, lo troviamo
fra i collaboratori e diffusori di riviste quali «l’en-Dehors»,
«L’Insurgé», «La Revue Anarchiste», poi
esponente del movimento surrealista, amico di Breton e Dalì, quindi occasionale
aderente al movimento trotzkista. Nel 1940 è nuovamente in prigione con
l’accusa di avere attentato «alla sicurezza interna ed esterna dello
Stato» e poco dopo viene catturato dai tedeschi e inviato, per quasi due
anni, in campo di concentramento. Tornato in libertà, inizia la sua carriera
di giallista (sono circa settanta i suoi lavori) dando vita a numerosi personaggi,
tra i quali il più conosciuto è l’investigatore privato
Nestor Burma, anch’esso anarchico in gioventù e ancora fortemente
influenzato, nel giudicare il mondo e le situazioni nelle quali si trova ad
indagare, dalle idee libertarie che avevano infiammato la sua giovinezza.
Inevitabile, dunque, viste queste frequentazioni e le caratteristiche della
sua creatura, che il milieu dell’anarchismo parigino diventi quasi una
costante delle sue opere. Così nel famoso Chilometri di sudari il deus
ex machina è un miliziano francese morto nel 1936 combattendo nella Colonna
Durruti, e non è un caso che in Nebbia sul ponte di Tolbiac, uscito nel
1956 e giudicato fra i suoi lavori più riusciti, i protagonisti siano
alcuni degli ex componenti di un Centro vegetaliano anarchico situato nel cuore
del XIII Arrondissement. Uno di loro, Abel Benoit Lenantais, ex calzolaio soprannominato
Liabeuf ed ora rigattiere, rimasto fedele anche in tarda età ai rigorosi
costumi libertari, viene misteriosamente accoltellato nella propria abitazione,
ma prima di morire riesce a raggiungere, con un messaggio affidato a una misteriosa
gitana, l’antico compagno Burma, avvertendolo così del pericolo
che incombe su altri camarades già frequentatori del vecchio sodalizio.
Nel corso delle indagini, complicate dalla misteriosa presenza della bella zingara
e ricche degli immancabili colpi di scena di un «giallo» che si
rispetti, l’investigatore ritrova altre antiche conoscenze, più
o meno memori degli antichi ideali, ma tutte ancora significativamente segnate
da quella specie di imprinting che deriva da una adesione anche saltuaria all’anarchismo.
Va da sé che l’intreccio, lo svolgimento di questa intricata storia
piena di ombre e di luci, nasca e muoia nell’ambito degli antichi habituées
della comune vegetaliana, in una fosca resa dei conti di avventurose vicende
e ambigue complicità, nate trent’anni prima e quindi amaramente
svelate e risolte da Nestor Burma. E l’amarezza dell’investigatore,
quando si ritrova a riannodare i fili di storie nate nell’entusiasmo dell’ideale
e risoltesi nella banalità del delitto, è la stessa che Léo
Malet affida, cinicamente, alle parole con cui l’assassino confessa il
proprio misfatto: «Abbiamo litigato e l’ho pugnalato. Ho reso un
servizio alla società perché quel Lenantais era un puro. Vale
a dire molto più pericoloso per la società di molti altri».
Personaggi originali
e strampalati
Senza dubbio, nell’invenzione di queste storie «anarchiche»,
c’è una certa condiscendenza, da parte di Malet, verso la sensibile
curiosità di un lettore facilmente affascinabile dalla descrizione di
situazioni e personaggi originali, stravaganti e vagamente strampalati, quali
appaiono, ad esempio, nelle pagine sulla Comune vegetaliana. Ma l’ironico
distacco con il quale l’autore rimarca la frattura definitiva con le sue
precedenti esperienze politiche e sociali, lascia trasparire pur sempre una
venatura di affetto, e anche di rispetto, che non fatichiamo a credere più
che sincera e motivata dall’avere riconosciuto, invecchiando, la peculiare
dimensione spirituale ed intellettuale del pensiero libertario. E del resto
l’anarchismo francese, forse perché cosmopolita crocevia delle
obbligate migrazioni degli anarchici di mezzo mondo, non ha mancato di dar vita
a personaggi e correnti filosofiche che spesso, ben più che in Italia,
hanno rischiato di apparire come bizzarre caricature di un estremismo esistenziale
da noi sostanzialmente sconosciuto.
Se, infatti, le correnti organizzatrici e sindacaliste sono state, in Francia,
particolarmente forti e capaci di influenzare anche il percorso del nostro anarchismo
organizzato, altrettanta importanza e diffusione hanno avuto quelle tendenze
che esprimevano un rifiuto totale dell’azione sociale e di propaganda
per rifugiarsi ora nell’illegalismo più o meno estremo, ora nella
edificazione di una vita «altra» e separata rispetto alla società.
