Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 185
ottobre 1991


Rivista Anarchica Online

Teatro e società
di Cristina Valenti

Si è tenuta a Faenza, il 24 luglio, la giornata che il Teatro dei Due Mondi ha dedicato a Julian Beck, fondatore e figura più rappresentativa di quell'esperienza originale di teatro, di lotta e di vita. Presentiamo in queste pagine la sintesi della giornata, la relazione della nostra collaboratrice Cristina Valenti ed una poesia del direttore del Teatro dei Due Mondi

Sul rapporto "Teatro e Presente" si è incentrata quest'anno la giornata che il Teatro Due Mondi ha dedicato a Julian Beck (Faenza, 24 luglio 1991). La giornata è iniziata la mattina, quando il senegalese Mangiai, attore e cantastorie del Teatro delle Albe, ha raccontato ai bambini le storie del suo paese e della sua gente; e si è conclusa la sera con la dimostrazione di lavoro del Teatro dell'Oppresso (frutto di un seminario nel corso del quale i partecipanti si sono allenati a simulare e risolvere conflitti secondo i modi della non violenza) e con lo spettacolo Ubu Re del Teatro Due Mondi, presentato nella sua nuova versione "da piazza". Nel pomeriggio si è svolta una tavola rotonda cui hanno partecipato intellettuali e artisti di teatro: Eugenia Casini Ropa, Claudio Meldolesi e Cristina Valenti, docenti dell'Università di Bologna, Marco Martinelli, regista del gruppo teatrale interetnico Le Albe, Cesar Brie e Naira Gonzales, fondatori del centro teatrale boliviano El Teatro de los Andes, Richard Gough, studioso di teatro e regista del gruppo gallese The Practice, Gigi Bertoni, drammaturgo del Teatro Due Mondi. Pubblichiamo di seguito la presentazione della giornata, uscita sul programma del festival del teatro Due Mondi (Sulla Terra. A teatro con la luna - luglio 1991) e la sintesi dell'intervento di Cristina Valenti alla tavola rotonda.

