Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 186
novembre 1991


Rivista Anarchica Online

Musica & idee
a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)


L'estate è passata, dunque. L'autunno praticamente anche. In questi mesi la cassetta della posta ha frequentemente ospitato nastri, lettere, messaggi più o meno in relazione con questa rubrica. Niente è stato dimenticato ma, visto che litigare con il tempo, lo spazio e gli imprevisti non serve, bisognerà smaltire le segnalazioni in un paio di puntate...

MIMI Festival 1991

Un festival innanzitutto. Anzi, il Festival. Non c'è stato nessun motivo particolare per non parlarne prima, con la consueta tempestività (impegni vari e intasamento della cassetta postale a parte, of course): l'edizione del MIMI Festival di quest'anno, la sesta, si è svolta con relativa calma e tranquillità sulle rive dell'Etano des Aulnec, un laghetto a poca distanza da Arles, Marsiglia ed Avignone. Al solito, un paesaggio da dépliant di agenzia turistica, ghiotte occasioni di relax, cucina, sport e turismo a prezzi da vacanza: alternativa in senso intelligente, in più, la popolazione del festival, gli aficionados, gli impegnati, i condannati, le vittime, una vetrina di gente colorata e spesso simpatica. E di vetrina spesso si è trattata, infatti: il Festival è un'occasione importante per mettere in mostra ciò che si è fatto, ciò che si progetta o, visto che essere underground è ritornato di moda, ciò che si sta tramando...
Il peso della storia si è fatto sentire, e con mano pesante, proprio in questo ambito: le presenze dagli Stati Uniti, dalla Jugoslavia e generalmente dal resto d'Europa (Italia esclusa, quest'anno particolarmente "in moltiplicazione"!) sono state notevolmente inferiori rispetto a tutte le edizioni precedenti, Molti i curiosi, gli occasionali: attratti dal costo zero del biglietto, sono velocemente rientrati a casa dopo aver misurato solo in un paio di concerti il proprio abissale disinteresse per le musiques innovatrices e tutto ciò che ci sta attorno.
Come saprete, il MIMI Festival dura quattro giorni. In quattro serate di concerti e qualche maratona pomeridiana offre proposte musicali inconsuete e diverse dalla comunicazione sonora di regime.
Nella pratica, sotto l'occhio vigile dell'ideatore e organizzatore principale Ferdinand Richard un mucchio di promesse, sorprese e delusioni che si ripetono da sei anni. Sei volte che, immancabilmente, alla fine dell'ultima serata del MIMI Ferdinand annuncia che "...questa è l'ultima volta", smentito a pochi mesi di distanza dai fatti e dai volantini che, puntualissimi, ne celebrano la resurrezione. Innovazione principale, quest'anno, l'ingresso gratuito: l'aiuto economico (comunque non eccessivo...) del ministero della cultura francese ha di fatto, se non proprio azzerato, almeno disperso i mugugni degli scontenti-a-tutti-i-costi, inevitabilmente sparsi tra la popolazione della manifestazione e in tutte le sue categorie.
Il programma di questa edizione lasciava sospeso più di un interrogativo: nessun nome conosciuto, nessuna informazione "commerciale" anche se "alternativa" che avesse raggiunto questa zona del mondo. Bisognava fidarsi delle scelte di Ferdinand, ancora una volta, e vista la tendenza al ribasso e alla tristezza sconfinata dell'edizione precedente, le perplessità fiorivano come ciliegi in primavera.
Quel qualcuno che ha detto per primo che "... non fidarsi è meglio" non era certamente stato al MIMI Festival. D'altra parte, la stagione buona, il periodo di ferie, l'ingresso gratuito, e l'eventualità di incontrare qualche vecchio amico erano tutte argomentazioni che non potevano non far pendere il piatto della bilancia a favore del "si va!". Ci si è andati, quindi, ed è andata nel complesso davvero bene. Tra una manciata di gruppi onestamente facili da dimenticare, qualche buon boccone. Il trio cecoslovacco E, intanto: basso pulsante, chitarrona distorta, batteria elettronica sovrastante ed a volte "umana" tipo Skeleton-Crew e, last but not least, performance energica e nervosa del cantante/poeta/pittore Kokolia. Meglio di qualsiasi concerto dei Killing Joke, tanto per fare un paragone con qualcuno di stile "simile" (occhio alle virgolette) più conosciuto da queste parti. A sorpresa, Pierre Bastien e la sua delicatissima orchestra di strumenti meccanici inventati, e con lui il sassofonista/flautista Bruno Meillier. Hanno sostituito gli annunciati brasiliani Uakti (sembra assenti dal Festival per sopravvenute divergenze sul cachet...) e proposto uno spettacolo minimo, fatto di brevi movimenti sonori e intrecci d'improvvisazione. Un evento bisognoso di attenzione estrema e raccoglimento, quasi un presepio di automi sottili.
