Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

Il concorso a premi della povertà

Dopo una serie di incidenti tipografici e casini personali che ne hanno impedito l’uscita, è finalmente disponibile (stavolta sul serio!) il cd The competition of misery di Eugene Chadbourne. È stata un’attesa molto lunga. Il cd raccoglie alcune canzoni pacifiste e di protesta realizzate da Eugene e da alcuni dei suoi incredibili collaboratori: molte sono brani originali, altre sono reinterpretazioni di canzoni note… ovviamente nello stile banditesco e spiazzante che è proprio del nostro!
Tra gli autori qui saccheggiati a piene mani Phil Ochs, che negli USA degli anni Sessanta fu un importante autore di canzoni di accesa protesta: nate e diffuse in un periodo storico in cui la musica costituì il canale privilegiato per la trasmissione di messaggi e di valori politicosociali, molte tra le sue canzoni ottennero grande successo soprattutto per la feroce poesia dei testi (su Phil Ochs circola un Millelire di Stampa Alternativa preziosissimo curato da Mimmo Franzinelli).
Nel cd è anche presente una versione, neanche tanto vampirizzata, della meditativa Jimmy’s road di Willie Nelson, leggenda vivente della country music americana: egli contestò aspramente l’industria musicale di Nashville inventando la cosiddetta «outlaw country music», e rinnovando la musica popolare tradizionale con elementi pop, swing, jazz, rock’n’roll, folk e blues.
Troviamo inoltre Die fuehrer’s face, che Oliver Wallace (autore per Walt Disney in classici come Dumbo, Peter Pan e Lilli e il vagabondo) scrisse nel 1942 strapazzando l’inno nazista Horst Wessell Lied e trasformandolo in una canzonetta per un cartone animato di propaganda anti-nazista intitolato Donald Duck in NutziLand – protagonista Paperino – che valse a Disney un Academy Award.
Tra le altre cover, una stralunata The big muddy, inno pacifista firmato Pete Seeger che assume nel testo toni quasi Zen, e un medley instabile ad opera di un duo altrettanto instabile (Eugene con Jimmy Carl Black) di Creator has a master plan e Hum Allah di Pharoah Sanders e Leon Thomas: Eugene e l’Indian of the group si accostano al jazz spirituale con grande rispetto trasformandolo in materia sonora indefinibile.

Eugene Chadbourne

Due o tre cose che so di Eugene
A proposito di Eugene Chadbourne ho scritto più d’una volta su «A rivista anarchica» descrivendolo addirittura come un terrorista sonoro: non ho esagerato né mi pento di questa definizione, ma più verosimilmente – faccia simpatica e temperamento generoso – Eugene è un virtuoso pazzo della chitarra elettrica, e di mestiere fa il musicista giramondo.
Il fatto è che per raccontare Eugene in maniera appropriata bisogna spararle grosse, grossissime. Non si tratta di un musicista qualsiasi, innanzitutto: è un praticante convinto e testardo dell’autogestione totale e delle formule musicali più azzardate, uno sperimentatore ed un ricercatore instancabile. Le sue canzoni sono state definite come «l’arsenale della musica contro», e – credetemi – questa non è un’esagerazione da rockgiornalisti arrapati. La sua attività si estende, con un’approssimazione per difetto, in migliaia di concerti, centinaia di collaborazioni e una lista disumana di registrazioni su cassette, album e cd: tutti tranne un paio rigorosamente autoprodotti e venduti di persona ai concerti oppure pubblicati in giro per il mondo da etichette indipendenti ed estremiste come Fundamental, Parachute, Watt, Leo, Rastascan, ReR, Intakt, Alternative Tentacles, Incus, Fireant, Victo – tutte etichette che offrono vibrazioni ben conosciute agli appassionati di quella musica pericolosa ed esplosiva che non riesce a restare costretta nei binari del pentagramma e delle definizioni e convenzioni di genere.
Direi che Eugene fa anche di più e di peggio: dall’alto della sua bravura tecnica ed esecutiva si permette di strapazzare – insomma, mica tanto benevolmente – i miti della musica popolare americana, senza che questi si rivoltino nella tomba e decidano di venire a fare una visitina terrificante dentro ai suoi (e ai nostri) sogni. Eugene l’ho conosciuto di persona tanti anni fa, credo fosse uno dei suoi primi giri in Europa: un tipo strano, speciale, tutt’altra pasta rispetto a gli altri musicisti che ho conosciuto. È arrivato la mattina presto da chissà dove, prende sempre il treno e ti dà appuntamento alla stazione: lo si riconosce facilmente perché è quello che si trascina dietro almeno un paio di chitarre e uno scatolone di cianfrusaglia di dimensioni disumane, oltre che le valigie strapiene di materiale da scambiare. Eugene è uno di quelli che te lo porti a casa e ti si piazza nel bagno per un’ora, uno che mentre ti parla improvvisamente ti crolla a russare sul divano. Uno con cui si mangia insieme (non al ristorante, dai: basta un panino in fretta, un minestrone o una pastasciutta alla buona fatta a casa), uno che ti porta una foto delle figlie, uno che insiste per pagarti la telefonata e ti chiede di spedirgli le cartoline. Ecco: Eugene è proprio il tipo di musicista con cui si fa subito un’amicizia profonda e sincera. Proprio il tipo di musicista che quando lo riaccompagni in stazione, il giorno dopo, ti assale la malinconia: lui è dietro il vetro del finestrino e tu, di qua, improvvisamente galleggi in un mondo più grigio e più triste…

