L'estate è passata, dunque. L'autunno praticamente anche.
In questi mesi la cassetta della posta ha frequentemente ospitato
nastri, lettere, messaggi più o meno in relazione con questa
rubrica. Niente è stato dimenticato ma, visto che litigare
con il tempo, lo spazio e gli imprevisti non serve, bisognerà
smaltire le segnalazioni in un paio di puntate...
MIMI Festival 1991
Un festival innanzitutto. Anzi, il Festival. Non c'è
stato nessun motivo particolare per non parlarne prima, con la
consueta tempestività (impegni vari e intasamento della
cassetta postale a parte, of course): l'edizione del MIMI Festival
di quest'anno, la sesta, si è svolta con relativa calma e
tranquillità sulle rive dell'Etano des Aulnec, un laghetto a
poca distanza da Arles, Marsiglia ed Avignone. Al solito, un
paesaggio da dépliant di agenzia turistica, ghiotte occasioni
di relax, cucina, sport e turismo a prezzi da vacanza: alternativa
in senso intelligente, in più, la popolazione del festival,
gli aficionados, gli impegnati, i condannati, le vittime, una
vetrina di gente colorata e spesso simpatica. E di vetrina spesso si
è trattata, infatti: il Festival è un'occasione
importante per mettere in mostra ciò che si è fatto,
ciò che si progetta o, visto che essere underground è
ritornato di moda, ciò che si sta tramando...
Il peso della storia si è fatto sentire, e con mano
pesante, proprio in questo ambito: le presenze dagli Stati Uniti,
dalla Jugoslavia e generalmente dal resto d'Europa (Italia esclusa,
quest'anno particolarmente "in moltiplicazione"!) sono
state notevolmente inferiori rispetto a tutte le edizioni
precedenti, Molti i curiosi, gli occasionali: attratti dal costo
zero del biglietto, sono velocemente rientrati a casa dopo aver
misurato solo in un paio di concerti il proprio abissale
disinteresse per le musiques innovatrices e tutto ciò che ci
sta attorno. Come saprete, il MIMI Festival dura quattro giorni.
In quattro serate di concerti e qualche maratona pomeridiana offre
proposte musicali inconsuete e diverse dalla comunicazione sonora di
regime. Nella pratica, sotto l'occhio vigile dell'ideatore e
organizzatore principale Ferdinand Richard un mucchio di promesse,
sorprese e delusioni che si ripetono da sei anni. Sei volte che,
immancabilmente, alla fine dell'ultima serata del MIMI Ferdinand
annuncia che "...questa è l'ultima volta", smentito
a pochi mesi di distanza dai fatti e dai volantini che,
puntualissimi, ne celebrano la resurrezione. Innovazione
principale, quest'anno, l'ingresso gratuito: l'aiuto economico
(comunque non eccessivo...) del ministero della cultura francese ha
di fatto, se non proprio azzerato, almeno disperso i mugugni
degli scontenti-a-tutti-i-costi, inevitabilmente sparsi tra la
popolazione della manifestazione e in tutte le sue categorie. Il
programma di questa edizione lasciava sospeso più di un
interrogativo: nessun nome conosciuto, nessuna informazione
"commerciale" anche se "alternativa" che avesse
raggiunto questa zona del mondo. Bisognava fidarsi delle scelte
di Ferdinand, ancora una volta, e vista la tendenza al ribasso e
alla tristezza sconfinata dell'edizione precedente, le perplessità
fiorivano come ciliegi in primavera.
Quel qualcuno che ha detto per primo che "... non fidarsi è
meglio" non era certamente stato al MIMI Festival. D'altra
parte, la stagione buona, il periodo di ferie, l'ingresso gratuito,
e l'eventualità di incontrare qualche vecchio amico erano
tutte argomentazioni che non potevano non far pendere il piatto
della bilancia a favore del "si va!". Ci si è
andati, quindi, ed è andata nel complesso davvero bene. Tra
una manciata di gruppi onestamente facili da dimenticare, qualche
buon boccone. Il trio cecoslovacco E, intanto: basso pulsante,
chitarrona distorta, batteria elettronica sovrastante ed a volte
"umana" tipo Skeleton-Crew e, last but not least,
performance energica e nervosa del cantante/poeta/pittore Kokolia.