Tendenze che non hanno mancato di esprimersi ovunque fossero diffuse le idee
libertarie, ma che in Francia più che altrove hanno trovato fortuna e
ragion d’essere. Se da una parte, infatti, i lettori del «Père
Peinard» ritrovavano nello scoppiettante argot di Emile Pouget e dei suoi
collaboratori il linguaggio dei bassifondi e di quel sottoproletariato urbano,
tanto generoso quanto tenacemente illegalista e pericoloso per l’ordine
borghese, a cui appartenevano, dall’altra parte diversi discepoli della
diade Libertà e Uguaglianza sperimentavano, nella più coerente
delle pratiche nonviolente, anche se non sempre legalitarie, gli insegnamenti
della scuola neo-Malthusiana, precorritrice della liberazione sessuale degli
anni sessanta, espressi dai vari Charles Albert, Eugéne e Jeanne Humbert,
Mauricius, René Chaughi, Sebastien Faure ed E. Armand. Profeti di un
mondo nuovo, libero dai condizionamenti di una morale codina e repressiva, assertori
della necessità che un’umanità sempre più soffocata
dalle convenzioni sociali trovasse finalmente la capacità di uniformarsi
alle sole leggi accettabili (vale a dire quelle naturali), questi anarchici,
che alcuni begli spiriti avrebbero potuto trovare stravaganti, pagarono comunque
con lunghi anni di carcere e di emarginazione il fio della loro irriducibile
estraneità ad ogni forma di potere. Liberi dagli schematismi, attenti
solamente al rispetto delle individualità altrui e delle rispettive differenze,
gli uni e gli altri, tanto i proletari illegalisti quanto i sognatori di un
mondo nuovo, si ritrovavano a discutere, probabilmente, nel Centro anarchico
vegetaliano del XIII Arrondissement, quello stesso al quale Malet, avendolo
evidentemente frequentato, si è ispirato, in questo suo Nebbia sul ponte
di Tolbiac.
Massimo Ortalli
di Léo Malet
«Maledetto anarchico!»
Gli restituii prima la stretta, poi la mano e risi:
«Per fortuna che non sono un poliziotto. Altrimenti la segnalerei ai suoi
superiori. Cos’è questo vocabolario? Aderisce forse a una cellula
comunista?».
Replicò anche lui ridendo:
«È a lei che bisogna chiederlo».
«Io non sono comunista».
«È stato anarchico. Forse lo è ancora. Per me, è
la stessa cosa».
«È ormai molto tempo che non lancio bombe», sospirai.
«Maledetto anarchico!», ridacchiò l’ispettore.
Sembrava divertirsi sul serio.
«Oh! Ma smettiamola! Signor Mac Carthy», dissi. «Ha mai sentito
parlare di Georges Clemenceau?».
«La Tigre?».
«Si, la Tigre. O, se preferisce, il Primo Poliziotto di Francia, come
si è autodefinito lui. Purché mi lasci in pace, le ripeterò
quello che ha detto un giorno la Tigre, detto o scritto, cito a memoria: “L’uomo
che a sedici anni non è stato anarchico è un imbecille”».
«Davvero? La Tigre ha detto questo?».
«Si, vecchio mio. Non lo sapeva?».
«Ma si, certo...».
Sospirò:
«…La Tigre!…».
E con un gesto automatico gettò uno sguardo in direzione dell’orto
botanico.
Poi, tornando a me:
«…La sua citazione mi sembra incompleta. Non ha per caso aggiunto:
“…ma lo è – imbecille – anche chi è ancora
anarchico a quaranta”, o qualcosa del genere?».
«È esatto. Ha aggiunto qualcosa del genere».
«E allora?».
Sorrisi:
«Tra le affermazioni di Clemenceau bisogna fare una cernita. Io ne scarto
non poche».
Sorrise a sua volta:
«E lei però non è un imbecille!».
di Léo Malet
«Un buon amico»
«Forse non si considerava né Martine Carol, né Juliette
Greco. Era un tipo originale».
«Sì. Mi dia qualche informazione su di lui. Al punto in cui siamo…
tanto è morto. Le chiacchiere non possono più fargli alcun male».
«Cosa vuole che le dica? Era un bel tipo, un buon amico. Era calzolaio
e, a causa del suo mestiere, che esercitava a intermittenza, lo chiamavamo il
Ciabattino. Sempre per via del suo mestiere lo chiamavamo anche Liabeuf sebbene
non avesse mai ucciso nessuno, né uno dei vostri colleghi né un
normale cittadino».
«Effettivamente sono i nomi che figurano nel casellario giudiziario. Allora?
Nessun errore?».
Prima di rispondere esaminai un’altra volta, e molto a lungo, il viso
severo, indurito dalla morte. Gli tolsi i baffi, gli aggiunsi i capelli biondi
indisciplinati, capelli da anarchico. Quello e il naso, tornava tutto.
di Léo Malet
«Un malfattore
onesto»
«Torniamo al tatuaggio», disse. «Ricorda cosa rappresenta?»
«Tatuaggi, al plurale. Una moneta sul braccio e “Né Dio né
Padrone” sullo stomaco».
«Esatto», disse il poliziotto.
«… una moneta».
Prese il lenzuolo da sotto il mento del morto per abbassarlo fino alla vita.
L’iscrizione sovversiva, che decorava i suoi pettorali, era di un blu
slavato. La D di Dio non era più visibile. Una brutta ferita d’arma
bianca l’aveva cancellata in modo più definitivo di quanto avrebbe
saputo fare un professionista. Un altro profondo sfregio sottolineava la parola
“Padrone”. Sul grasso del braccio destro era disegnata una moneta
con l’immagine della Seminatrice.
«Né Dio né Padrone», sospirò l’ispettore.
«Non molto originale per un anarchico».
«E stupido, soprattutto», dissi. «Anche se ero più
giovane di lui, e di parecchio, all’epoca ero un ragazzino, ricordo di
averlo rimproverato per esserselo fatto».
«Non le piaceva lo slogan? Credevo che…».
«Non amavo, e continuo a non amare, i tatuaggi. Bisogna essere imbecilli
per farsi tatuare».
«Oh! Lo sono spesso anche i re!».
«Una cosa non nega l’altra. E poi, i re hanno la pappa pronta. Possono
concedersi qualsiasi fantasia. Mentre… Cerchiamo di capirci, ispettore,
non era esattamente un santo, per lo meno non del genere che viene abitualmente
venerato…».
