Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

L’enfance rouge

Portati dal M. S. Stubnitz fino in Terra d’Otranto, aspettando la prossima traversata. Ancora a ululare contro l’establishment, proteggersi, lottare – se possibile – ed ecco il nostro ultimo lavoro “di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di antipoeti, di positivisti, in una parola di Occidentali” (A. Artaud). Questo è forse il nostro ultimo disco “politico” (?). Anche perché comunque “il messaggio sparisce in culo con tutta la bottiglia”, conclude Carmelo Bene. Potessimo essere parte del calcio che frantumerà il vetro... Et merde...
François R. Cambuzat. R sta per Régis. O magari per Rivolta. Un trovatore con la chitarra in braccio e la bocca piena di canzoni, le storie della gente nel cuore e la polvere della strada addosso, che si sposta continuamente dai Balcani alla penisola Iberica, trovandosi spesso, certo casualmente, a vivere in Italia.
François è zingaro per adozione, apolide per convinzione, anarchico per fede. François è un musicista fuori dagli schemi soprattutto, uno che ha fatto del proprio idealismo rivoluzionario un’appartenenza morale piuttosto che un vessillo da sbandierare.
François R. Cambuzat e la sua compagna Chiara Locardi, ovvero Les Enfants Rouges. Il sorriso di lei è carico di consapevolezza, nei suoi occhi è disegnato il riflesso di tutte le persone incontrate. E nella sua voce l’eco delle loro voci, parole in volo che formano racconti scambiati assieme agli abbracci e alle strette di mano e a quel po’ di cibo e di vino e di tempo condiviso.
L’Enfance Rouge. François e Chiara girano da un po’ con Jacopo Andreini, toscano, uno capace di stringere così forte al collo una batteria che sembra un giocattolo, così da farla urlare con voce di lupo e di sirena: se pensavate di aver già visto e sentito tutto, avete sbagliato.
Anni fa, una collaborazione intrisa di diffidenza reciproca (e poi spinosa d’astio) con l’etichetta discografica gestita dai CSI, poi François e Chiara hanno scelto per l’autogestione assoluta della propria creatività: “L’importante è andare avanti! Per quello che ci riguarda l’unico vero problema è la fragilità economica: ci accorgiamo che molti altri artisti hanno sempre le spalle coperte, magari hanno un altro lavoro o vengono mantenuti dalle loro famiglie. Noi invece non vogliamo scendere a compromessi: la musica è l’unica ragione della nostra vita. È una scelta che ci rende vulnerabili, perché basta un piccolo contrattempo per metterci veramente nei guai... del resto non abbiamo molte alternative: all’estero le cose vanno anche peggio...”.
Una manciata di album, ciascuno un taccuino di appunti di viaggio: da Reus a Ljubljiana, da Taurisano a Cajarc, da Davos a Leros, da Swinoujscie a Tunisi. Non in ordine. Non in quest’ordine. L’ultima tappa in ordine di tempo racconta del viaggio tra Rostock e Namur, ma è già una strada lasciata indietro. Ognuno dei cd è caratterizzato da sentimenti diversi, un episodio è cupo, un altro triste, uno è difficile, un altro ancora più accessibile. La musica è sempre scarna, perché un uomo con poco bagaglio sa offrire tutto senza avere niente. I vari dischi comunque sono sempre dei punti di arrivo, e quando escono il gruppo è già altrove.
Dice François: “Il nomadismo ha sempre fottuto la mia vita, è un’esigenza interiore: sono sempre alla ricerca di qualcosa e non sono mai riuscito a stabilirmi in un posto dove poter magari costruire qualcosa di concreto. In un suo libro Chatwin diceva che solo i nomadi considerano il mondo perfetto, perché non hanno bisogno di trasformarlo: io e Chiara siamo spinti da una curiosità incredibile che ci impedisce di fermarci. D’altro canto siamo un po’ invidiosi di chi ha il coraggio di vivere tanti anni nello stesso luogo, e non neghiamo di aver bisogno delle persone stanziali: sono un indispensabile punto di riferimento nel corso dei nostri spostamenti. Se ci fermiamo troppo in un luogo, dopo un po’ siamo assaliti dai souvenir, forse dalla malinconia e poi dal desiderio di non morire prima di vedere lo Yemen, la baia di Along o la città di Merv. Più che di suonare alla Knitting Factory di New York o di firmare per la Touch & Go...”.
François non ha una faccia conosciuta. François ha mille facce. C’è il François chansonnier, c’è il suo amore per il rock acido, duro, spigoloso, per le sonorità difficili. Nelle sue tasche ci sono canzoni, oppure improvvisazione, oppure esperimenti, oppure semplicemente poesia, o sassi, o pezzi di vetro raccolti per strada, trasformati in suono e parole come solo lui sa fare.
Lui suonava già con Kim Squad e il Gran Teatro Amaro, punk incazzatissimo e laboratorio new wave francese, sperimentazione a manetta, anni Ottanta. La musica è riflesso dell’incazzatura con la Francia, dove c’è una situazione musicale e sociale allucinante.
Dice François in un’intervista recente: “Ho vissuto più all’estero che in Francia, e la Francia per me è diventata una specie di sogno. Qualche anno fa sono tornato a vivere in Francia dopo quindici anni di assenza e ho trovato un paese di merda, un paese distrutto, una disillusione totale. Gente che ha perso del tutto la propria cultura, che non rivendica più niente, politicamente e socialmente un paese di terremotati mentali, come diceva Camus, parlando però degli americani. La vecchia cultura francese è certamente una parte forte delle mie radici, anche se non è la sola. Oggi la cultura francese è soprattutto fuori dalla Francia, appartiene più agli scrittori francofoni, agli africani, perché hanno una maniera splendida ed elegante di scrivere in francese... Sono loro adesso la vera cultura francese. C’è restato poco: due o tre case editrici, qualche musicista, una rivista splendida come ‘Le Monde Diplomatique’, pochissimo insomma… Auguro alla Francia e all’Europa il maggior numero possibile di immigrati. Un po’ come diceva Pasolini, aspettiamo un Alì dagli occhi azzurri... Lui l’aveva già capito alla sua epoca. L’Europa è condannata ad essere invasa dal Terzo Mondo, è inevitabile. E sarà bellissimo…”.
L’Enfance Rouge: i bambini rossi. Li ho incontrati, visti e sentiti ieri sera. Tempo di guerra, l’aria tutt’attorno è pesante: in un’ora hanno scatenato un’apocalisse nel cuore. Una performance visionaria e profondamente inquieta: è stato difficile ritornare a casa a dormire, dopo, con il loro urlo che rimbombava in testa. Un urlo nero di tristezza e disperazione che scoppia in cielo, più in alto degli aerei che portano la morte. Ma già stamattina, su quello stesso palco, è sbocciato un nuovo fiore.