Esplorando le sei corde
Qualche nota biografica. Eugene Chadbourne è nato il 4 gennaio 1954 a Mount Vernon, New York, USA. Sua madre era giunta negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni antisemite della Germania nazista. Cresciuto «in un relativo isolamento culturale» a Boulder, Colorado, inizia a suonare la chitarra a 11 anni: «Sono stato il terzo bambino della mia scuola a ricevere in regalo una chitarra dopo l’apparizione televisiva dei Beatles all’Ed Sullivan Show, e il primo ad imparare a suonarla...».
L’esempio di Jimi Hendrix lo induce ad esplorare l’applicazione del distorsore e del pedale wah-wah alla chitarra elettrica. Viene influenzato da Bob Dylan, Phil Ochs e Frank Zappa, di cui assiste ai concerti; a un certo punto, schifato dalla piega che stava prendendo il rock, scambia la sua chitarra elettrica con una Harmony acustica a sei corde e si applica allo studio storico del blues e alla tecnica bottleneck: «È stato ascoltando Weasels ripped my flesh che ho smesso di interessarmi ai Led Zeppelin... A me piaceva il blues, quello autentico... e ho cominciato a perdere il mio giro di amici perché non gli andava che ascoltassi tutto il giorno quei vecchi neri...».
La sua famiglia si trasferisce a Los Angeles. Eugene rimane «perplesso» ai primi ascolti di John Coltrane e Roland Kirk per poi venire affascinato dalla rivoluzione jazz nera degli anni Sessanta: Charles Mingus, Eric Dolphy, Pharoah Sanders, Ornette Coleman («Mi piaceva il primo Zappa, la sua musica aveva un contenuto fortemente politico, ma la sua musica si è fatta poi più leggera... Quando ho iniziato a interessarmi di jazz moderno continuavo ad ascoltare le Mothers: mi piacevano ancora, ecco, ma preferivo Eric Dolphy perché il sassofono era più stridente e assordante...»), nonché dalla scoperta dell’improvvisatore inglese Derek Bailey.
Le canzoni di Phil Ochs e la radical music lo spingono al giornalismo, ma è durante il suo esilio in Canada (a Calgary, dove espatria per sfuggire alla chiamata di leva, che allora significava destinazione Vietnam) che decide di dedicarsi completamente alla musica. Il suo rientro negli Stati Uniti coincide con l’amnistia promulgata da Jimmy Carter agli obiettori di coscienza: Eugene si stabilisce a New York City e nel 1977 entra in contatto con l’avanguardia dei musicisti neri.
Verso la fine degli anni Settanta è protagonista con John Zorn e Tom Cora di un’inedita miscela esplosiva di country and western e improvvisazione radicale: «Succedevano orrendi equivoci nella New York dei primi anni Ottanta. La gente veniva a frotte e assisteva con attenzione a qualsiasi concerto di musica improvvisata. Ma se suonavi una canzone di Hank Williams si comportavano invece come se tu stessi facendo qualcosa di schifoso...».
Un giorno fonda un suo gruppo, e lo chiama Shockabilly: un mostro indefinibile, una macchina da combattimento che trasforma canzoni in deliranti incubi sonori, una sorta di risposta – sguaiata e delirante – della East Coast agli sperimentatori californiani Residents.
Instancabile viaggiatore, ha suonato praticamente ovunque in Europa (specialmente nei paesi dell’Est prima della caduta del Muro), Nord America ed Australia. La chitarra tremendamente rumorosa, la sua pungente vena critica politica e l’estrema facilità di scrivere canzoni lo hanno reso inaspettatamente una figura di culto nell’ambito del rock: «Penso che quello che faccio oggi con la mia musica sia un po’ quello che avrebbe potuto fare Frank Zappa se avesse mantenuto la concentrazione politica che aveva negli anni ’60 e non avesse iniziato a fare tutte quelle canzonette sulle ragazzine cattoliche eccetera...».