Tirai su il lenzuolo fino alla calvizie quasi oscena del cadavere. Il guardiano
in casacca grigia completò l’opera con un gesto preciso e meticoloso,
quasi materno.
«… Anche se non era apertamente favorevole all’illegalità,
Lenantais non era nemmeno del tutto contrario», proseguii. «Prima
che lo conoscessi era stato coinvolto in una storia di banconote false. Ecco
perché ho fatto riferimento alle sue impronte. Ad ogni modo, era stato
al fresco, vero?»
«Esatto. Si è preso due anni».
«Quando l’ho conosciuto era tranquillo e, glielo ripeto, anche se
non si dichiarava apertamente a favore dell’illegalità perché
non voleva fare proselitismi, la questione non era risolta, si capiva che, presto
o tardi, l’illegalismo lo avrebbe sedotto di nuovo. E io pensavo che quando
uno è destinato a entrare in aperto conflitto con la società non
deve esporsi e attirare inutilmente l’attenzione. I mezzi di identificazione
dei recidivi sono già sufficientemente numerosi. Inutile fornirne dei
supplementari ai poliziotti».
I1 guardiano spalancò gli occhi rotondi. L’ispettore rise:
«Benissimo! Vedo che, malgrado la giovane età, dava già
ottimi consigli!».
Gli feci eco. A ciascuno il suo turno:
«Ho conservato questa qualità”.
«Bene, e dove ha conosciuto questo fuorilegge?».
«Non lontano da qui. Anche questo è buffo, no? In trent’anni
non si può dire di aver fatto molta strada. L’ho conosciuto al
Centro vegetaliano di rue de Tolbiac».
«…riano. Voleva dire vegetariano».
«No, vecchio mio. Ma cosa vi insegnano a scuola? Vegetaliano. I vegetariani
non mangiano carne, ma si concedono uova e latticini. I vegetaliani invece mangiano,
mangiavano, almeno quelli che ho conosciuto io, non so se ne esistano ancora,
esclusivamente vegetali, con appena un filo d’olio di oliva per condirli.
E nemmeno loro erano dei puri. Ce n’era uno che sosteneva che l’unico
modo accettabile di consumare l’erba era brucarla a quattro zampe in un
campo».
«Ma dice sul serio? Che mondo!».
«Sì, uno strano mondo. Ho passato la vita a circondarmi di fenomeni.
Ne ho una bella collezione nei miei ricordi».
Puntò l’indice verso il corpo rigido:
«E Lenantais? Sappiamo che non fumava, non beveva, non mangiava carne.
Era anche lui un pazzo di quel genere?».
«No. Cioè, ai vostri occhi potrebbe anche sembrare un pazzo, ma
di un’altra categoria. Le racconto un episodio. C’è stato
un periodo in cui era quasi un barbone. Anzi, senza il quasi. Viveva alla bell’e
meglio…».
«Rubacchiando qua e là?».
«Non credo. Oppure visitava solo negozi da fame, perché non mangiava
tutti i giorni. Ora, a quell’epoca era tesoriere di una piccola organizzazione.
Gli avevano dato l’incarico prima che si riducesse in miseria…».
«Capito. Ha sgraffignato il malloppo?».
«No, appunto. C’erano cento o duecento franchi in cassa. Era il
1928 e allora erano una discreta somma. Gli altri se ne erano fatti un vero
e proprio cruccio e non osavano parlarne, pensando, come lei, che lui se ne
fosse accaparrata sicuramente una parte. E invece no! Restava giorni senza mangiare
accanto a quel malloppo senza toccarlo. Erano i soldi degli amici, dell’organizzazione.
Ecco che tipo di uomo era Albert Lenantais quando l’ho conosciuto».
«Insomma, un malfattore onesto!», ironizzò l’ispettore.
di Léo Malet
A dieci gradi
sottozero
Tornò a sedersi sullo sgabello. Poco dopo l’adolescente raggiunse il proprio letto e vi si distese. Da dove si trovava, con le mani incrociate sotto la nuca, poteva vedere la sveglia. Alle quattro sarebbe dovuto andare al lavoro. Maledetta neve! Se fosse caduta fitta come il giorno prima non sarebbe stato per niente piacevole vendere i giornali sotto la burrasca, ma bisognava pur mangiare. Non doveva lasciarsi abbattere come lo spagnolo. No, non doveva. «Albert Lenantais sembrava disapprovarmi», pensò l’adolescente, «quando ho parlato di viaggiare senza biglietto». E però… se quello che si raccontava era vero, il Ciabattino aveva fatto due anni di prigione per complicità con dei falsari. L’adolescente si sorprese a porsi delle domande su Lenantais, detto il Ciabattino, detto Liabeuf. Cosa che si rimproverò l’istante dopo. Tra anarchici non si fanno domande. L’adolescente smise di fissare le lancette della sveglia, si sistemò sul letto e abbracciò con lo sguardo l’intera fila di miseri letti. In fondo alla stanza, tre uomini quasi mescolavano le loro opulente capigliature per discutere aspramente un punto delicato di argomento sociobiologico. Più vicino, steso sul letto, sognante, calmo e solitario, un giovane fumava beatamente una pipa dal lungo cannello. Lo chiamavano il Poeta, ma nessuno aveva mai letto i suoi versi. Sotto le coperte, lo spagnolo si agitava. Il suo vicino russava protetto da un manifesto che annunciava per la sera stessa, alla Casa dei Sindacati, boulevard Auguste-Blanqui, la seduta del «Club degli Insorti». Argomento trattato: Chi è il colpevole? La Società o il Bandito? Oratore: André Colomer. Quello che russava aveva passato la notte, con un bicchiere di latte in pancia come unico viatico, a incollare quei manifesti in tutto l’arrondissement, a dieci gradi sottozero, e da bravo attacchino clandestino si era preso cura di strappare un angolo di ogni manifesto, per ingannare la polizia, per farle credere che in quel brandello scomparso, verosimilmente strappato da vandali, fossero stati apposti i sigilli obbligatori. Il suo armamentario, un secchio da marmellata da cui emergeva il manico di un pennello, riposava alla testa del letto, accanto a uno zaino vuoto e a una cassa straripante di giornali
di Léo Malet
Mancanza
di sincerità
«Ma lascia perdere, Lacorre», intervenne Lenantais senza muoversi
dalla sua postazione, senza nemmeno sollevare gli occhi dal volantino che stava
leggendo. «Lascia perdere. Cosa vuoi che faccia? Ti credi forse più
anarchico di lui?».
