Si è tenuta a Faenza, il 24 luglio, la giornata che il
Teatro dei Due Mondi ha dedicato a Julian Beck, fondatore e
figura più rappresentativa di quell'esperienza originale di
teatro, di lotta e di vita. Presentiamo in queste pagine la
sintesi della giornata, la relazione della nostra collaboratrice
Cristina Valenti ed una poesia del direttore del Teatro dei Due
Mondi
Sul rapporto "Teatro e Presente"
si è incentrata quest'anno la giornata che il Teatro Due
Mondi ha dedicato a Julian Beck (Faenza, 24 luglio 1991). La
giornata è iniziata la mattina, quando il senegalese Mangiai,
attore e cantastorie del Teatro delle Albe, ha raccontato ai bambini
le storie del suo paese e della sua gente; e si è conclusa la
sera con la dimostrazione di lavoro del Teatro dell'Oppresso (frutto
di un seminario nel corso del quale i partecipanti si sono allenati
a simulare e risolvere conflitti secondo i modi della non violenza)
e con lo spettacolo Ubu Re del Teatro Due Mondi, presentato
nella sua nuova versione "da piazza". Nel pomeriggio si è
svolta una tavola rotonda cui hanno partecipato intellettuali e
artisti di teatro: Eugenia Casini Ropa, Claudio Meldolesi e Cristina
Valenti, docenti dell'Università di Bologna, Marco
Martinelli, regista del gruppo teatrale interetnico Le Albe, Cesar
Brie e Naira Gonzales, fondatori del centro teatrale boliviano El
Teatro de los Andes, Richard Gough, studioso di teatro e regista del
gruppo gallese The Practice, Gigi Bertoni, drammaturgo del Teatro
Due Mondi. Pubblichiamo di seguito la presentazione della
giornata, uscita sul programma del festival del teatro Due Mondi
(Sulla Terra. A teatro con la luna - luglio 1991) e la
sintesi dell'intervento di Cristina Valenti alla tavola rotonda.
Teatro e presente
Cosa può fare il teatro quando il presente dichiara
guerra alla coscienza e agli ideali civili dell'uomo di teatro? Cosa
fa il teatro in tempo di guerra? Deve concentrarsi su se stesso,
affermando nel rigore della propria pratica sociale ed artistica la
costruzione di un universo etico alternativo, in opposizione alla
cultura di morte dei governi e alla propaganda bellicista dell'
informazione? Deve farsi fronte interno, sottrarsi alla logica
degli schieramenti e diventare veicolo di sensibilizzazione e
trasmissione per una cultura di pace: non solo rappresentando, ma
essendo di fatto, nell'anomalia del suo microcosmo relazionale, un
momento di irriducibilità e di disobbedienza civile? Le
giornate che dal 1986 l'Associazione per la Fondazione Julian Beck
ha dedicato al teatro vivente si sono tradizionalmente presentate
con questa frase: "Julian Beck ha dimostrato che l'atto
teatrale può farsi esperienza esistenziale e che il teatro
può farsi vivente: non rassegnazione, ma rivolta". In
nome di Julian Beck sono stati scelti ogni volta temi di impegno
civile e politico in grado di far interagire teatro e politica,
privilegiando esperienze di opposizione e denuncia vissute in prima
persona. Le prime tre edizioni, ospitate dal festival di
Sant'Arcangelo diretto da Roberto Bacci, sono state dedicate
rispettivamente a Julian Beck nel primo anniversario della morte
(1986), alle madri di Plaza de Mayo (1987), alla lotta contro lo
sfruttamento razzista in Europa (1988).