Come per il compagno di strada John Zorn, le sue trasgressioni di genere espressivo sono in realtà la combinazione di quanto di meglio si trovi tra rock e jazz senza alcun compromesso fusion: «Il pop non è una musica ricca di sfaccettature: la gente pretende che tu ripeta gli assoli così come sono sul disco e che tu sia uno sballato cronico. Suonare jazz per me significa impararne tutti i diversi stili espressivi ed essere in grado di suonarne bene alcuni. È musica che ha una storia e una tradizione, e che ha degli eroi tra i suoi esponenti: se vuoi suonarla devi esserne consapevole. Non puoi metterti lì a suonare e dimenticare tutto quello che ci sta dietro. Mi sembra invece che adesso si salti dagli anni Cinquanta ai Novanta come se non fosse accaduto niente in mezzo. I musicisti di oggi ignorano le motivazioni storiche e politiche ed il significato di questa musica...».
I testi delle sue canzoni (definite dalla critica «newspaper songs») sono un commento corrosivo ai fatti della politica e del costume contemporaneo, intrisi di buffoneria e volgarità ma ricchi di informazioni precise. Eugene li sussurra, li urla e/o canta – spesso imitando i toni e i tic dei grandi nomi del rock – sopra a un tessuto multistratificato di rumore: «Una volta un tizio mi ha detto: sai, saresti un chitarrista in gamba come Al DiMeola se solo smettessi di bestemmiare. Beh, io gli ho risposto che Al DiMeola sale sul palco, suona e basta, e non fa neanche un sorriso. Il mio, vedi, è un lavoro diverso...».
Le musiche di Eugene sono mescolanze difficilmente descrivibili perché non rientrano nei canoni comuni: egli padroneggia egregiamente stili diversi come il fingerpicking, il flatpicking e il bottleneck, imita oltre la perfezione i licks dei chitarristi rock e ne stravolge orrendamente i riff, sa creare cocktail inauditi con ingredienti country e punk, metal e jazz (alternandoli ad elevata velocità, e spesso usandoli contemporaneamente): «Non voglio suonare solo canzoni politiche perché sono convinto che l’impatto sia minore. Sono convinto che la musica sperimentale sia per sua natura politica, quindi mescolo le due cose...».
Il suo riavvicinamento al rock avviene con la nascita del punk: «Non ascoltavo più musica rock da anni e un giorno mi ritrovo a leggere un giornale con un articolo sui Dead Kennedys e i Black Flag. Il tizio aveva completamente travisato la situazione, scriveva che erano gruppi nazisti che suonavano musica nazista. La cosa mi incuriosì: è mai possibile che ci possa essere qualcuno che suoni musica nazista? A me sembrava una cosa del tutto irragionevole, quindi mi sono messo ad ascoltarla e mi sono reso conto che era invece musica anti-nazista. Le recensioni parlavano di melodie inesistenti e rumore esagerato: bene, mi sono detto, finalmente c’è qualcuno che fa qualcosa di decente...».
Grande parte del repertorio di Eugene Chadbourne è costituito da rifacimenti di canzoni pop/rock degli anni ’60 e ’70, che spesso impacchetta in lunghi medley (ad esempio i Beatles, Hank Williams, Frank Zappa; in un album con i Camper Van Beethoven include una serie di reinterpretazioni di Tim Buckley). Le sue rivisitazioni a volte sono piuttosto rispettose della forma originale (ad esempio l’emozionante Universal soldier di Buffy Sainte-Marie, offerta frequentemente dal vivo e documentata in uno dei cd/raccolta a sostegno di «A rivista anarchica»), ma nella stragrande maggioranza dei casi Chadbourne sottopone le canzoni a trattamenti crudeli sino a renderle irriconoscibili (valgano per tutte l’impensabile arrangiamento country & western di I talk to the wind dei King Crimson e la trasposizione per banjo di Purple haze).