La sua voce era fredda, tagliente come una lama. Lenantais non amava Lacorre.
Sentiva istintivamente, sotto gli eccessi verbali, una mancanza di calore interiore
e di sincerità.
«Certamente», rispose l’altro.
Lenantais abbandonò il volantino:
«Mi domando se tu sappia anche solo lontanamente cosa significhi. È
bello arrivare un giorno e dire “Sono un compagno”. È molto
bello, semplice e facile. Da noi chiunque può entrare e uscire come vuole.
Non si fanno domande a chi si presenta».
«Ci mancherebbe altro!».
«Ciò non significa che secondo me un anarchico sia un’altra
cosa, ecco tutto».
«Spiegamelo allora!».
«Non ho tempo da perdere».
«In ogni caso», disse Lacorre, «un anarchico che ha il senso
della dignità non adotta un’attitudine passiva e rassegnata come
questo giovanotto. Non si abbassa a vendere questa robaccia borghese. Si difende,
se la cava, si mette a rubare…».
«Eccoci al punto!».
«Esattamente!»
«Sono tutte stronzate! Ognuno è libero di fare la vita che vuole
purché non offenda in nulla la libertà dei compagni. Lui vende
i giornali. Tu simuli incidenti sul lavoro. Siamo tutti liberi…».
«Se gli illegalisti…».
Lenantais si alzò:
«Gradirei non essere seccato con l’illegalismo e la riconquista
individuale», articolò. (Il naso di traverso fremeva). «È
un argomento vietato agli incapaci che simulano incidenti sul lavoro e sudano
di paura all’annuncio di una visita di controllo nella sede dell’assicurazione.
Fino a quando non hai assalito un esattore, devi solo chiudere il becco. Parlare!
Parlare! Ne ho conosciuti anche troppi di questi teorici bravi a parlare che
però restavano tranquilli a casa loro mentre altri poveri coglioni passavano
all’azione e si facevano beccare».
«Soudy, Callemin, Garnier…», cominciò Lacorre.
«Hanno pagato», l’interruppe Lenantais. «Hanno pagato
due volte. Hanno pagato e io li rispetto. Ma tu, se li avessi capiti almeno
un po’, se avessi capito quanto erano superiori a un semplice furfante
come te, non li offenderesti con i tuoi omaggi».
Lacorre si imporporò:
«Per parlare così hai forse assalito anche tu un bancario?».
«Anch’io ho pagato. Mi sono beccato due anni di prigione per aver
falsificato del denaro, i compagni te lo possono raccontare. Non ne vado assolutamente
fiero, ma mi sembra un’altra cosa rispetto ai finti incidenti sul lavoro».
«Non continuerò così per sempre», gridò Lacorre.
«Un giorno mi ci butterò davvero e vedrete di cosa sarò
capace. Lo farò ruzzolare anch’io un esattore».
«Oh! Non ne dubito», lo canzonò Lenantais. «Mi stupirebbe
se tu non riuscissi a fare una cosa così intelligente. E quando avrai
fatto fuori uno di quegli imbecilli che portano in giro delle fortune in cambio
di un tozzo di pane, finirai in galera o salirai alla ghigliottina, senza nemmeno
aver avuto il tempo di comprarti un cappello con il ricavato del colpo. Io ci
tengo alla mia vita. E non mi sorride affatto l’idea di dispiegare la
mia individualità tra quattro assi o in galera. L’ideale, vedi…».
(Si mise a ridere). «… sarebbe assalire un esattore senza spargimento
di sangue e senza che la cosa si venga a sapere, e vivere di quella fortuna
acquisita in modo disonesto, ammesso che esistano fortune che non siano state
acquisite in modo disonesto, nella totale impunità. Ammetto però
che un progetto del genere non è per niente facile da realizzare».
Lacorre alzò le spalle con uno sguardo di pietà:
«Direi di sì. Queste sono fesserie. E grosse anche. Mi fanno venire
il mal di pancia!».
Si alzò e si avviò verso l’uscita. Furioso, sbatté
la porta dietro di sé. Il suo interlocutore rise piano e, siccome la
notte iniziava ad allungare dappertutto le sue ombre, andò a manovrare
un interruttore. Qualche lampadina anemica, fissata al soffitto dell’ampia
sala, diffuse una luce giallastra. Lenantais tornò a sedersi accanto
alla stufa. Gli uomini dai capelli lunghi continuavano a discutere a voce bassa,
troppo assorti nel loro dibattito per interessarsi a ciò che aveva visto
opporsi – ancora una volta – Lenantais a Lacorre. Il Poeta aspirava
silenziosamente dalla pipa. L’adolescente si dedicava ai propri calcoli.
Lo spagnolo e l’attacchino dormivano.