Teatro e presente

Cosa può fare il teatro quando il presente dichiara guerra alla coscienza e agli ideali civili dell'uomo di teatro? Cosa fa il teatro in tempo di guerra? Deve concentrarsi su se stesso, affermando nel rigore della propria pratica sociale ed artistica la costruzione di un universo etico alternativo, in opposizione alla cultura di morte dei governi e alla propaganda bellicista dell' informazione? Deve farsi fronte interno, sottrarsi alla logica degli schieramenti e diventare veicolo di sensibilizzazione e trasmissione per una cultura di pace: non solo rappresentando, ma essendo di fatto, nell'anomalia del suo microcosmo relazionale, un momento di irriducibilità e di disobbedienza civile? Le giornate che dal 1986 l'Associazione per la Fondazione Julian Beck ha dedicato al teatro vivente si sono tradizionalmente presentate con questa frase: "Julian Beck ha dimostrato che l'atto teatrale può farsi esperienza esistenziale e che il teatro può farsi vivente: non rassegnazione, ma rivolta". In nome di Julian Beck sono stati scelti ogni volta temi di impegno civile e politico in grado di far interagire teatro e politica, privilegiando esperienze di opposizione e denuncia vissute in prima persona. Le prime tre edizioni, ospitate dal festival di Sant'Arcangelo diretto da Roberto Bacci, sono state dedicate rispettivamente a Julian Beck nel primo anniversario della morte (1986), alle madri di Plaza de Mayo (1987), alla lotta contro lo sfruttamento razzista in Europa (1988).
La quarta edizione, promossa ed accolta come la presente all'interno del festival estivo del Teatro Due Mondi di Faenza, ha avuto come tema l'obiezione di coscienza (1989) [Se ne veda il resoconto in "A" n. 168]. A due anni di distanza, questo quinto appuntamento si ricollega idealmente, e con drammatica attualità, al precedente. Dicevamo allora che ritenevamo necessario, in un momento in cui mass media, governi e sistemi di potere non facevano altro che amplificare le tematiche pacifiste e i vertici mondiali per il disarmo, non smobilitare il nostro impegno diretto e in prima persona perché la politica della pace-spettacolo nulla ha a che vedere con la cultura dell'antimilitarismo e della non violenza. Pertanto, il convegno organizzato in quella occasione ospitò obiettori totali e civili in grado di testimoniare in prima persona delle esperienze di opposizione al sistema militare in atto nei loro paesi. Durante la guerra appena passata e nella drammatica pace che ne è seguita, ci siamo resi conto che quello individuato allora era il cuore del problema: la pratica di una cultura di pace che passasse per le persone, che si facesse esperienza diretta, in grado di resistere alla propaganda e ai sofismi sull'inevitabilità, necessità o santità della guerra. E il teatro? Abbiamo visto uomini di teatro affranti durante questa guerra. L'iracheno Kassim Bayatly, che lavora da anni a costruire ponti fra culture e tradizioni artistiche diverse, e che vedeva armi decisamente sproporzionate rispetto a quelle del teatro distruggere i ponti materiali del suo paese [si veda "A" n.181]; Marco Martinelli e i suoi compagni delle Albe, che della ricchezza dell'incontro fra etnie hanno fatto il fondamento del loro teatro [vedi "A" n. 163 e 173]; Cesar Brie e Naira Gonzales, che stavano decidendo di trasferirsi in Bolivia, a costruire una nuova necessità per il loro teatro, in un paese di laceranti tensioni sociali; Serena Urbani del Living Theatre, che invitava gli artisti a fermarsi per opporre un silenzio di piombo al frastuono della guerra; Antonio Neiwiller, Leo De' Berardinis e quanti, attori e intellettuali, credono in un teatro di "emergenza", cioè di diversità e minoranza, e quindi di coscienza.
E mentre l'America di Bush dispiegava la sua macchina da guerra nella pretesa di insegnare al mondo le ragioni del diritto internazionale, i sacri principi dell'autodeterminazione e della libertà dei popoli, uno dei suoi figli più ribelli, proprio il Living Theatre, girava l'Europa con uno spettacolo che disseppelliva le radici di pensiero del suo più illustre antenato, George Washington, per dimostrare che la filosofia di relazioni sociali che egli formò ed espresse in età giovanile attraverso le sue 110 Regole di Civiltà e di Comportamento è la stessa che fa scegliere oggi all'America l'opzione militare [sullo spettacolo, vedi "A" n. 182]. Il teatro può essere ponte fra culture; può materialmente realizzare, all'interno della propria eccezionale dimensione microsociale, forme di convivenza interetnica; può farsi esule ed emigrare verso il Sud del mondo, scegliendo ed indicando un orientamento opposto a quello dello sfruttamento internazionale delle risorse; può fermarsi, per offrire uno spazio di quiete nello stordimento generale delle voci e delle coscienze, oppure per riflettere sul proprio senso. E ritorna la domanda di apertura: il che fare del teatro. Perché anche il teatro maggiormente abituato ad interrogarsi sulle ragioni del suo esistere si trova a dover sostenere le scosse delle vicende che sconvolgono il mondo. E non solo in caso di guerra, ma ogni qualvolta la particolare gravità del presente sembri fare del teatro uno strumento inutile o inadeguato [...].