Eugene Chadbourne

Centinaia di dischi, cd e cassette autoprodotte
Eugene si è mosso in lungo e in largo nel panorama musicale di questi ultimi trent’anni: ha collaborato (faccio solo qualche nome) con il rocker texano Evan Johns, con l’orchestra di Carla Bley, col gruppo bluegrass Red Clay Ramblers, con il jazzista sperimentatore nostrano Andrea Centazzo e con i sempre nostrani incendiari Zu, con gli indefinibili Half Japanese, con Ed Sanders – ex Fugs – e Jimmy Carl Black – vecchio batterista di Frank Zappa –, col violinista pazzo australiano Jon Rose e col chitarrista altrettanto pazzo Henry Kaiser, con il gruppo pop They Might Be Giants e con i Violent Femmes, e registrato un numero incalcolabile di dischi, cassette e cd. Le prime registrazioni (come i due volumi Solo acoustic guitar) risalgono al 1975: tra quegli anni ed oggi c’è in mezzo una produzione di centinaia di titoli. Molte cose sono state fatte solo su cassetta, altre solo in vinile e mai più ristampate, o non ancora ristampate. La lista, perennemente in progress, si può consultare in rete al website ufficiale The House of Chadula, recentemente ridenominato in un più «normale» e rintracciabile www.eugenechadbourne.com.
Come giornalista ha scritto per anni su numerose testate musicali indipendenti: è lui che si celava dietro la firma del fantomatico Dr. Chad, a.k.a. Eddie Chatterbox, e sono frutto della sua mente anarcoide tutte quelle cronache di avventure musicali impossibili, le recensioni corrosive e gli interventi furiosi su Maximum Rock’n’Roll, Sound Choice, Spex, Forced Exposure, Collusion e quant’altro c’era e c’è di meglio nella stampa indipendente musicale d’oltreoceano…
Suoi anche tre bei libri, grosso modo tutti riconducibili al filone autobiografico. Nel primo Draft dodger Eugene rivive l’esperienza di fuoriuscito pacifista in Canada, e nel successivo Bye bye, DDR riassume in un centinaio di pagine fitte la sua esperienza diretta di musicista nei paesi dell’Est prima durante e dopo la caduta del muro di Berlino: una cronaca avvincente e curiosa ben farcita di annotazioni brillanti, dove sono sparsi volentieri spunti per sorridere, ghignare e riflettere.
Il suo sarcasmo pungente e dissacrante è amplificato nell’altro suo libro I hate the man who runs this bar, che si propone già in copertina come una «guida di sopravvivenza per veri musicisti». Concepito e realizzato come un vero e proprio manuale suddiviso in capitoli (del tipo lista degli organizzatori dall’A alla Z, rapporti con le etichette discografiche ecc.), il libro è stracolmo di citazioni tragicomiche, dialoghi e vignette paradossali, ammiccamenti e buoni consigli. C’è un testo piuttosto divertente ed illuminante scritto da Eugene che introduce il bel libro di Walter Rovere dedicato a John Zorn pubblicato da Materiali Sonori, in cui fa rivivere l’effervescenza della scena musicale della Grande Mela.
Due informazioni ancora. Eugene è padre di tre figlie (che coinvolge in studio, nei tour e nella grafica delle copertine dei suoi dischi), e vive da anni con la famiglia nel North Carolina. Il suo sogno è l’essere ricordato come l’inventore di strumenti musicali bizzarri come il rastrello elettrico, lo sturalavandini elettrico e l’armonica teschio-di-cane. Personalmente, lo ricordo – oltre che per questo – come un amico sincero, un compagno sensibile e pazzo capace di disintegrare ridendo, con una sola telefonata o una lettera scritta in fretta su qualsiasi cosa su cui si possa scarabocchiare, la distanza oceanica che separa le nostre vite.
Il cd The competition of misery non è distribuito commercialmente nei negozi, ma è disponibile solamente nella lista di «Musica per A rivista anarchica»: per ottenerne una copia basta sottoscrivere almeno 10 euro a copia, senza dimenticare un contributo adeguato per le spese di spedizione. Al cd è allegato un libretto con le traduzioni di tutti i testi e alcune belle foto scattate da Paolo Chang, di cui ricordo il magnifico lavoro svolto con la rivista Musiche.