Brani tratti da: Léo Malet, Nebbia sul ponte di Tolbiac, Fazi Editore,
Roma, 2002.
di E. Armand
Una specie
riconoscibile
Della solidarietà imposta
L’uomo è un essere socievole e l’individualista che fa parte
del genere umano non fa eccezione alla regola. L’essere umano non è
socievole per puro caso, poiché la sua organizzazione o costituzione
fisiologica lo costringe a ricercare, per completarsi, per riprodursi, uno dei
suoi simili di sesso diverso. In linea di massima, si può pertanto costatare
che gli uomini praticano la sociabilità senza riflessione o sotto la
minaccia di una violenza: a scuola, in caserma, più tardi all’officina,
essi vivono una gran parte della loro esistenza in comune con degli individui
verso i quali nessuna simpatia li spinge; nelle grandi città, dimorano
in immensi edifici, altra specie di caserme, uscio a uscio con dei vicini ai
quali non li unisce alcuna affinità intellettuale o morale. Sovente,
si sposano anche senza conoscersi, senza avere alcuna conoscenza dei rispettivi
bisogni.
Gli individualisti anarchici considerati come “una specie”.
Ora, è appunto questo che non vuole l’individualista anarchico.
Egli non intende essere schiavo della sociabilità imposta, più
di quanto intenda mettersi sotto il giogo della solidarietà forzata.
Egli potrà associarsi ai suoi compagni, agli individualisti, a quelli
del «suo mondo», della «sua specie». «A quelli
della sua specie» è proprio la espressione adatta, giacché
non è possibile negare che gli individualisti formino, in mezzo al genere
umano, una specie riconoscibile da delle caratteristiche psicologiche ben determinate.
Gli individui che, scientemente, ripudiano le dominazioni e gli sfruttamenti
di ogni specie, vivono o tendono a vivere senza idoli o padroni: cercano di
riprodursi in altri esseri al fine di perpetuare la loro specie e di continuare
la loro fatica intellettuale o pratica, la loro opera di emancipazione e, insieme,
di distruzione: codesti individui formano bene una specie a parte, nel genere
umano, una specie assai differente dalle altre specie di uomini, così
come, nella specie canina, il terranova differisce dal botolo.
Intendiamoci bene: non si tratta già di fare dell’individualista
anarchico un “superuomo” fra gli uomini, più di quanto non
si tratti di fare del terranova un “supercane” fra i cani. Esiste
pertanto una differenza: il terranova è un tipo fisso che non evolverà;
il tipo individualista evolverà. Esso compie nel genere umano, la funzione
esercitata dalle specie dei veggenti e dei precursori nella evoluzione degli
esseri viventi. Si può anche assimilarlo a quei tipi meglio dotati, più
vigorosi, più atti alla lotta per la vita, che appaiono ad un certo momento
in seno ad una specie e finiscono con determinare il divenire di questa specie.
Con le loro imperfezioni, le loro manchevolezze, i loro errori, gli individualisti
anarchici, costituiscono, noi pensiamo, allo stato latente il tipo dell’uomo
futuro: l’individuo dallo spirito libero, dal corpo sano, dalla volontà
educata, pronto all’avventura, disposto all’esperienza, vivente
pienamente la vita, ma che non vuole essere un dominato più che un dominatore.
Il «mutuo appoggio» nella specie. Il cameratismo.
L’individualista non è, dunque, un isolato nella sua specie. Fra
di loro gli individualisti praticano il «cameratismo»: come tutte
le specie in costante pericolo d’essere attaccate, essi tendono istintivamente
alla pratica del «mutuo appoggio nella specie». Ritorneremo più
tardi su talune delle forme che può assumere questo «mutuo appoggio».
Comunque, esso tende alla scomparsa della sofferenza evitabile nella specie:
non è un compagno chiunque tenda, al contrario, a prolungare o ad aumentare
la sofferenza dei propri compagni.
L’individualista incita colui che vuol procedere con lui a ribellarsi
praticamente contro il determinismo dell’ambiente sociale, ad affermarsi
individualmente, a forgiare la propria personalità interiore, a rendersi
quanto più possibile indipendente da tutto l’ambiente morale, intellettuale,
economico che lo circonda. Egli spingerà l’ignorante ad istruirsi,
l’indolente a reagire, il debole a diventar forte, il supino a raddrizzarsi.
Egli indurrà coloro che sono male dotati ed i meno atti a trarre soltanto
da loro stessi tutte le risorse possibili, ed a non fare assegnamento su gli
altri.
Brani tratti da: Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, Firenze,
1956.
lettere
casella
postale
17120
Anarchia
“totale”
Alla redazione di Radio Popolare
e.p.c. ad A rivista anarchica
Da diversi anni ascolto la vostra/nostra radio ma è la prima volta che
vi scrivo.
Durante i giornali radio di una decina di giorni fa, nel trattare le tristi
vicende di Haiti dopo la “fuga” di Aristide, avete spesso usato
il termine “anarchia” per descrivere la situazione di caos, soprusi
e uccisioni che quel paese, e in particolare Port-au-Prince, si trovava a vivere.
Già in occasione della seconda guerra del Golfo, quando Baghdad era caduta
in mano agli invasori, era successa la stessa cosa, e già allora alcuni
ascoltatori, anche in diretta, vi avevano segnalato l’uso improprio del
termine “anarchia”. In quell’occasione credo di aver notato
una vostra attenzione a queste critiche perché da un certo punto in avanti
non avete più usato il termine “anarchia” per descrivere
la situazione di Baghdad.
Adesso ci risiamo.
Ritengo piuttosto grave che un organo di informazione come Radio Popolare aderisca
acriticamente a luoghi comuni e faziosi, per non dire di più, che identificano
l’anarchia con situazioni come quelle verificatesi a Baghdad e a Port-au-Prince.