La quarta edizione, promossa ed accolta come la presente
all'interno del festival estivo del Teatro Due Mondi di Faenza, ha
avuto come tema l'obiezione di coscienza (1989) [Se ne veda il
resoconto in "A" n. 168]. A due anni di distanza, questo
quinto appuntamento si ricollega idealmente, e con drammatica
attualità, al precedente. Dicevamo allora che ritenevamo
necessario, in un momento in cui mass media, governi e sistemi
di potere non facevano altro che amplificare le tematiche
pacifiste e i vertici mondiali per il disarmo, non smobilitare il
nostro impegno diretto e in prima persona perché la politica
della pace-spettacolo nulla ha a che vedere con la cultura
dell'antimilitarismo e della non violenza. Pertanto, il convegno
organizzato in quella occasione ospitò obiettori totali e
civili in grado di testimoniare in prima persona delle esperienze di
opposizione al sistema militare in atto nei loro paesi. Durante
la guerra appena passata e nella drammatica pace che ne è
seguita, ci siamo resi conto che quello individuato allora era il
cuore del problema: la pratica di una cultura di pace che passasse
per le persone, che si facesse esperienza diretta, in grado di
resistere alla propaganda e ai sofismi sull'inevitabilità,
necessità o santità della guerra. E il
teatro? Abbiamo visto uomini di teatro affranti durante questa
guerra. L'iracheno Kassim Bayatly, che lavora da anni a costruire
ponti fra culture e tradizioni artistiche diverse, e che vedeva armi
decisamente sproporzionate rispetto a quelle del teatro distruggere
i ponti materiali del suo paese [si veda "A" n.181]; Marco
Martinelli e i suoi compagni delle Albe, che della ricchezza
dell'incontro fra etnie hanno fatto il fondamento del loro teatro
[vedi "A" n. 163 e 173]; Cesar Brie e Naira Gonzales, che
stavano decidendo di trasferirsi in Bolivia, a costruire una nuova
necessità per il loro teatro, in un paese di laceranti
tensioni sociali; Serena Urbani del Living Theatre, che invitava gli
artisti a fermarsi per opporre un silenzio di piombo al frastuono
della guerra; Antonio Neiwiller, Leo De' Berardinis e quanti, attori
e intellettuali, credono in un teatro di "emergenza", cioè
di diversità e minoranza, e quindi di coscienza.
E mentre l'America di Bush dispiegava la sua macchina da guerra
nella pretesa di insegnare al mondo le ragioni del diritto
internazionale, i sacri principi dell'autodeterminazione e della
libertà dei popoli, uno dei suoi figli più ribelli,
proprio il Living Theatre, girava l'Europa con uno spettacolo che
disseppelliva le radici di pensiero del suo più illustre
antenato, George Washington, per dimostrare che la filosofia di
relazioni sociali che egli formò ed espresse in età
giovanile attraverso le sue 110 Regole di Civiltà e di
Comportamento è la stessa che fa scegliere oggi
all'America l'opzione militare [sullo spettacolo, vedi "A"
n. 182]. Il teatro può essere ponte fra culture; può
materialmente realizzare, all'interno della propria eccezionale
dimensione microsociale, forme di convivenza interetnica; può
farsi esule ed emigrare verso il Sud del mondo, scegliendo ed
indicando un orientamento opposto a quello dello sfruttamento
internazionale delle risorse; può fermarsi, per offrire uno
spazio di quiete nello stordimento generale delle voci e delle
coscienze, oppure per riflettere sul proprio senso. E ritorna la
domanda di apertura: il che fare del teatro. Perché anche il
teatro maggiormente abituato ad interrogarsi sulle ragioni del suo
esistere si trova a dover sostenere le scosse delle vicende
che sconvolgono il mondo. E non solo in caso di guerra, ma ogni
qualvolta la particolare gravità del presente sembri fare del
teatro uno strumento inutile o inadeguato [...].
Per un teatro vivente
C'è un'immagine molto forte, in apertura di un bellissimo
libro che sto leggendo, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento,
scritto a quattro mani da Claudio Meldolesi e Ferdinando
Taviani. "Nell'autunno del 1848, da poco trascorso il bagno
di sangue in cui l'esercito aveva soffocato la rivolta operaia nelle
strade e nelle piazze di Parigi, un esiliato russo, aristocratico e
rivoluzionario, andò a teatro". Il rivoluzionario era
Aleksandr Herzen, l'uomo che aveva incarnato, prima che teorizzato,
la dottrina del populismo russo, affermando con la sua vita la
necessità che l'attività pratica si prendesse una
vendetta sulla filosofia: metafora antihegeliana di cui l'amico