Marco Pandin

Nota a margine: le registrazioni mi sono state donate da Eugene nel 1999, ma una serie di traversie familiari mi ha impedito di dedicarmi alla loro pubblicazione. Dopo i fatti dell’11 settembre 2001, ho chiesto ad Eugene consiglio sul da farsi: pubblicare una raccolta di canzonacce pacifiste e dissacranti, inopportunamente antimilitariste, poteva significare (specialmente per lui) esporsi a un grave rischio. Beh, la sua risposta la potete bene immaginare: è nel rispetto del suo atteggiamento, e nella più profonda solidarietà, che ho scritto questo testo.

Autorecensione (un aiutino per i giornalisti di regime).
Vergogna. Tre volte vergogna.
È una vergogna scegliere di pubblicare proprio adesso – dopo l’11 settembre 2001, data d’inizio della nuova guerra santa globale – una raccolta di canzonacce così sguaiatamente pacifiste, spregevolmente anarchiche, inopportunamente antimilitariste. È una vergogna che queste ignobili espressioni siano state pensate, scritte, suonate e registrate proprio negli Stati Uniti d’America da musicisti nati in quello stesso paese, nemici interni tuttora lì attivi, sebbene costretti a mantenersi nei ghetti sporchi del mercato marginale. Tristi menestrelli dell’emarginazione sociale, dell’indolenza e delle periferie dismesse, infami disertori della nobile causa – la Guerra – che imbracciano oggi la chitarra come già fecero nel passato i famigerati Woody Guthrie, Bob Dylan, Joan Baez, Pete Seeger e Phil Ochs: tutti mediaticamente morti, le loro canzoni – pensate addirittura come «pallottole al cuore del potere» – giustamente ieri come oggi tagliate fuori dalle trasmissioni radio e da MTV, dirottate dalla testa della gente.
È una vergogna, in questa situazione di grave emergenza, creare occasioni e spazi anche minimi per la subcultura del dissenso e della diserzione. È riprovevole che in tempo di guerra, col bisogno di sicurezza ed omologazione che l’intero Occidente sente, un qualunque chitarrista jazz pentito si permetta di destrutturare, decontestualizzare e riorganizzare musica a suo piacimento ed in maniera non ortodossa: «musica» è forma d’arte e di cultura, e non è arte né cultura questa accozzaglia di infelici canti che descrivono lo squallore dell’esistenza delle classi più basse e puzzano come la merda dei poveri. Bisogna vigilare affinché non avvenga l’incrinatura del fronte, compatto, unito, massificato. Ecco la parola d’ordine.
Venga fermato l’autore e responsabile di questi misfatti, voce stonata del coro, lo si costringa all’abiura e alla rieducazione presso le strutture di custodia psichiatrica dello Stock Exchange di New York.
I fiancheggiatori italiani di questa squallida operazione siano individuati, ricercati, condotti alla caserma di Bolzaneto e tolti dalla circolazione una volta per tutte.
Censuriamo questa vuota celebrazione della contestazione, della dissacrazione crassa e dello sberleffo, un’iniziativa inopportuna che fa bassa ed indecente propaganda per chi «rema contro».
Sia fatta tacere questa chitarra oscena, e ristabilito il silenzio purificatore.