Propongo pertanto a tutta la redazione di approfondire questo tema. I riferimenti
per contattare il movimento anarchico anche a Milano credo non vi manchino;
in ogni caso sono a vostra disposizione per qualsiasi approfondimento o chiarimento.
Un abbraccio
Roberto Panzeri
(Valgreghentino)
P.s. – Sarebbe interessante anche approfondire perché slogan tipo
“I comunisti mangiano i bambini” non siano passati nel “popolo
di sinistra” mentre quello di “Anarchia= caos” sì.
Siamo concordi con quanto espresso da Roberto nella sua lettera a Radio Popolare.
Ascoltando anche noi la radio, siamo rimasti incuriositi dal fatto che a fianco
della parola (usata a sproposito) anarchia venisse utilizzato anche l’aggettivo
“totale”.
Che i redattori potessero usare il semplice termine di CAOS, parola che si presta
egregiamente alla bisogna per la sua brevità e per il fatto di non dar
adito ad interpretazioni ambigue, e non l’abbiano fatto può volerci
dire una cosa molto importante, che stanno elaborando un nuovo concetto d’anarchia:
l’anarchia totale da contrapporre all’anarchia parziale.
Quello che non capiamo però è se quella totale sia negativa mentre
quella parziale è positiva, o viceversa (o forse nessuna delle due!).
Di fronte a questa sfida dialettica siamo rimasti senza punti di riferimento
e ci farebbe piacere se qualche redattore di Radio Popolare, filosofo a tempo
perso, ci ragguagliasse sull’arcano.
“Revisionismo”
libertario
Cara Redazione,
sottolineando il livello ottimo degli articoli del numero di marzo 2004 (era
un po’ di tempo che invece, a fronte di contributi eccelsi, c’era
un po’ sapore di raccogliticcio...) vorrei segnalare, oltre all’eccelso
contributo di Felice Accame sul mancinismo (finalmente anche psicopedagogia
e un po’ di pedagogia clinica su A!) e a quello di bella e preziosa inutilità
(ma l’accento è sugli aggettivi, non sul sostantivo) di Fulvio
Abbate sui “Ricordi” (e qui aggiungerei che la poesia e segnatamente
la prosa poetica mancavano da un po’ su quella rivista così “seria”
che è A...), quelli che credo i tre testi chiave di questo numero, e
pour cause. Mi riferisco a Una scienza inutile di Francesco Robustelli, Il Grande
Controllo di Andrea Papi, L’arma della memoria contro l’oblio di
Jérôme Baschet.
Robustelli integra il classico approccio di Paul Feyerabend sul “probabilismo”
– sintetizzo in modo un po’ brutale, ma lo spazio lo impone –
coinvolgendo la problematica sociale e del rapporto società-scienza-società
(la triade si impone, per le reciproche ricadute), senza neo-dogmatismi à
la Bogdanov né dogmatismi “antidogmatici” (lo scientismo
della “morte della scienza”, per intenderci).
Papi tratta il tema del terrorismo in modo intelligente e non aprioristico il
tema del controllo (informativo, informatico e di pura gestione del Potere,
intelligence compresa ma in modo non onnivoro), senza dar ragione né
a Hardt-Negri (Empire) né a Crisso-Odoteo (“barbari”), cioè
a dire: né la necessità che i movimenti si rapportino con l’Impero
né la tesi del ritiro apoditticamente “antagonista” dal rapporto
con esso.
Baschet, dal canto suo, in questo terzo capitolo della sua riflessione sul Chiapas
mostra a sua volta che non esiste “futuro prevedibile”, non ci sono
“magnifiche sorti e progressive” (Leopardi, do you remember?) della
storia.
Contro il “marxismo ortodosso”, dunque, in tutti e tre i testi,
ma anche contro i cascami di una vulgata anarchica che dopo l’11 settembre
2001 e l’11 marzo 2004 sarebbe solo grottesco... Non per questo credo
(pur se non mi dispiacerebbe, confesso) un “revisionismo” in senso
libertario.
“A” non “deve” diventare “Libertaria”, ma
la direzione di marcia (orribile espressione, che uso solo per comodità)
è questa, non quella trionfalistica, che a tratti riaffiora altrove nella
rivista.
Cari saluti
Eugen Galasso
(Bolzano)
Rileggere Malatesta
e Zaccaria
Cari compagni, voglio ringraziare di cuore Nico Berti, autore del volume Errico
Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale. 1872-1932 (Franco
Angeli editore, Milano 2003) per il suo straordinario contributo alla conoscenza
del pensiero malatestiano. Pensiero non ideologico, umanista, pieno d’amore
verso l’umanità, estremamente tollerante e mai debole, diffidente
sulle certezze, a meno che non si trattasse della volontà, intellettuale
onestissimo, che ha avuto il grande merito di non aver mai avuto bisogno di
interpreti, tutt’alpiù di diffusori del suo pensiero: tanta era
la chiarezza del suo pensiero e soprattutto dei suoi scritti. A leggere Malatesta,
ti viene voglia di distruggere la penna, il calamaio ed il computer... ti sembra
che tutto sia già stato detto e scritto, e nel migliore dei modi possibili,
così non ti resta che il tentativo di migliorare te stesso il più
possibile, altrimenti di startene tranquillo in pace…
Mi ricordo i tempi della rifondazione della FAI, 1963/64, il dibattito verteva
sulla necessità di organizzare meglio la nostra azione, la nostra presenza
nella società. Nel nome di Malatesta ci dividemmo: gli organizzatori
da una parte, gli antiorganizzatori dall’altra (FAI e GIA)! Ognuno pensava
di interpretare al meglio la lezione di Malatesta. Ovvero, neppure gli antiorganizzatori
ne mettevano in discussione l’autorità morale, non nascondendo
comunque il pericolo di autoritarismo insito nell’affermare la necessità
di un versamento fisso ma volontario, per il mantenimento dell’organizzazione!