Bakunin sarebbe diventato l'esempio vivente. E lo spettacolo era
Catilina di Dumas, rappresentato con crudo realismo al
Théàtre Historique. Di fronte a quella scena
ingombra di cadaveri di cartapesta e di corpi tinti artificialmente
di rosso, Herzen si sente mancare il fiato: troppo poco tempo era
passato da quando il sangue era corso davvero per le strade di
Parigi e corpi veri e giovani erano caduti senza vita. La finzione
sembra coprire di una veste impudica la tragica realtà di cui
il rivoluzionario è stato testimone. Colto da un accesso
isterico, Herzen abbandona furente il teatro. Commenta lo
storico: non si tratta di quella banalità secondo cui finché
c'è dolore e ingiustizia non ci dovrebbero essere arte e
gioia; si tratta di qualcosa di più emotivo e profondo: ci
sono fatti così terribili che "la loro stessa evidenza
toglie aria all'arte". Cosa significa? Per capire, pensiamo
al nostro disagio di spettatori durante la guerra del Golfo, e
ricordiamo ancora il disorientamento dei teatranti più
coscienti, in quello stesso periodo: il disagio di quanti hanno
sempre caratterizzato il proprio lavoro teatrale nel senso di un
impegno etico e civile nel presente. Comprendiamo che il significato
della frase va inteso alla lettera. Ci sono realtà atroci, la
guerra, la morte, la distruzione, che rendono soffocante il teatro:
come se il fuoco delle armi, bruciando da qualche parte lontano
dalle scene, ne consumasse l'ossigeno. Che fare allora? Uscire dal
teatro diventato asfittico per dare vita a qualche cosa d'altro,
sciogliendo la propria pratica artistica nel sociale? Oppure
rimanere nel teatro cercando di portare nuovo ossigeno
dentro? Sappiamo che il Living Theatre ha attraversato
esemplarmente l'incandescenza dei tempi, con limpidezza e coerenza;e
interroghiamo la sua esperienza. Cosa ha fatto il Living Theatre
quando il presente dei tempi imponeva alla coscienza ragioni
prioritarie ed impegni improcrastinabili? La risposta sembra
facile e scontata: il Living è uscito dal teatro. Quella
dell'uscita dal teatro è l'immagine che solitamente si
associa all'azione politica del Living. Il Living che nel '68
scelse le barricate parigine, che realizzò Paradise Now
per poi sciogliersi ed iniziare un'esistenza raminga presso comunità
reiette (il Brasile delle Favelas o l'America proletaria di Brooklyn
e Pittsburgh), che diede vita al ciclo dell'Eredità di Caino
per portare nelle strade e nelle piazze il messaggio della "bella
rivoluzione non violenta", alternando spettacoli ad azioni di
protesta, sit-in e manifestazioni spettacolarizzate in appoggio agli
scioperi e alle lotte. Ma è realmente uscito dal teatro il
Living Theatre? Consideriamo due momenti particolarmente
significativi della sua vicenda e le immagini alle quali siamo
abituati ad associarli. Il 1968 di Paradise Now, ovvero il
"passaggio all'azione"; e gli anni europei dal 1975 al
1983, ovvero il "nomadismo teatrale". Sono i momenti che
sembrano meglio sintetizzare l'affermazione utopica del Living
Theatre, quella di un teatro senza luogo, letteralmente: fuori del
teatro e perciò non-teatro. Ma vediamo i fatti più da
vicino. Fra l'inverno e la primavera 1967/68 il Living Theatre
soggiornò a Cefalù, in Sicilia, dove si dedicò
alla creazione di Paradise Now in una situazione di lavoro
aperto e collettivo. Quando arrivarono le notizie del terremoto
del Belice si profilò una spaccatura nel gruppo: alcuni
volevano abbandonare le prove per unirsi alle squadre di volontari
che si stavano organizzando in soccorso dei terremotati; Judith
Malina sostenne inflessibilmente la necessità di continuare a
lavorare allo spettacolo. Alcuni partirono, ma le prove andarono
avanti e Paradise Now debuttò al Festival di Avignone
il 23 luglio seguente per poi essere ritirato dopo solo cinque
repliche dal Living stesso, che abbandonò il Festival
rifiutandosi di apportare variazioni allo spettacolo
scandalo. L'altra immagine: il nomadismo teatrale e la rinuncia
al teatro. Dai diari di Julian Beck è possibile estrarre
alcuni dati: durante i nove anni in questione, il Living diede 810
rappresentazioni, delle quali 622 in teatro e 186 in strada,
raggiungendo un totale di quasi 400.000 spettatori. Il Living non
è mai "uscito dal teatro", evidentemente, la sua
azione di testimonianza e intervento nel presente non è
mai avvenuta a scapito del teatro. Piuttosto, il Living è