Indimenticabile.
Subito dopo, il gruppo del giornalista della KUN-Tv di Leningrado/San Pietroburgo, Vitaly Fedko. L'inizio dello spettacolo è un momento piuttosto toccante, privilegio di pochi spettatori fortunati: una ragazzina che suona il flauto traverso mentre, a impedire i danni del mistral che si accaniva sulle pagine dello spartito, all'improvviso entra in scena un ragazzino (... il figlio di Ferdinand Richard?). Poche fotografie hanno fermato quel momento, un episodio da archiviare come "belle cose che fanno ben sperare nel futuro, e di cui c'è sempre tanto bisogno". L'evento che è seguito è andato avanti senza compromessi né deviazioni su questa strada di benessere, mistero, scoperta. L'impressione è stata quella di trovarsi in mezzo a un accadimento speciale, non a un "concerto" qualsiasi.
La proposta di Caviernos Varota, questo il nome del gruppo, si è realizzata su piani di comunicazione diversi : l'impatto visuale (palcoscenico assolutamente disadorno, i musicisti vestiti di una lunga tunica) e quello sonoro (strumenti "inventati" utilizzando pezzi di legno, conchiglie, oggetti "primitivi" o soprattutto l'uso della voce, così semplice, potente e suggestivo) hanno finito per costruire una performance di impossibile collocazione temporale, stilistica o geografica.
Accostato nel dépliant di presentazione del MIMI Festival a David Hykes (l'anima dell'Harmonic Arts Society americana, trapiantata a Parigi da qualche anno), Vitaly Fedko è forse più orientato a ricerche vocali sul piano "umano" e "concreto", piuttosto che ad atmosfere meditative o di grande respiro cosmico. Fedko ha strutturato le sue composizioni durante lunghi viaggi e ricerche: melodie popolari, brandelli di poesia, addirittura un "grammelot" di parole che si accendevano di senso, allusioni e significati come fuochi d'artificio. Il suono delle "sue" voci porta in paesi lontani, ma anche ai boschi qui vicini, alle onde del mare. Geografie e distanze rimescolate, la memoria usata come una macchina del tempo, con le leve e i bottoni dal senso sconosciuto, quadranti impazziti e dai mille significati.
Durante l'ultima serata del Festival è stata presentata una selezione delle musiche dell'opera "Halter skelter", da un'idea di Francois-Michel Pesenti, composte e dirette da Fred Frith. L'esecuzione ha visto impegnato l'ensemble Que d'la Gueule, formato da sedici giovani musicisti dei quartieri "défavorisés" di Marsiglia reclutati dall'amministrazione cittadina nell'ambito dei locali progetti di sviluppo sociale.
In questa sede preferirei sorvolare sulle opinioni personali riguardo l'aspetto socio-politico dell'iniziativa (sarebbe solo un'altra discussione inutile sugli effetti deleteri di certi osservatori e laboratori giovanili metropolitani!), per soffermarmi invece sul fatto musicale in se stesso.
Impossibilitato a " muoversi" nei terreni del virtuosismo o comunque di una tecnica musicale difficile, vista la giovane età media del gruppo e l'esperienza presumibilmente nulla, Frith ha saputo comunque trarre da questo progetto molti frutti succosi e soddisfazioni sconfinate, catturando l'energia di ciascuno dei musicisti e riuscendo a mantenere l'equilibrio sui fili tesi tra se stesso e gli elementi "più bravi".
Le partiture sembravano dipinte sui muri della città: tonfi, scontri, rumori molesti, i silenzi di certi momenti improvvisamente infranti dal treno, o da un brutto sogno.
Musiche da una città di confine che era Marsiglia e che poteva essere una qualsiasi altra metropoli fatta di industrie, periferie e basta: nessun compromesso, ritmi incalzanti e confusi, strade che respirano, tensione e vetri rotti.
"C'est la naissance d'un monde", diceva qualcuno. Piuttosto, è stato l'aprire gli occhi e gli orecchi di fronte a qualcosa che muore. Un monito esplicito ed imbarazzante a non vivere guardando la televisione come fosse la finestra che dà giù in strada. Un invito ad andare fuori: in tutti i sensi, con tutti i sensi.