Marco Pandin

Nota: alcune tracce e tutte le citazioni di François qui riportate sono tratte da una bella intervista, lunga e molto particolareggiata, raccolta da Stefano I. Bianchi del mensile “Blow Up”, che ringrazio per la consueta gentilezza e grande disponibilità.

Musica a cui volere bene

Vorrei segnalare tre cd che ho ricevuto recentemente i quali, per qualità e attitudine, potrebbero interessare i lettori di A rivista. Cd da cercare, ascoltare e a cui voler bene. Alla radice di ogni musica autenticamente popolare ci sono due elementi, io credo: l’improvvisazione e la ri-elaborazione continua di rigorosi canoni poetico/espressivi. Rimandando (ancora una volta) al testo L’improvvisazione di Derek Bailey, i lavori di cui vorrei raccomandare l’ascolto nascono dentro questa primigenia disposizione verso la libertà e il gioco, il rimescolare di suoni e il rischio.
Joel Orchestra è la denominazione data a un progetto di comunanza musicale e spirituale, senza confini di formazione né di stile, che si è allungato nel tempo, vicino alle esperienze gemelle di Franti e Umami, come pure alle ricerche personali di singoli individui. Da più di un anno Ugo, Giulio, Luca e Andrea si sono seduti attorno a un grande tappeto con gli strumenti, dal sitar, al balafon, le voci, percussioni innumeri e i flauti del mondo intero. In più, un buon registratore. Lavorando di fino con computer e editing, hanno messo insieme Yggia Vilyggia, uno splendido esempio di gioia musicale, difficile descriverlo diversamente. Spezie forti: dal qawwali ai ragas, dal Don Cherry di Mu e Brown Rice, a Surman e Garbarek. E per citare dei connazionali, direi Aktuala. (Contatti: lucaguiz@tiscalinet.it).
Diversamente dalla Joel Orchestra che conosco da sempre, Anatrofobia era per me un nome ignoto fino al suggerimento di Arti e Rumori, associazione di Latina per la quale ho suonato qualche tempo fa. Anatrofobia lavora al suo suono da dieci anni, il cd che ho ricevuto si chiama Le cose non parlano, edito da Wallace Records, dove trovate anche A Short Apnea (insieme al Gatto Ciliegia e Cods, i vertici della musica italiana “storta”). Il loro cd mi ha regalato una sensazione di rischio calcolato, di serena follia come farsi 100 km in auto con i tuoi migliori amici solo per bersi una bottiglia di vino. Cito dei nomi ma questo CD non è confinabile agli amanti di Henry Cow (Leg End, Western Culture), Cassiber o The Work. O di Ornette Coleman, Area o Dedalus. Nemmeno dei Morphine. Cercatelo. (Contatti: info@anatrofobia.com)
Ultimo cd, Cods con Sperochettustia. Io sono tra coloro che reputarono, anni orsono, il primo lavoro dei Cods tra i migliori pubblicato da On/Off-Beware. Intrecci superlativi di chitarre e “piccola elettronica” per canzoni in inglese, evocanti Wyatt, Kevin Ayers e il primo ispirato Battiato. Questo secondo lavoro, pubblicato da Mexicat, emanazione del Gatto Ciliegia di cui sopra, conferma e amplifica le qualità del gruppo: musicalmente, per una più completa instrumentazione e liricamente, che ora Massimo Giovara canta in italiano, sfruttando le sue doti attoriali (il suo “primo” mestiere). I tre musicisti base sono eccellenti e i brani appassionanti lavori compositivi. Il Rock in Opposition viene in mente (Stormy Six, Etrou Fou) come pure Camisasca o i migliori CSI. Testi intriganti, Mea Culpa su tutti, pensando a Carlo Giuliani: “C’è l’autorità innestata nel cuore, paura di tutto, a sgarrare si muore”. Contatti: Cods c/o Mexicat, via della Repubblica 13, 10051 Avigliana TO.
Tre cd di magnifica rigorosa Libertà.

Stefano Giaccone