uscito dal "recinto", è sconfinato dalla riserva in
cui una certa cultura di teatro vuole circoscrivere l'arte
rappresentativa sottraendola di fatto alla sua dimensione
vivente. Il rapporto teatro e presente si configura, a ben
vedere, in termini paradossali. Il teatro è per eccellenza
arte del presente, svolgendosi in spazio-tempo reale e fondandosi
sulla relazione diretta attore-spettatore. Il presente è
statutariamente connaturato alla dimensione effimera del teatro ma
anche alla sua forza, alla sua pregnanza in presa diretta. Eppure
sembra che del teatro si possa parlare solo al passato: celebrandone
i fasti con atteggiamento museale. E il presente del teatro sembra
definibile solo nella sua propensione a divenire passato, e quindi
ad essere museificato, ricordato nelle sue emergenze spettacolari. A
questa propensione sfugge il teatro che non coincide col territorio
degli spettacoli, ma porta (o trova) il suo pubblico nelle
strade, guidandolo (o accompagnandolo) in azioni estemporanee e in
rituali collettivi: il teatro che non risolve la sua azione e i suoi
significati nella confezione del prodotto spettacolare, ma è
momento comunicativo e sociale complesso, luogo di sperimentazione
ed affermazione di valori originali. Così il Living, nel
momento in cui ha maggiormente corrisposto all'imperativo del teatro
di essere arte del presente, non è stato più
riconosciuto come teatro: si è detto che aveva rinunciato
alla sua missione artistica e se ne è cominciato a parlare al
passato, come di un monumento a quel che era stato. È il
paradosso di una certa cultura di teatro, che riconosce il teatro
laddove nega la sua specificità. Il Living ha saldato in
molti modi il presente del proprio teatro a quello degli
avvenimenti. Ma dall'insieme delle sue azioni non è possibile
trarre una ricetta per risolvere il rapporto teatro/presente, e
neppure un'indicazione ingenuamente consolatoria sulle possibilità
del teatro di cambiare il mondo. Il Living è uscito dal
teatro divenuto asfittico scegliendo l'ossigeno delle barricate o
quello dell'immigrazione e del nomadismo; oppure ha scelto di
restarci dentro a pieno titolo, anche quando il richiamo della
realtà esterna premeva: e dall'interno delle mura del teatro
ha fatto ardere la propria fiamma, consumando ossigeno, ma
accendendo fuochi. Questa è l'immagine finale di Julian
Beck, esanime, nell'Ospedale dei Dottori: "Se le bombe
non possono insegnare, come può farlo il teatro? -
scriveva nelle ultime pagine del suo diario artistico - Se la lunga
fila di corpi dilaniati prodotta dall'intero ventesimo secolo non
può insegnare, come può farlo il dramma?...".
Ma senza proporre soluzioni né modelli, una cosa ha
sempre continuato ad affermare, fino alla fine, con incrollabile
certezza: la necessità di fare teatro, di continuare comunque
a fare teatro: "Faccio teatro perché questa è la
bellezza che offro alla distruzione del mondo. Lo faccio perché
devo farlo".
Questo teatro muore, se...
Non so dove son nato io non so neanche chi sono. Non da
dove son venuto e nemmeno dove vado. Ramo da albero diviso non
so dove son caduto. Dove avrò le mie radici? Di quale
albero son ramo? (strofe popolari dì Boyacà,
Colombia)
Di quale albero son ramo?
appartengo al teatro, o piuttosto alla società
in cui vivo, se il teatro è comunque parte di questa? la
coscienza di essere porzione di qualcosa di complesso, di perdere
di vitalità se staccati dal tronco alimenta il
nostro lavoro. tu pensi a volte che essere artista sia
una fuga dal reale, sia sognare ad occhi chiusi. invece io
sogno ad occhi aperti, e vedono questi occhi cose così
forti che grande è la tentazione di chinare il capo
di quale albero son ramo? di qualcosa che non ha
confini, campanili o mari che separano di qualcosa che ci
rende tutti responsabili di qualcosa che ha foglie di diversi
colori e frutti, e fiori.
di quale teatro parlo, e parliamo?
di un teatro vivo che cresce se alimentato con acqua
fresca, giorno per giorno; albero sotto il quale riposare
per riflettere; con rami su cui arrampicarci per
guardare lontano e parlare, ben visti; con radici profonde,
piedi appoggiati a terra che sostengono fronde che lottano
col vento... a volte si perdono tra le nuvole ma comunque
sai che sono
questo teatro, se staccato dal tronco da cui è
nato, se allontanato dalla terra che lo alimentava, muore sulla
terra, vive sulla terra è ossigeno, ripara, unisce