Meglio di qualsiasi concerto dei Killing Joke, tanto per fare un
paragone con qualcuno di stile "simile" (occhio alle
virgolette) più conosciuto da queste parti. A sorpresa,
Pierre Bastien e la sua delicatissima orchestra di strumenti
meccanici inventati, e con lui il sassofonista/flautista Bruno
Meillier. Hanno sostituito gli annunciati brasiliani Uakti
(sembra assenti dal Festival per sopravvenute divergenze sul
cachet...) e proposto uno spettacolo minimo, fatto di brevi
movimenti sonori e intrecci d'improvvisazione. Un evento bisognoso
di attenzione estrema e raccoglimento, quasi un presepio di automi
sottili. Indimenticabile. Subito dopo, il gruppo del
giornalista della KUN-Tv di Leningrado/San Pietroburgo, Vitaly
Fedko. L'inizio dello spettacolo è un momento piuttosto
toccante, privilegio di pochi spettatori fortunati: una ragazzina
che suona il flauto traverso mentre, a impedire i danni del mistral
che si accaniva sulle pagine dello spartito, all'improvviso entra in
scena un ragazzino (... il figlio di Ferdinand Richard?). Poche
fotografie hanno fermato quel momento, un episodio da archiviare
come "belle cose che fanno ben sperare nel futuro, e di cui
c'è sempre tanto bisogno". L'evento che è
seguito è andato avanti senza compromessi né
deviazioni su questa strada di benessere, mistero, scoperta.
L'impressione è stata quella di trovarsi in mezzo a un
accadimento speciale, non a un "concerto" qualsiasi. La
proposta di Caviernos Varota, questo il nome del gruppo, si è
realizzata su piani di comunicazione diversi : l'impatto visuale
(palcoscenico assolutamente disadorno, i musicisti vestiti di una
lunga tunica) e quello sonoro (strumenti "inventati"
utilizzando pezzi di legno, conchiglie, oggetti "primitivi"
o soprattutto l'uso della voce, così semplice, potente e
suggestivo) hanno finito per costruire una performance di
impossibile collocazione temporale, stilistica o
geografica. Accostato nel dépliant di presentazione del
MIMI Festival a David Hykes (l'anima dell'Harmonic Arts Society
americana, trapiantata a Parigi da qualche anno), Vitaly Fedko è
forse più orientato a ricerche vocali sul piano "umano"
e "concreto", piuttosto che ad atmosfere meditative o di
grande respiro cosmico. Fedko ha strutturato le sue composizioni
durante lunghi viaggi e ricerche: melodie popolari, brandelli di
poesia, addirittura un "grammelot" di parole che si
accendevano di senso, allusioni e significati come fuochi
d'artificio. Il suono delle "sue" voci porta in paesi
lontani, ma anche ai boschi qui vicini, alle onde del mare.
Geografie e distanze rimescolate, la memoria usata come una macchina
del tempo, con le leve e i bottoni dal senso sconosciuto, quadranti
impazziti e dai mille significati. Durante l'ultima serata del
Festival è stata presentata una selezione delle musiche
dell'opera "Halter skelter", da un'idea di Francois-Michel
Pesenti, composte e dirette da Fred Frith. L'esecuzione ha visto
impegnato l'ensemble Que d'la Gueule, formato da sedici giovani
musicisti dei quartieri "défavorisés" di
Marsiglia reclutati dall'amministrazione cittadina nell'ambito dei
locali progetti di sviluppo sociale.
In questa sede preferirei sorvolare sulle opinioni personali
riguardo l'aspetto socio-politico dell'iniziativa (sarebbe solo
un'altra discussione inutile sugli effetti deleteri di certi
osservatori e laboratori giovanili metropolitani!), per soffermarmi
invece sul fatto musicale in se stesso. Impossibilitato a
" muoversi" nei terreni del virtuosismo o comunque di una tecnica
musicale difficile, vista la giovane età media del gruppo e
l'esperienza presumibilmente nulla, Frith ha saputo comunque
trarre da questo progetto molti frutti succosi e soddisfazioni
sconfinate, catturando l'energia di ciascuno dei musicisti e
riuscendo a mantenere l'equilibrio sui fili tesi tra se stesso e
gli elementi "più bravi".
Le partiture sembravano dipinte sui muri della città: tonfi,
scontri, rumori molesti, i silenzi di certi momenti improvvisamente
infranti dal treno, o da un brutto sogno. Musiche da una città
di confine che era Marsiglia e che poteva essere una qualsiasi altra
metropoli fatta di industrie, periferie e basta: nessun compromesso,
ritmi incalzanti e confusi, strade che respirano, tensione e
vetri rotti. "C'est la naissance d'un monde", diceva
qualcuno. Piuttosto, è stato l'aprire gli occhi e gli orecchi
di fronte a qualcosa che muore. Un monito esplicito ed imbarazzante
a non vivere guardando la televisione come fosse la finestra che
dà giù in strada. Un invito ad andare fuori: in tutti
i sensi, con tutti i sensi.