M. P.

 

Musica a cui volere bene

Questo mese è il turno di 3 CD non recentissimi ma accomunati dal ruolo centrale giocato al loro interno da un singolo strumento solista: la chitarra, l’arpa e la voce.
Di Miguel Acosta si è già parlato su queste pagine: argentino ma residente in Italia da molti anni, Miguel è, fin dalle origini, componente del gruppo Umami. È conosciuto anche come solista, compositore e esecutore legato alla tradizione folklorica argentina, al tango e all’infinito canzoniere militante sud americano.
Questo suo ultimo album Las Huellas de Atahualpa, è il suo migliore ed è dedicato a don Atahualpa Yupanqui, poeta e musicista, figura imprescindibile della cultura popolare argentina. La foto nel libretto, Los Pozos, luogo natale di Miguel Acosta, spiega più di mille parole dove questo splendido albero, questo torrente musicale, ha le sue radici, la sua sorgente. Miguel è chitarrista eccelso e ogni sua chacarera, ogni zamba o huayno ha la vastità poetica del continente americano.
Autentico indio, Miguel parla la lingua di Whitman: “A questo Universo Sonoro ho chiesto di lasciarmi entrare nel suo spirito, ho chiesto in prestito, soltanto per un momento, i suoi tesori sacri: musica, canto, tradizione, per farmi compagnia strada facendo nella vita”.
Della stessa intrinseca natura è l’opera di Llio Rhydderch, principale protagonista del ritorno (per noi, non per i locali) della tripla arpa gallese. L’arpa è uno strumento da sempre centrale nella tradizione musicale celtica, in Bretagna, Irlanda e, appunto, Galles del Nord. L’album (il suo terzo) si chiama Enlli, nome in lingua di una minuscola isola, Bardsey, poche miglia al largo della penisola di Llyn, Galles del Nord. Il luogo restituisce nella sua asprezza e bellezza naturale, il senso più autentico del mondo celtico: l’isolamento, la profonda commozione poetica e un orgoglio intoccabile. L’intreccio delle melodie, di grande fascino, racconta in 13 episodi i luoghi, i volti e i suoni dell’isola, luogo di pellegrinaggio secolare e dove la leggenda vuole si trovino le tombe di ventimila santi. Nella stessa confezione, un DVD di Rhodri Smith completa con le immagini quest’esempio di vitale tradizione musicale.
Alla più grande tradizione poetica apparteneva Giuseppe Ungaretti. Eppure la sua modernità seppe raccontare come nuove le storie eterne dell’Uomo: la solitudine, la guerra, il silenzio, l’abbandono.
Andrea Chimenti mette la sua voce al centro di quest’album Il Porto Sepolto costruito sui versi di Ungaretti, con un pianoforte, accenni di archi e una chitarra. Compito delicato che Ungaretti, a prima vista, non si presterebbe ad essere “ri-allineato” dalla metrica d’una canzone. Ma Chimenti lascia la musica respirare lo stesso respiro dei versi, senza chiuderli in forma-ballata: nondimeno i brani mantengono una tensione e una liricità del tutto godibili.
La voce, molto bella, porta in primissimo piano la sua stessa esatta fisicità, cosi come Ungaretti usava con esattezza vocaboli, suoni e silenzi. Splendide le fotografie e la grafica del CD.
Contatti:
Miguel Acosta c/o www.electromantic.com
Llio Rhydderch c/o www.fflach.co.uk
Andrea Chimenti c/o www.audioglobe.it

Stefano Giaccone

Musica per A/Rivista Anarchica

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EUGENE CHADBOURNE “The competition of misery” CD a 10,00 euro
Canzoni di protesta, anarchiche e pacifiste scelte dall’archivio personale di Eugene Chadbourne, figura di spicco della musica radicale ed improvvisata americana. Le sue canzoni sono state definite come “l’arsenale della musica contro”. Migliaia di concerti, centinaia di collaborazioni e una lista disumana di registrazioni su cd, cassette ed album, tutti rigorosamente autoprodotti e venduti di persona ai concerti e pubblicati in giro per il mondo da etichette estremiste e indipendenti. Insomma, buone vibrazioni ben conosciute agli appassionati di quella musica che non riesce a restare costretta nei binari del pentagramma e delle definizioni di genere. La confezione comprende un libretto con le traduzioni dei testi e numerose fotografie inedite.