Il mondo stava cambiando, eravamo agli albori della contestazione del ‘68,
e noi stavamo ancora discutendo sul sesso degli angeli! Anche questo treno passò,
la nostra divisione si tradusse in estrema debolezza, e noi eravamo, ancora
una volta, rimasti senza biglietto!
Conosciamo le tre fasi del pensiero malatestiano, manca la quarta, la previsione
in sociologia, idea mai compiuta, perché come lui diceva, c’è
sempre qualche cosa di più importante da fare...
A mio giudizio manca la fase che avrebbe potuto toglierci dalla paralisi, che
avrebbe potuto insegnarci a sporcarci le mani con la realtà quotidiana,
a commettere degli errori ma stando insieme alla gente, a trasformare la volontà
anche in impegno politico, come avevano fatto prima i compagni messicani, e
come faranno poi i compagni spagnoli. Non fu sufficiente agire all’interno
dei sindacati, con i Comitati di Difesa Sindacale, come lui pensava, furono
stritolati dalla preponderanza stalinista, cosicché perdemmo visibilità
anche in quel movimento e diventammo degli emarginati, così accadde anche
per la società civile, dove, la nostra pretesa purezza ci faceva perdere
di vista e sottovalutare il problema delle alleanze, la necessità delle
alleanze.
Non voglio dire che il pensiero malatestiano, nella sua completezza, si riveli
al fine come una “forza” paralizzante, ma è pur sempre un
tentativo di interpretare la società e tentare di individuare gli strumenti
più adatti per la sua trasformazione, quindi si tratta di riflessioni
che vanno di volta in volta adattate e modificate, soprattutto, quando ci si
accorge di essere vittime di uno stallo oramai sfibrante.
Malatesta non avrebbe voluto assistere a tutto questo, e ce lo insegna la maturazione
delle sue riflessioni durante la sua lunga militanza: consegnarlo come un pensiero
compiuto, alto ed immodificabile, sarebbe come dogmatizzarlo, proviamo semmai
a prefigurarne i possibili sviluppi. Tentativi ce ne sono stati, basta rileggersi
bene Camillo Berneri e Cesare Zaccaria.
Voglio chiudere con una proposta: rileggere insieme anche Cesare Zaccaria. Cosa
ne dite?
Alfredo Mazzucchelli
(Carrara)
FIAT e
pena di morte
La Sezione Italiana di Amnesty International: furgoni Fiat per eseguire condanne a morte in Cina
I “boia itineranti” sono la nuova scoperta di Pechino e girano
su furgoni FIAT adattati allo scopo. Lo ha denunciato oggi la Sezione Italiana
di Amnesty International, chiedendo all’azienda torinese di non rendersi
complice di una violazione del fondamentale diritto umano, quello alla vita.
Da quando la Cina ha adottato il metodo di esecuzione dell’iniezione di
veleno, le autorità hanno sollecitato i tribunali locali a dotarsi di
camere di esecuzione mobili, onde poter accelerare i tempi ed evitare di dover
trasferire i condannati da una città all’altra.
Secondo Amnesty International, la pena di morte in Cina continua a essere applicata
in modo esteso e arbitrario, spesso influenzata da interferenze politiche. Negli
ultimi quattro anni, con il lancio delle cosiddette campagne “Colpire
duro”, è aumentato considerevolmente il numero dei condannati a
morte anche per reati di lieve entità, in precedenza puniti con il carcere.
All’indomani dell’11 settembre 2001, inoltre, la Cina ha intensificato
la repressione contro la minoranza uigura del Xinjiang, eseguendo condanne a
morte per reati politici. I dati di Amnesty International, che riguardano solo
i casi accertati, parlano di 1.060 condanne a morte eseguite nel corso del 2002.
Secondo altre fonti, il numero delle esecuzioni potrebbe essere fino a dieci
volte superiore.
Nei giorni scorsi, il “Beijing News” ha pubblicato la notizia dell’acquisto
di un furgone da parte dell’Alta corte della Provincia di Liaoning, nella
Cina nord-orientale, subito attrezzato per diventare “camera della morte”
itinerante. La notizia è stata poi confermata da un funzionario di polizia
della stessa Alta corte, addetto alle esecuzioni, il quale ha dichiarato alla
“France Presse” che altri tribunali (diciassette, secondo fonti
ufficiali cinesi), stanno procedendo all’acquisto dei furgoni.
Si tratta di furgoni Iveco, del gruppo Fiat, prodotti a Nanchino e che costano
400.000 yuan, circa 40.000 euro.
Il presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, Marco Bertotto,
in una lettera indirizzata alla FIAT ha ricordato le responsabilità che
l’azienda, capogruppo della Iveco, si assume con questa fornitura al governo
cinese. Di fatto, un veicolo normalmente utilizzato per effettuare servizi di
trasporto merci o persone, e quindi utile alla comunità civile, diventa
parte essenziale di un apparato omicida puntato alla nuca della comunità
stessa.
La Dichiarazione universale dei diritti umani, nel suo Preambolo, richiede a
tutti gli individui e a tutti gli organi della società di fare la propria
parte per garantire il rispetto di tutti i diritti umani in ogni parte del mondo.
Le imprese, soprattutto se grandi, transnazionali e potenti come la FIAT, essendo
organi importanti della società internazionale, non possono sottrarsi
a questo obbligo.