Per un teatro vivente

C'è un'immagine molto forte, in apertura di un bellissimo libro che sto leggendo, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, scritto a quattro mani da Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani. "Nell'autunno del 1848, da poco trascorso il bagno di sangue in cui l'esercito aveva soffocato la rivolta operaia nelle strade e nelle piazze di Parigi, un esiliato russo, aristocratico e rivoluzionario, andò a teatro". Il rivoluzionario era Aleksandr Herzen, l'uomo che aveva incarnato, prima che teorizzato, la dottrina del populismo russo, affermando con la sua vita la necessità che l'attività pratica si prendesse una vendetta sulla filosofia: metafora antihegeliana di cui l'amico Bakunin sarebbe diventato l'esempio vivente. E lo spettacolo era Catilina di Dumas, rappresentato con crudo realismo al Théàtre Historique. Di fronte a quella scena ingombra di cadaveri di cartapesta e di corpi tinti artificialmente di rosso, Herzen si sente mancare il fiato: troppo poco tempo era passato da quando il sangue era corso davvero per le strade di Parigi e corpi veri e giovani erano caduti senza vita. La finzione sembra coprire di una veste impudica la tragica realtà di cui il rivoluzionario è stato testimone. Colto da un accesso isterico, Herzen abbandona furente il teatro. Commenta lo storico: non si tratta di quella banalità secondo cui finché c'è dolore e ingiustizia non ci dovrebbero essere arte e gioia; si tratta di qualcosa di più emotivo e profondo: ci sono fatti così terribili che "la loro stessa evidenza toglie aria all'arte". Cosa significa? Per capire, pensiamo al nostro disagio di spettatori durante la guerra del Golfo, e ricordiamo ancora il disorientamento dei teatranti più coscienti, in quello stesso periodo: il disagio di quanti hanno sempre caratterizzato il proprio lavoro teatrale nel senso di un impegno etico e civile nel presente. Comprendiamo che il significato della frase va inteso alla lettera. Ci sono realtà atroci, la guerra, la morte, la distruzione, che rendono soffocante il teatro: come se il fuoco delle armi, bruciando da qualche parte lontano dalle scene, ne consumasse l'ossigeno. Che fare allora? Uscire dal teatro diventato asfittico per dare vita a qualche cosa d'altro, sciogliendo la propria pratica artistica nel sociale? Oppure rimanere nel teatro cercando di portare nuovo ossigeno dentro? Sappiamo che il Living Theatre ha attraversato esemplarmente l'incandescenza dei tempi, con limpidezza e coerenza;e interroghiamo la sua esperienza. Cosa ha fatto il Living Theatre quando il presente dei tempi imponeva alla coscienza ragioni prioritarie ed impegni improcrastinabili? La risposta sembra facile e scontata: il Living è uscito dal teatro. Quella dell'uscita dal teatro è l'immagine che solitamente si associa all'azione politica del Living. Il Living che nel '68 scelse le barricate parigine, che realizzò Paradise Now per poi sciogliersi ed iniziare un'esistenza raminga presso comunità reiette (il Brasile delle Favelas o l'America proletaria di Brooklyn e Pittsburgh), che diede vita al ciclo dell'Eredità di Caino per portare nelle strade e nelle piazze il messaggio della "bella rivoluzione non violenta", alternando spettacoli ad azioni di protesta, sit-in e manifestazioni spettacolarizzate in appoggio agli scioperi e alle lotte. Ma è realmente uscito dal teatro il Living Theatre? Consideriamo due momenti particolarmente significativi della sua vicenda e le immagini alle quali siamo abituati ad associarli. Il 1968 di Paradise Now, ovvero il "passaggio all'azione"; e gli anni europei dal 1975 al 1983, ovvero il "nomadismo teatrale". Sono i momenti che sembrano meglio sintetizzare l'affermazione utopica del Living Theatre, quella di un teatro senza luogo, letteralmente: fuori del teatro e perciò non-teatro. Ma vediamo i fatti più da vicino.
Fra l'inverno e la primavera 1967/68 il Living Theatre soggiornò a Cefalù, in Sicilia, dove si dedicò alla creazione di Paradise Now in una situazione di lavoro aperto e collettivo. Quando arrivarono le notizie del terremoto del Belice si profilò una spaccatura nel gruppo: alcuni volevano abbandonare le prove per unirsi alle squadre di volontari che si stavano organizzando in soccorso dei terremotati; Judith Malina sostenne inflessibilmente la necessità di continuare a lavorare allo spettacolo. Alcuni partirono, ma le prove andarono avanti e Paradise Now debuttò al Festival di Avignone il 23 luglio seguente per poi essere ritirato dopo solo cinque repliche dal Living stesso, che abbandonò il Festival rifiutandosi di apportare variazioni allo spettacolo scandalo.
L'altra immagine: il nomadismo teatrale e la rinuncia al teatro. Dai diari di Julian Beck è possibile estrarre alcuni dati: durante i nove anni in questione, il Living diede 810 rappresentazioni, delle quali 622 in teatro e 186 in strada, raggiungendo un totale di quasi 400.000 spettatori. Il Living non è mai "uscito dal teatro", evidentemente, la sua azione di testimonianza e intervento nel presente non è mai avvenuta a scapito del teatro. Piuttosto, il Living è uscito dal "recinto", è sconfinato dalla riserva in cui una certa cultura di teatro vuole circoscrivere l'arte rappresentativa sottraendola di fatto alla sua dimensione vivente.
Il rapporto teatro e presente si configura, a ben vedere, in termini paradossali. Il teatro è per eccellenza arte del presente, svolgendosi in spazio-tempo reale e fondandosi sulla relazione diretta attore-spettatore. Il presente è statutariamente connaturato alla dimensione effimera del teatro ma anche alla sua forza, alla sua pregnanza in presa diretta. Eppure sembra che del teatro si possa parlare solo al passato: celebrandone i fasti con atteggiamento museale. E il presente del teatro sembra definibile solo nella sua propensione a divenire passato, e quindi ad essere museificato, ricordato nelle sue emergenze spettacolari. A questa propensione sfugge il teatro che non coincide col territorio degli spettacoli, ma porta (o trova) il suo pubblico nelle strade, guidandolo (o accompagnandolo) in azioni estemporanee e in rituali collettivi: il teatro che non risolve la sua azione e i suoi significati nella confezione del prodotto spettacolare, ma è momento comunicativo e sociale complesso, luogo di sperimentazione ed affermazione di valori originali. Così il Living, nel momento in cui ha maggiormente corrisposto all'imperativo del teatro di essere arte del presente, non è stato più riconosciuto come teatro: si è detto che aveva rinunciato alla sua missione artistica e se ne è cominciato a parlare al passato, come di un monumento a quel che era stato. È il paradosso di una certa cultura di teatro, che riconosce il teatro laddove nega la sua specificità.
Il Living ha saldato in molti modi il presente del proprio teatro a quello degli avvenimenti. Ma dall'insieme delle sue azioni non è possibile trarre una ricetta per risolvere il rapporto teatro/presente, e neppure un'indicazione ingenuamente consolatoria sulle possibilità del teatro di cambiare il mondo. Il Living è uscito dal teatro divenuto asfittico scegliendo l'ossigeno delle barricate o quello dell'immigrazione e del nomadismo; oppure ha scelto di restarci dentro a pieno titolo, anche quando il richiamo della realtà esterna premeva: e dall'interno delle mura del teatro ha fatto ardere la propria fiamma, consumando ossigeno, ma accendendo fuochi. Questa è l'immagine finale di Julian Beck, esanime, nell'Ospedale dei Dottori: "Se le bombe non possono insegnare, come può farlo il teatro? - scriveva nelle ultime pagine del suo diario artistico - Se la lunga fila di corpi dilaniati prodotta dall'intero ventesimo secolo non può insegnare, come può farlo il dramma?...".
Ma senza proporre soluzioni né modelli, una cosa ha sempre continuato ad affermare, fino alla fine, con incrollabile certezza: la necessità di fare teatro, di continuare comunque a fare teatro: "Faccio teatro perché questa è la bellezza che offro alla distruzione del mondo. Lo faccio perché devo farlo".