Aa. Vv. “Addio Lugano bella” CD a 12,00 euro
Aa. Vv. “Quella sera a Milano era caldo...” CD a 12,00 euro
Ristampa su CD dei due fondamentali volumi dell’antologia della canzone anarchica italiana editi negli anni ’70 dai Dischi del Sole. Tutte le canzoni, tutti i protagonisti: comprende numerose registrazioni storiche rimasterizzate digitalmente.
I riversamenti sono stati effettuati a cura di Michele Straniero presso l’Istituto Ernesto De Martino.

CANZONIERE DEL VALDARNO “Terra innamorata” CD a 10,00 euro
Un vecchio disco del Canzoniere del Valdarno, originariamente pubblicato negli anni Settanta dalla storica etichetta indipendente toscana Materiali Sonori. Canzoni in forma popolare e tradizionale che parlano di lavoro e lotte sindacali, della zona di Carrara e degli anarchici, della vita e dei sogni di tutti i giorni. Un lavoro acerbo e spontaneo, ricco di fascino e suggestione, sorprendentemente vivo e condivisibile anche a quasi trent’anni di distanza.

MARMAJA “Il metro dell’età” CD a 10,00 euro
Una brutta compagnia che è riuscita a custodire il senso della musica popolare e sociale e di lotta e di protesta come un segreto. Quella musica che suona e rimbomba nel sottofondo incasinato che c’è a bordo degli autobus e nei bar delle periferie, quella che puzza come l’aria attorno alle fabbriche e come le cucine delle case a mezzogiorno, quella che accompagna il nostro muoversi. Allora era vero: anche se era scomparsa dai muri e dalla piazza principale, la musica libera non è mai sparita, non se n’è mai andata. E sui muri e nella piazza ce la riporteremo, e forse sarà domani.

MERCANTI DI LIQUORE “La musica dei poveri” CD a 15,00 euro
Piano piano, testardamente, da una buona cover band delle canzoni di Fabrizio De Andrè i Mercanti di Liquore si sono trasformati in una bella realtà della canzone d’autore. Questo è il loro secondo e recentissimo album, che li vede alle prese con un repertorio completamente originale: le musiche sono, come già sappiamo, ben strutturate e suonate, ad accompagnare testi che scavano in profondità e lasciano, alla fine, con un pugno di domande nel cuore.

POISON GIRLS “Poisonous!” 2CD a 12,00 euro
Bella antologia di uno dei gruppi storici del punk anarchico inglese, fondato da Vi Subversa (una cantante e chitarrista dalla voce ineguagliabile) e dal batterista Lance D’Boyle. C’è un po’ di tutto: dagli esordi (“Piano lessons” è il loro debutto discografico del 1978) a “Persons unknown” (composta per raccogliere fondi a favore di alcuni anarchici detenuti), da “Rio disco stink” (una corrosiva presa in giro della multinazionale Rio Tinto Zinc) a “Real woman” (il loro singolo che finì in classifica in Inghilterra). Trenta canzoni belle e sovversive, dimenticate (pur)troppo in fretta.

COMPAGNIA ANGELI DEL NON DOVE “Le stanze del cuore” CD [offerta libera]
L’ennesima riproposizione del triangolo melodico chitarra, fisarmonica e violino, stavolta ad opera di tre musicisti (ed una cantante dalla voce dai colori insoliti e bizzarri) che si distinguono per l’avversione alle forme più consuete della canzone. Quattro personalità forti, ciascuna con esperienze, vocabolari ed amori diversi (musica d’estrazione colta, teatro, improvvisazione, musica popolare) che si intrecciano dando vita a paesaggi impervi per l’orecchio. Jazz in frantumi e melodie in polvere, pugnalate perfide al cuore di quel che resta del perbenismo sonoro.