La Sezione Italiana di Amnesty International chiede alla FIAT di:
– porre fine alla vendita o alla consegna, se non ancora effettuata, dei
furgoni alle autorità cinesi;
– intervenire presso le autorità cinesi per pretendere l’abolizione
della pena di morte e la commutazione in pena detentiva delle sentenze già
emesse;
– dare istruzioni ai propri dirigenti e a quelli della sua controllata
Iveco, in Cina come in ogni altra parte del mondo, affinché non siano
effettuate forniture di veicoli, parti di ricambio o attrezzature FIAT che potranno
essere utilizzate per compiere violazioni dei diritti umani;
– informare l’opinione pubblica, con una propria comunicazione ufficiale,
sulle iniziative assunte affinché questo commercio di morte cessi, e
con esso il sostegno anche indiretto a qualunque governo o gruppo armato che
usi veicoli, parti di ricambio o attrezzature FIAT per compiere violazioni dei
diritti umani;
– fornire ampie assicurazioni che non effettuerà ulteriori forniture
di veicoli, parti di ricambio o attrezzature FIAT destinate a funzioni che siano
in palese violazione dei diritti umani;
– aderire e dare attuazione alle Norme delle Nazioni Unite sulla responsabilità
delle aziende, approvate il 13 agosto di quest’anno dalla Sottocommissione
ONU per la promozione e la protezione dei diritti umani;
– adottare e attuare rigorose politiche e comportamenti di responsabilità
sociale nelle proprie attività quotidiane, facendo sì che queste
politiche vengano trasmesse dal top management a tutti i dipendenti di tutte
le imprese dalla FIAT direttamente o indirettamente controllate, impegnandosi
attivamente affinché siano accettate e messe in pratica da tutti.
– dare seguito ai pronunciamenti e ai principi internazionali espressi
nelle numerose risoluzioni del Parlamento Europeo in materia di responsabilità
sociale delle imprese e di traffico di armi, nel Global Compact e nelle Linee
Guida dell’OCSE.
Amnesty International, pur ritenendo che spetti ai governi la responsabilità
principale di rispettare e far rispettare i diritti umani, ritiene che le imprese
come la FIAT possano e debbano usare la propria influenza per intervenire sui
governi a garanzia del rispetto dei diritti umani, e non possano sottrarsi a
questa responsabilità, morale e legale, adducendo ragioni economiche
oppure semplicemente tacendo. Di fronte a gravi violazioni dei diritti umani,
come nel caso della pena di morte, il silenzio dei potenti interessi economici
non può essere considerato neutrale.
Roma, 23 dicembre 2003
Per ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia – Ufficio stampa
Tel. 06 4490224 – cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it
(ripreso dal sito di Amnesty International sezione comunicati)
I nostri
fondi neri
Sottoscrizioni. Associazione culturale “Attilio Bortolotti”, 3.124,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla; a/m Paolo Finzi e Marco Pandin, raccolti durante le due giornate su Fabrizio De Andrè a Marcon (Venezia) il 7-8 febbraio, 320,00; Antonino Pennisi (Acireale) 12,00; Stefano Giaccone (Torino) 20,00; Marcella Caravaglios (Messina) 36,00; Ernesto De Liperi (Pisa) 4,00; Tommaso Bressan (Forlì) 100,00; Francesco De Crescenzo (Lacco Ameno) 20,00; Giampaolo Pastore (Milano) 20,00; Francesco Alioti (Genova) 40,00; Vito Mario Portone (Roma) 20,00; Giampiero Manuali (Perugia) 15,50. Totale euro 4.231,50.
La sottoscrizione di Enrico Posenato (Costalunga) apparsa sullo scorso numero era di 5,00, non di 20,00 euro. Il totale corretto delle sottoscrizioni (dello scorso numero) era dunque di 1.174,00 euro.
Abbonamenti sostenitori. Maurizio Guastini (Carrara) 200,00; Fabrizia Golinelli (Carpi) 100,00. Totale euro 300,00.
Nuovamente disponibile
Franti
«Non classificato»
1978 1987 1999
Dopo molto tempo è in questi giorni nuovamente disponibile “Non
classificato” dei Franti, storica hardcore/folk open-band torinese. I
vecchi componenti del gruppo hanno acconsentito a che la ristampa fosse curata
da Marco Pandin per conto di A/Rivista Anarchica: il ricavato della diffusione
di questa iniziativa, tolte le spese di realizzazione, contribuirà ad
arricchire i fondi neri del giornale.
Questa versione di “Non classificato” differisce dall’originale:
ai due CD pubblicati originariamente da Blu Bus ne è stato aggiunto un
terzo intitolato “Il lungo addio” contenente registrazioni inedite
risalenti all’ultimo periodo di attività del gruppo.
La confezione comprende, oltre ai CD, un libretto in carta environment-friendly
con tutti i testi e le note informative e tecniche per ciascun pezzo, più
alcuni contributi scritti.
“Non classificato” non viene distribuito commercialmente nei negozi,
ma si può ottenere rivolgendosi alla redazione alla nostra redazione
(anche cliccando arivista.org: qui e solo qui potete ordinarlo in contrassegno).
Per ottenere una copia di “Non classificato” basta versare una sottoscrizione
di almeno 16,00 euro a favore di A/Rivista, più un contributo per le
spese postali fissato in 4,00 euro, indipendentemente dal numero di copie richieste.
Per ordini di almeno 5 copie, il prezzo unitario scende a 12,00 euro.
Non si effettuano consegne in conto/deposito. Per accelerare le spedizioni,
si suggerisce di inviare per fax l’attestazione dell’avvenuto pagamento,
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