Questo teatro muore, se...

Non so dove son nato
io non so neanche chi sono.
Non da dove son venuto
e nemmeno dove vado.
Ramo da albero diviso
non so dove son caduto.
Dove avrò le mie radici?
Di quale albero son ramo?

(strofe popolari dì Boyacà, Colombia)

Di quale albero son ramo?

appartengo al teatro, o piuttosto alla
società in cui vivo, se il teatro è comunque
parte di questa?
la coscienza di essere porzione di qualcosa
di complesso, di perdere di vitalità se
staccati dal tronco alimenta il nostro
lavoro.
tu pensi a volte che essere artista sia una
fuga dal reale, sia sognare ad occhi chiusi.
invece io sogno ad occhi aperti, e vedono
questi occhi cose così forti che grande è
la tentazione di chinare il capo

di quale albero son ramo?
di qualcosa che non ha confini, campanili o
mari che separano
di qualcosa che ci rende tutti responsabili
di qualcosa che ha foglie di diversi colori
e frutti, e fiori.

di quale teatro parlo, e parliamo?

di un teatro vivo che cresce se alimentato
con acqua fresca,
giorno per giorno;
albero sotto il quale riposare per
riflettere;
con rami su cui arrampicarci per guardare
lontano e parlare,
ben visti;
con radici profonde, piedi appoggiati a
terra che sostengono fronde che lottano col
vento...
a volte si perdono tra le nuvole ma
comunque sai che sono

questo teatro, se staccato dal tronco da
cui è nato,
se allontanato dalla terra che lo
alimentava,
muore
sulla terra, vive
sulla terra è ossigeno, ripara, unisce


Alberto Grilli
(regista del Teatro Due Mondi)