FABRIZIO DE ANDRÈ “In concerto - volume 2” CD a 10,00 euro
Bella raccolta postuma di registrazioni dal vivo risalenti quasi tutte all’ultima tournée del 1997-98 (alla quale parteciparono i figli Cristiano e Luvi), pubblicata nel dicembre 2001. Contiene “Anime salve”, “Smisurata preghiera”, “Desamistade”, “Sidun” etc.

ENVIRONS “Un pettirosso in gabbia mette in furore il cielo intero...” CD a 8,00 euro
Nel family tree che nasce dai Franti, subito dopo il “lungo addio” quello di Environs è uno dei rami più vecchi, quello che ha ereditato i cromosomi più sperimentali della nota hardcore/folk band torinese. Una navigazione senza una rotta precisa attraverso le suggestioni del suono, alla ricerca di una traccia, di quel “filo rosso” sonoro che ha accompagnato la nostra vita attraverso gli anni ’70 e ’80.

STEFANO GIACCONE “Tutto quello che vediamo è qualcos’altro” CD a 12,00 euro
Il nuovo cd di Stefano, realizzato con la collaborazione dell’incredibile polistrumentista gallese Dylan Fowler. Difficile da descrivere, difficile da ascoltare: un viaggio che richiede impegno ed attenzione, e che alla fine ripaga con una mescolanza inedita di poesia visionaria e suoni inauditi da questa parte del mondo.

LALLI “All’improvviso nella mia stanza” CD a 8,00 euro
Il nuovo, attesissimo e indescrivibile album di Lalli: una specie di trappola, complice Pietro Salizzoni, chitarrista, arrangiatore, bella faccia vicina in copertina a quella sorridente di lei. Più che un passo o un salto in un ipotetico “avanti”, né più né meno la testimonianza del fatto che Lalli abbia imparato a volare. Qui dentro solo lievi tracce del passato, nonostante a Lalli sia sempre piaciuto ripensare sopra alle cose già fatte (in ogni suo nuovo lavoro c’è una vecchia canzone che lei si porta dietro, giocandoci con le forme sonore o riaggiustandone il testo), perché le canzoni sono come dei figli che crescono con te e ti seguono comunque, e non si può proprio far finta di niente e girarsi da un’altra parte. Questo cd è un’occasione per fare festa, e festa grande sia assieme a Lalli e ai musicisti straordinari di questo suo nuovo gruppo. E saltiamoci dentro, a questa festa, perché in queste canzoni ci siamo dentro da qualche parte anche noi che Lalli l’abbiamo sempre amata ed ammirata, e questa voce meravigliosa è anche un poco la nostra.

in uscita - novità Stella*Nera

Aa. Vv. “Mille papaveri rossi” 2CD a 15,00 euro
Iniziativa a sostegno di A/Rivista Anarchica. Le canzoni di Fabrizio De Andrè interpretate e riviste da musicisti estranei e/o marginali rispetto al mercato discografico industriale.
Contributi di Judith Malina, Marmaja, Gatto Ciliegia, Paolo Capodacqua, Walkabouts, Stefano M. Ricatti, Eire Nua, Franco Fabbri, Lalli, Roberto Bartoli, Sniper, Bevano Est, Andrea Parodi e Bocephus King, Frontiera, Judas 2, Kurkuma, Lino Straulino, Mercanti di Liquore, Mideando String Quartet, Alessio Lega, FLK, Alexian Group, Bonifica Emiliana Veneta, Fratelli di Soledad, Compagnia Angeli del Non Dove, Spoon River Band, Giorgio Cordini, Gang, La Rosa Tatuata, Arbe Garbe, l’Estorio Drolo, Alberto Cesa, Stefano Santangelo, Ensemble Laborintus, Marco Giaccaria.
In copertina un disegno di Andrea Pazienza, nel libretto uno scritto inedito di Marco Sommariva.

Musica per A/Rivista Anarchica